di Luca Barbieri

Autonomi5.jpgQui le precedenti puntate.

c) 2002 – Si consente la riproduzione parziale o totale dell’opera e la sua diffusione per via telematica, purché non a scopi commerciali e a condizione che questa dicitura sia riprodotta.

Infine il Manifesto che dedica alla sentenza un titolo d’apertura a nove colonne in prima pagina: “Crolla il teorema 7 aprile”. Nel sommario: “Sentenza d’appello: l’insurrezione non esiste. Potere operaio non era una banda armata. Molti assolti, pene ridimensionate”. Il Manifesto vive la sentenza come una vittoria arrivata dopo una lunga battaglia. Tutta pagina due è dedicata al caso. Una grande tabella, nome per nome, riporta tutta la sentenza. Più volte si fa riferimento alla condanna a Mario Dalmaviva per banda armata (già ampiamente scontata con il carcere preventivo) come l’unica nota stonata della sentenza. L’editoriale, intitolato “Una riparazione”, spetta ovviamente a Rossana Rossanda che ricostruisce la lunga battaglia del suo giornale:

I grandi sostenitori del delirio del procuratore padovano Calogero, del primo pentito, ancorché assassino comune, Fioroni e delle leggi speciali sono stati un drappello di magistrati, avvocati, giornalisti e dirigenti comunisti, con il codazzo ossequente dell’Unità e di Repubblica. […] Un uomo come Luciano Ferrari Bravo, ieri assolto, fu condannato in primo grado a 14 anni e 5 ne aveva già fatti in carcere. Chi glieli restituirà? […] Forse l’Espresso, che regalò ai lettori la voce del telefonista delle BR a Eleonora Moro, perché fosse riconosciuta come quella di Negri? Repubblica che ne titolò festosamente l’arresto come capo delle BR a piena pagina? Questa non è stata soltanto una pagina scandalosa della giustizia italiana, come rilevava da tempo Amnesty International. E’ stata una storia di silenzi, codardi e coperture.[…] Istituzioni e stampa hanno contribuito indecentemente a un’operazione politica bassa, la più bassa della magistratura della repubblica. […] Abbiamo contato sulla punta delle dita giuristi e intellettuali disposti a spendere impegno e riflessione, a trovare abominevole che un’idea politica che si poteva non condividere affatto fosse consegnata non alla lotta politica ma a un trucco giudiziario.

Siamo agli sgoccioli. La storia processuale del 7 aprile sta finendo. C’è solo una piccola coda. Il 5 ottobre del 1988 la Prima sezione penale della Cassazione, presieduta da Corrado Carnevali, conferma la sentenza d’appello. Forse anche per l’assenza di particolari novità la notizia viene data con scarso rilievo dai quotidiani. Repubblica con Franco Scottoni titola “L’ultima parola sul caso 7 aprile, la Cassazione conferma le condanne”. L’articolo, con il nucleo della notizia ridotto a poche righe, fa una lunga ricostruzione della vicenda evidenziando, tappa per tappa il «naufragio» del teorema Calogero. “7 aprile, condanne definitive”, è invece il titolo dell’Unità.

La storia processuale del 7 aprile finisce qui. Sono passati nove anni dall’inizio dell’intera vicenda. Rileggendo la storia a freddo, la sproporzione tra le accuse iniziali e quelle accertate appare in tutta la sua grandezza. Il “sistema” dei quotidiani sembra invece impermeabile. Da un quotidiano ci si attenderebbe una sostanziale aderenza ai fatti. Tanto più a quelli accertati dalla magistratura. E se i fatti accertati si discostano da quelli precedentemente raccontati forse è opportuna qualche considerazione per spiegare ai lettori la logica di un itinerario narrativo che altrimenti rischia di sembrare schizofrenico. Un certo riequilibrio lo abbiamo già notato per Repubblica. L’Unità, all’estremo opposto, interpreta ogni fatto come conferma della propria impostazione.

