di Alberto Prunetti

donnaindiana.jpgL’India dei 25mila suicidi tra i contadini negli ultimi dieci anni, degli intoccabili (il 22 percento della popolazione), dei 260 milioni di persone che vivono con meno di mezzo dollaro al giorno, dei 90 milioni di tribali, ampiamente discriminati; l’India del fanatismo integralista indù che ha scatenato pogrom antimusulmani come quello del Gujarat e cerca di segmentare per caste, tribù, religioni ed etnie lo spazio pubblico; l’India che è al 39 per cento analfabeta; l’India dei matrimoni combinati, delle vedove ragazzine, delle donne che devono chiedere il permesso alla suocera per uscire di casa; e poi l’India del PIL in ascesa continua (almeno fino a poco tempo fa), l’India degli ingegneri di software, delle automobili TATA. Sono tante le Indie che si moltiplicano tra esperienza e stereotipo. Tra i tanti volti dell’India, c’è anche quello che confina le donne in un ruolo pesantemente subalterno rispetto agli uomini.

Al riguardo, Amartya Sen ha riassunto in maniera brillante alcune delle più gravi problematiche in L’altra India, un saggio che contiene un capitolo su tematiche di genere in cui l’autore rielabora un articolo pubblicato su “Frontline” (Many Faces of Gender Inequality). Dopo aver sottolineato l’importanza non solo del benessere delle donne, ma anche del loro ruolo attivo, Sen indica una serie di disuguaglianze della società indiana rispetto al genere, così riassumibili:
_disuguaglianza nella sopravvivenza, di cui è esemplare l’alto tasso di mortalità femminile, dovuto alle minori cure mediche fornite alle donne e agli svantaggi nell’alimentazione (spesso le donne delle zone rurali sono denutrite rispetto al marito e ai fratelli);
_disuguaglianza nella natalità, attraverso gli aborti selettivi (per cui si è parlato di “donne mancanti”, indicando il femminicidio preventivo messo in campo contro le neonate). Per mitigare questo fenomeno il governo ha reso illegale l’accertamento del sesso del feto.
_disuguaglianza nelle opportunità, illustrata dal fatto che le ragazze hanno meno possibilità di andare a scuola, di accedere ad attività pubbliche e/o professionali, con esiti negativi nella partecipazione sociale e politica (in particolare il quadro dell’analfabetismo femminile è particolarmente grave, con solo il 54 per cento delle donne alfabetizzate);
_disuguaglianza nella proprietà, che rende difficile alle donne intraprendere un’attività commerciale, ma anche, aggiungerei, rende difficile separarsi dal marito, da cui questa continua a dipendere;
_diseguale condivisione dei benefici e dei carichi domestici, che sono distribuiti sulle spalle delle donne senza che venga loro attribuito il giusto riconoscimento.

A questo quadro sintetico della discriminazione contro le donne in India, bisognerà aggiungere il peso delle violenze domestiche, assieme all’impossibilità di poter decidere sul senso della propria esistenza o sulla propria vita affettiva. Considerati tutti gli aspetti elencati sopra, ne risulta che l’aspettativa media di vita di una donna indiana non supera i 54 anni, secondo il Global Gender Gap Report 2008.

Va però sottolineato che le disuguaglianze di genere non si trovano solo in India, ma esistono anche in Europa, negli Stati Uniti e in quello che viene definito “Occidente”, qualsiasi cosa si indichi con questo termine. L’India ha una pessima posizione nel Global Gender Gap Report del 2008 (113), ma l’Italia non brilla con la sua 67a posizione (era alla posizione numero 84 nel 2007). Gli Stati Uniti, esempio illustre di una democrazia liberale, sono solo al 31 posto, sorpassati da molti stati africani, dallo Sri Lanka e dalle Filippine.