10. Schegge

Il 7 aprile 1989 il caso “7 aprile” compie dieci anni. La ricorrenza non passa inosservata. Repubblica dedica all’avvenimento un articolo di Antonello Caporale, “Negri festeggia a Parigi il «ritorno alla legalità»”. Un pezzo che, partendo da un’intervista telefonica a Negri, ricostruisce le tappe principali della vicenda giudiziaria. In mezzo, infilata non si sa come e perché, tra la chiacchierata con Negri e la ricostruzione, anche una notizia che crea solo confusione: «Nel decennale si sono fatte vive anche le BR. Hanno recapitato alla sede romana dell’Ansa una copia dell’ultimo volantino del “Partito Comunista Combattente”. Nel volantino si attaccano il presidente del Consiglio, il ministro dell’Interno, il capo della polizia, l’Alto commissario per la lotta alla mafia e il nuovo questore di Roma». Da segnalare che Caporale, narrando la nascita dell’inchiesta, mette nero su bianco l’impegno del PCI a sostegno dell’inchiesta. Un fatto che nell’arco di dieci anni non era mai stato detto esplicitamente, se non sull’Espresso a firma di Nicotri. «E’ proprio la federazione comunista padovana a decidere di collaborare attivamente con la magistratura, in particolare con il sostituto procuratore della Repubblica Pietro Calogero. E’ sulla base di testimonianze di alcuni ex militanti di Potere operaio passati al PCI che scatta la prima retata».
Il Corriere della Sera ha mandato il proprio corrispondente a Parigi, Ulderico Munzi, alla “festa” per il decennale organizzata dai fuoriusciti italiani. L’articolo, dal tono molto aspro, si intitola “7 aprile: Negri saluta con un marameo”. E nel sottotitolo: “Champagne e danze al ritmo di Belafonte per il professore degli anni di piombo”. Nel sommario: “L’ex leader di Autonomia operaia: «Non siamo invisibili come nel film di Squitieri. Siamo concreti» – Per Morelli un cappellino con le trecce di Gullit — L’Italia descritta come una dittatura latino-americana — Monologhi da volantino della lotta armata”. A fianco al pezzo un box, “Imposimato: è l’ora del perdono”, che riporta le dichiarazioni dell’ex giudice ora senatore del PCI. A pagina 12 il Corriere pubblica anche un intervento del professor Angelo Ventura.
Il Manifesto di sabato 8 aprile ricorda il 7 aprile ’79 con un’intera pagina della cultura che riporta i titoli dei principali quotidiani dell’epoca. La pagina, curata da Andrea Colombo e Ida Dominjanni, vede in testa un fondo di Valentino Parlato, “Perché ricordare” e poi un’analisi dei titoli e dei pezzi pubblicati nei giorni successivi al Blitz da Manifesto, Avanti, Unità, Corriere della Sera, Giornale, Repubblica e Stampa, intitolata “Dieci anni di piombo” e raccolta sotto l’occhiello “8 aprile 1979. Dopo gli arresti comincia il processo a mezzo stampa”. L’operazione del giornale viene spiegata nel fondo di Parlato:

Quando riportiamo i titoli degli altri giornali di dieci anni fa non è per metterli alla gogna, per dire che noi eravamo bravi e loro no, che noi eravamo democratici e loro liberticidi. Ricordiamo quei tempi — nel 1978 era stato ammazzato Aldo Moro insieme con altre cinque persone — e sappiamo che gli errori, tragici, della stampa di quei giorni erano la banalità del senso comune di allora. […] Ricordiamo quel 7 aprile del 1979 soprattutto per ricordare, perché la gente non perda la memoria, per contrastare un processo di destoricizzazione nel quale le soggettività si disfano, nel quale si può affermare oggi quel che si negava ieri, e senza la memoria di ieri. […] Bisogna ricordare il 7 aprile di dieci anni fa perché oggi non si possa più scrivere — sia pure con supposta freddezza analitica, come fa il Corsera di mercoledì 5 aprile — che “in conclusione, se gli arresti del 7 aprile si risolsero in un errore giudiziario e in anni di sofferenze per persone che sarebbero state assolte, politicamente l’operazione fu un successo perché tolse l’acqua alla rivolta armata, cioè colpì indirettamente quell’area (politicamente e militarmente poco definibile) di simpatia o consenso in cui essa reclutava”. Un’affermazione di questo tipo lo può fare solo chi ha dimenticato che fu il 7 aprile e si immagina che tutti gli altri lo abbiano dimenticato. E’ un’affermazione che si può fare solo dopo l’affermazione del reale. Altrimenti è la più sordida apologia della più stupida delle ragion di stato.

Dieci anniversari per il 7 aprile forse sono anche troppi. D’ora in poi è Negri il veicolo delle rievocazioni. Solo i giornali locali, il Mattino e il Gazzettino ricordano e riallacciano, anche con estrema competenza e problematicità a 20 anni dal 7 aprile, i fili della vicenda, aiutati in questo dalla patavinitas di gran parte degli imputati, testimoni viventi (finché in vita appunto) di questa strana storia.

Il resto sono sprazzi assolutamente sconnessi.
Nel 1993 un articolo di Negri viene pubblicato dal Giorno. Un gruppo di giornalisti protesta, polemiche si registrano su tutti i quotidiani perché c’è chi sostiene che non sia il caso di pubblicare suoi articoli.
Nel 1995 Negri viene intervistato da Piero Chiambretti per la puntata del Laureato (trasmissione televisiva in onda su RaiTre) registrata a Padova. «Adesso la polemica si riapre: è giusto far parlare Negri? Il rettore Gilberto Muraro precisa che l’ateneo metterà a disposizione di Chiambretti solo l’aula e che il Bo ha docenti più rappresentativi di Toni Negri cui dare la parola. Chi saranno gli ospiti?», scrive il Corriere.

Il nove aprile del 1997 il Corriere a firma di Albino Salmaso parla del probabile ritorno di Calogero a Padova per ricoprire la carica di Procuratore Capo.

Pietro Calogero, il pm dell’inchiesta «7 aprile» potrebbe diventare il nuovo procuratore della repubblica di Padova, poltrona lasciata vacante dalla morte di Giovanni Cassano. La commissione incarichi direttivi del Csm, infatti, l’11 febbraio scorso ha approvato con quattro voti su cinque proprio la nomina del pm conosciuto per la sua inchiesta su Autonomia Operaia Organizzata, che portò in carcere una ventina di persone tra le quali Oreste Scalzone, Franco Piperno e Toni Negri, allora professore universitario a Padova, che oggi vive a Parigi dopo la condanna di primo grado che gli è stata comminata dai giudici romani. La candidatura di Calogero, avanzata da Antonio Patrono, presidente della commissione incarichi direttivi, ora attende di essere votata dal Plenum del Csm e di «concerto» firmata dal ministro Flick. In corsa per la carica di procuratore della Repubblica a Padova ci sono anche i giudici Stefano Dragone e Francesco Aliprandi. La candidatura di Calogero, attualmente sostituto procuratore in Corte d’Appello a Venezia, è stata motivata con le «attitudini specifiche di particolare rilievo» maturate nel corso della carriera. Nato in provincia di Messina sessantadue anni fa, Calogero ha iniziato la sua attività a Treviso e con il Giudice Stiz ha indagato sulle trame nere di Freda e Ventura. A Padova preparò il blitz del 7 aprile 1979 che portò 134 imputati a processo. Tra gli inquisiti anche Toni Negri, che proprio l’altro ieri è stato intervistato dagli autonomi di radio Sherwood, durante un sit-in organizzato nella facoltà di Scienze politiche. Negri ha detto di condividere la proposta di amnistia per gli anni di piombo lanciata da Cossiga e ha attaccato Calogero e «gli stalinisti del Pci che sostennero il suo teorema».