Più nel dettaglio, si può dire che la situazione delle disuguaglianze non può essere analizzata solo sull’asse del genere, ma ci sono varianti fondamentali (come la classe, la provenienza geografica e la casta, almeno in India) che contano in maniera considerevole. Può darsi allora il caso che alcune donne, soprattutto se anziane e di casta alta, possano avere un ruolo rilevante nella società indiana, soprattutto in ambito politico. Sen sostiene che “ci sono state più dirigenti donne nella lotta dell’India per l’indipendenza che nel movimento rivoluzionario russo o in quello cinese, e il Partito del Congresso ha avuto per presidente una donna cinquant’anni prima di qualsiasi grande partito britannico”. L’economista indiano aggiunge “di aver visto diminuire, passando dall’università di Delhi a quella di Oxford e poi a quella di Harvard, la proporzione delle donne fra i […]colleghi di ruolo”.

Un altro elemento interessante è il fatto che l’India ha ai vertici della propria politica delle donne, e tra queste addirittura una donna straniera, l’italiana Sonia Gandhi. In realtà, nonostante la situazione dei rapporti di genere in India sia grave, Sen può sostenere che “l’India, il Bangladesh, il Pakistan e lo Sri Lanka hanno o hanno avuto delle donne a capo del governo” o a capo dei più influenti partiti nazionali, cosa che non è mai successa in Italia.
Credo che questa discrepanza si spieghi con il fatto che quando diciamo “donne” spesso utilizziamo un termine che si riferisce a realtà diverse, a seconda dell’età, della classe, della casta. Osserva Bhikhu Parekh: “[…] in alcune società le donne sono viste come inferiori quando sono giovani o non sposate, ma sono stimate e hanno una superiorità sugli uomini quando raggiungono una certa età”. Il problema, aggiungo io, è che per ottenere una qualche stima sociale bisogna prima diventare nonne, condurre una vita virtuosa, o dimostrare agli uomini di avere qualità non comuni. Cioè in ogni caso piegarsi di fronte al paternalismo maschile. Forse così si spiega questo apparente paradosso: l’esistenza di società sessiste che “al tempo stesso mostrano di accettare, e persino di gradire, leader donne in ogni ambito sociale”.

Lo status delle donne in India pertanto non è stabile, ma cambia in funzione di variabili di età, classe, casta. La stessa persona quindi potrebbe avere uno status diverso nel corso della propria esistenza e se le giovani donne indiane appaiono subordinate agli occhi di un osservatore occidentale, può darsi il caso che un’anziana donna italiana, abbandonata in un ospizio o davanti a uno schermo televisivo, appaia diminuita nel suo status agli occhi di un osservatore indiano.

Quel che voglio dire è che sarebbe assurdo guardare all’India sulla base della falsa contrapposizione “donne indiane subalterne” vs “donne occidentali emancipate”. La realtà è più complessa e stratificata, e probabilmente proprio in India, dove la discriminazione di genere ha tratti tanto evidenti, si trovano alcune delle più interessanti forme di autorganizzazione politica femminile.

Un esempio rilevante è quello di Sewa (Self Employed Women Association), un sindacato autonomo fondato da Ela Bhatt che raccoglie un milione di donne attive nel lavoro domestico e informale, per la maggior parte provenienti dalla regione del Gujarat, da anni impegnato su progetti afferenti a salute, controllo delle nascite, welfare, microcredito, alfabetizzazione.

Quello di Sewa è un caso clamoroso, analizzato spesso dalla letteratura femminista. Vorrei però concludere citando un caso meno noto eppure ugualmente rilevante, che mi è stato raccontato in India. E’ il caso di Nagamma, una vedova adivasi (alla lettera: abitanti originari, cioè una donna indigena) di quarant’anni, sposata a 14 anni, che sta battendosi contro la famiglia del marito. Nagamma ha iniziato una sua personale protesta e pretende dal governo una casa e un microprestito per avere l’indipendenza finanziaria, ovvero per potersi sostentare senza essere schiava dei parenti del marito, che l’hanno ridotta letteralmente in stato di servitù appellandosi alla tradizione comunitaria. Ho ascoltato la sua storia prima di riprendere il mio cammino, lasciandomi l’India alle spalle. Poi sono montato sull’aereo e i giornali che ho trovato sul mio sedile mi parlavano dell’India dal Pil algebrico, delle automobili Tata e del software della Silicon Valley di Bangalore. Ma io continuavo a pensare a quella donna analfabeta che in una capanna da qualche parte, nella giungla, lotta per la sua autodeterminazione. E’ questa l’immagine dell’India che mi è rimasta addosso.