Il primo luglio del 1997 Toni Negri torna in Italia. Gli rimangono alcuni anni di carcere ancora da scontare. L’intento del professore è politico: riuscire a riaprire una finestra per l’ipotesi dell’amnistia. Il ritorno di Negri è soprattutto un grande evento mediatico, seguito da televisioni e quotidiani.
L’Unità dedica all’evento tutta pagina 4 del giornale. Un articolo di cronaca di Roberto Rossani, “Toni Negri torna e va a Rebibbia. «Io, ultimo giapponese che si arrende»”. Poi un’intervista a Palombarini di Aldo Varano “Palombarini: «Apprezzo il gesto voltiamo pagina con l’indulto» (nel sommario: “Il terrorismo è stato sconfitto. Anche Negri torna e dice: sono un vinto. Oltre le leggi dell’emergenza. Un cattivo maestro? Allora ce ne furono tanti…”). Di spalla il ritratto di Negri: soprendentemente l’Unità ripubblica, sotto il titolo “Le sue non sono astrazioni”, l’articolo di Walter Tobagi che il Corriere della Sera pubblicò l’8 aprile del 1979 (allora il titolo del Corsera, che pubblicò il pezzo in prima pagina, era “Toni Negri, il profeta del rifiuto del lavoro”). In fondo un articolo di Ritanna Armeni “Quei terribili anni Settanta stretti dal terrorismo” e nel sommario “Il tentativo fallito di dare una base di massa all’attacco contro lo Stato. Il teorema Calogero e gli arresti del 7 aprile 1979”. Ma nonostante queste premesse, al 7 aprile vengono dedicate solamente le ultimissime righe dell’articolo che invece corre lungo una rievocazione che parte dal ’68 per arrivare al ’77. «E’ del 7 aprile 1979 l’imputazione ai capi dell’autonomia di insurrezione armata contro i poteri dello stato e partecipazione a banda armata. Sono loro, secondo il giudice Guido Calogero (sic!) i capi delle BR. L’autonomia operaia è sotto accusa. Si difende mentre l’opinione pubblica e gli stessi partiti si dividono. E gli attentati continuano. Andranno avanti fino a metà degli anni ’80». Questo, in un’intera pagina è il riferimento più esplicito al 7 aprile. Insomma, chi volesse sapere per cosa è stato condannato Toni Negri non ha speranze.
Anche il Corriere della Sera non riesce a far molto meglio. Ci prova, è vero, con un grafico che dovrebbe riportare le tappe principali della vicenda giudiziaria: ma oltre ad indicare nel 1970 la nascita di Potere operaio, veramente non si capisce per cosa, di specifico, Negri sia stato condannato. L’articolo di cronaca è di Ester Palma, “Toni Negri torna in cella: sono in paradiso”. Queste le poche righe dedicate alla storia del 7 aprile: «Le vicende giudiziarie di Negri erano iniziate il 7 aprile 1979 quando era stato arrestato per associazione sovversiva e banda armata insieme a 21 compagni di Autonomia operaia. Il 26 giugno dell’83 era stato eletto onorevole nelle file dei radicali e per questo era uscito da Rebibbia. Alla vigilia della concessione dell’autorizzazione a procedere della Camera, il professore fece poi le valigie per Parigi. Fra accuse e processi il conto finale è di 4 anni e 11 mesi ancora da scontare». Sul volo Parigi-Roma il Corriere ha imbarcato anche un cronista. Ne scaturisce un ritratto di Negri: “Ripensamenti? Mi sarebbe piaciuto imitare Alberto Sordi: lavoratori, tiè…”. Nel taglio basso della pagina due interviste: una a Marco Pannella (“Non mi pento della sua elezione. Fu una limpida battaglia di diritto”) e una al professor Petter (“Lui ha responsabilità morali e non è perseguitato politico”).
Repubblica nemmeno ci prova. “Toni Negri atterra a Rebibbia”, titola a pagina 21. Nel sommario: “Il professore in carcere: tornerò a far politica dall’anno zero”. In più, come il Corriere, un’intervista a Petter. Al 7 aprile, all’inchiesta Calogero, al motivo insomma per cui Negri deve ancora scontare anni di carcere, nemmeno una riga.
Solo Gianni Riotta, che avevamo trovato nel 1983 all’apertura del processo romano, ricostruisce (sul Corriere di fine giugno, prima del rientro) con pazienza il percorso politico giudiziario del personaggio facendo riemergere nomi che sembravano sprofondati nell’oblio:

Quanti lettori possono, a memoria, citare gli estremi del «caso Negri»? I magistrati lo accusarono dapprima di essere il «Grande Vecchio» delle Brigate Rosse. In attesa di giudizio, Negri passò anni nei carceri speciali, insieme agli imputati del «7 aprile». Oggi i garantisti sono tanti, coccolati e spesso troppo chiassosi. Ma chi ricorda la solitudine del vignettista Dalmaviva, del professor Ferrari Bravo, dell’architetto Magnaghi? Arrestati per terrorismo, fece ro anni di carcere duro, per poi finire assolti. Diversa la sorte di Negri, più ambigue le responsabilità, più confuso il profilo. Rossana Rossanda, che pure si batté per la scarcerazione, riconosce in lui «un versante luciferino». La sua condanna si deve al concorso morale per la morte del maresciallo Lombardi ad Argelato, ad associazione sovversiva e banda armata. Chi legge questo giornale, ed è nato in quegli anni terribili, faticherà a orientarsi nell’odio, nelle divisioni, nei rancori d i allora. Negri, «il cattivo maestro», fu accusato di irresponsabilità, per avere elogiato la sovversione mentre tanti dei suoi allievi non discettavano di Sorel, ma sprangavano e ammazzavano. Lui si difendeva, citando il diritto di parola. I magistrati insistevano su prove, indizi, reati. Le autorità francesi hanno sempre creduto più a Negri che ai colleghi italiani.

Per i giorni seguenti il dibattito sul tema dell’indulto, della grazia (anche della “semi-grazia”) è rovente. Come sempre non se ne farà nulla ma il caos sui quotidiani è grande, tra Francesca Mambro che dice a Toni Negri “Abbiamo ucciso, dobbiamo solo stare zitti” (Corriere della Sera, 4 luglio 1997) e editorialisti che interpretano il ritorno di Toni Negri un po’ come vogliono (“Le ambiguità di quel ritorno dalla Francia” di Vittorio Grevi). Sul Corriere non può mancare il commento di Leo Valiani, “Non si può perdonarli in blocco. La politica non è un’attenuante”, incentrato sull’ipotesi dell’indulto. «Sarebbe opportuno che fosse smentita la voce che parla di un nesso fra la costituzione alla polizia italiana del latitante professor Antonio Negri, che dovrebbe scontare ancora alcuni anni di carcere per una rapina commessa a scopi di autofinanziamento politico-sovversivo, nel quale venne commesso un omicidio, e la promulgazione di un indulto generalizzato agli ex terroristi. Fra i due tipi di eventi non dovrebbe esserci alcun collegamento, Negri potrebbe essere del tutto innocente di quell’omicidio. In tal caso andrebbe graziato incondizionatamente». Ma non c’è solo la discussione sui provvedimenti di grazia. Si parla anche della ripubblicazione dei testi di Negri, fatta da Castelvecchi (“I libri del rogo”), cui il professore dedica una nuova prefazione (“Toni Negri torna a proporre l’assalto al cielo”, sul Corriere del 6 luglio 1997).

Nell’agosto del 1999 Toni Negri, che già da un anno è stato ammesso al lavoro esterno al carcere con la Caritas, ottiene la semilibertà. Il provvedimento è pretesto per battibecchi politici puntualmente riportati da Repubblica. «”E’ una decisione sconcertante”, ha tuonato Maurizio Gasparri, vicepresidente di An alla Camera. “Quanti hanno irresponsabilmente concesso la semilibertà all’ex leader di Autonomia operaia evidentemente non si sono accorti del ritorno delle Brigate Rosse”. […] Sulla stessa linea di Gasparri un altro esponente di An, Mirko Tremaglia: “Non bisogna dimenticare che fu il capo delle bande di autonomia e che costituisce un pericolo permanente per la sicurezza e per la legalità». “Toni Negri semilibero tra polemiche” titola invece il Corriere. «Suo malgrado, dunque, il filosofo padovano indicato dagli investigatori come l’ideologo di «Autonomia operaia» (il suo nome comparve per la prima volta in una inchiesta nel ’79, quando il pubblico ministero Pietro Calogero dispose anche l’arresto di un’altra ventina di esponenti di «Autonomia operaia» tra cui Franco Piperno e Oreste Scalzone) si ritrova così al centro dell’attenzione generale».

Sono pochi sprazzi di anni Novanta. Il 7 aprile non esiste più. E’ solo una data nella biografia di Toni Negri. Che a sua volta è diventato un luogo comune. E così le espressioni che lo accompagnano: cattivo maestro, eversore. Non vogliono dire più nulla di concreto perché non sono riallacciate a nessun fatto storico. Sono gettate lì, decontestualizzate e private di ogni senso storico.

11. Cortocircuiti

Il 12 febbraio del 2001 Padova si risveglia con un nuovo incubo. La sera precedente un agente immobiliare, Walter Boscolo, è stato freddato in un appartamento di via San Francesco. Il suo omicidio ricorda da vicino un omicidio avvenuto il 21 gennaio. Si fa strada l’ipotesi di un serial killer. Il 12 febbraio un altro delitto: nel cortile di un istituto universitario al Portello viene ritrovato un cadavere bruciato. E’ quello del Professor Luigi Pasimeni, docente di chimica dell’Università di Padova. Il dubbio che anche questo delitto sia attribuibile al serial killer dura lo spazio di un giorno. Il giorno dopo, il 13, il figlio ammetterà la responsabilità del parricidio. Ma sui quotidiani del 13 bisogna registrare strane coincidenze. Quasi un blackout cognitivo: per descrivere Padova, città sotto l’assedio delle forze dell’ordine, rispuntano, in modi diversi, accenni alla storia che stiamo esaminando.
Il Corriere della Sera pubblica una breve intervista al professor Sabino Acquaviva: «Tutto è cominciato 30 anni fa, quando sull’asse Padova-Mestre si è sviluppata l’area metropolitana del Triveneto. E’ a quel punto che si è spezzata la struttura sociale fondata su una società agricola a forte vocazione cattolica. I giovani si sono trovati allo sbando. In una prima fase si sono sviluppati fenomeni come il terrorismo e Potere Operaio». Repubblica parla di una città che ricorda gli anni tesi degli anni Settanta. Un cronista della Stampa incontra in un bar di Roma Toni Negri. Scambia due battute. Ne nasce un’intervista. Si parla anche del serial killer, del clima di Padova. «Di serial killer — dice Negri — a Padova ce n’è uno solo, si chiama Pietro Calogero».

Il 23 agosto del 2001 un ordigno distrugge la sede della Lega Nord a Busa di Vigonza alle porte di Padova. Si tratta di un attentato strano nel quale non si sa dove inizino le motivazioni della politica (siamo a un mese e mezzo dai fatti di Genova) e dove finiscano quelle della speculazione edilizia. Il Corriere della Sera pubblica in prima pagina un magistrale saggio di bravura di Gian Antonio Stella, “La città dei cattivi maestri”.

Nella città dei «Cattivi Maestri», dove Toni Negri e un manipolo di docenti universitari furono accusati d’avere spinto con le loro parole troppi giovani alla rivolta armata, la storia potrebbe essere buona maestra. […] La Padova di oggi, infatti, è mille miglia lontano da quella che nella seconda metà degli anni Settanta vide l’esplosione violenta di una larga fetta della sua popolazione giovanile in cui secondo lo scrittore Ferdinando Camon si concentrava, grazie alla massiccia immigrazione di studenti stranieri, «il malessere di Marghera, delle Tre Venezie, del Nord Africa e del Medio Oriente». Tirava un’ aria tale, allora, che un gruppetto di autonomi aveva preso l’abitudine di far visita ogni tanto all’autore di «Occidente» per processare i suoi libri e i suoi articoli: «Si facevano chiamare “Compagno X” o “Compagno Y” e mi facevano le pulci ideologiche su tutto. Un incubo». La mattina, ricorda Antonio Garzotto, che allora lavorava al «Gazzettino» e fu azzoppato a pistolettate perché colpevole d’ avere scritto che la casa dello studente «Fusinato» era una pozza d’ acqua in cui il pesce dell’ eversione nuotava benissimo e dava perfino ospitalità a qualche clandestino, «era normale fare “il giro” di nera chiedendo: “Quanti botti stanotte?”». Erano una notizia fissa, le «notti di fuochi» padovane. Sei, sette, dieci, quindici attentati alla volta. A chi toccava, toccava. E poteva toccare alla 500 della moglie del ginecologo Walter Ancora. Al cinema «Quirinetta» (incendiato dalle «Donne combattenti»). Alla sala dei professori dell’ Istituto tecnico commerciale «Einaudi». Alla mensa universitaria. [… ]E usando al posto del piccone le chiavi inglesi, un pomeriggio un commando massacrò di botte il professore «rosso» Guido Petter. Il quale, come avrebbe raccontato anni dopo a «Sette», era già stato avvertito da un paio di incursioni mentre faceva lezione: «Una mattina scrissero sulla lavagna della mia classe, davanti ai miei occhi, lentamente, “Guido Petter come Guido Rossa”. L’operaio comunista appena ammazzato a Genova. I miei studenti guardavano e tacevano. Era fatto per loro. Per dare un esempio». Quella era Padova, allora. Una città in cui arrivarono a contare quattrocento attentati in due anni e il giovedì dell’ Ascensione del 1977, durante una manifestazione, vennero bruciate 40 macchine e una corriera carica di pendolari e gli autonomi scesero in piazza mostrando le P38 e le pistole calibro 9 e 7,65 e diedero battaglia nelle strade e fu un miracolo se non morì nessuno. Dove per un tempo interminabile una rete di complicità riuscì a proteggere la prigione del generale James Lee Dozier. Dove Roberto Anzalone, un medico presidente di un ente pubblico, era così preparato all’idea che tra tanti poteva capitare anche a lui che quando gli spararono alle gambe aveva a portata di mano il laccio emostatico da stringere alle cosce per bloccare l’emorragia. Quella era Padova. Onestamente: possiamo dire oggi, come qualcuno mosso da interessi di bottega già dice, che siamo tornati a quei tempi? No.

Un articolo bello, che forse, se fosse stato pubblicato dieci anni prima avrebbe anche avuto un senso. Ma il 23 agosto del 2001 con un attentato a una sede della Lega Nord, che c’entra?

Sono due esempi cui forse non va data troppa importanza. Ma a volte il 7 aprile, il tema della violenza autonoma a Padova, riappare come un fiume carsico. All’improvviso. Spesso chiamato a spiegare cose che non può affatto spiegare. Soprattutto riemerge deformato. Dei “topoi”, dei luoghi comuni. Sui giornali Pietro Calogero, silenzioso Procuratore Capo a Padova, è “il coraggioso magistrato del 7 aprile”. Ogni volta che si parla di un ritorno a Padova di Negri la città va in cortocircuito, si divide. Dibattiti e polemiche per valutare se la città e soprattutto l’Università siano o meno in grado di sopportare una simile onta. C’è da pensare che il “7 aprile” sia diventato per Padova una sorta di tabù. E’ forse mancata una riflessione, e sicuramente manca ancora una storia condivisa di quegli anni. Dopo le sentenze Emilio Vesce, Luciano Ferrari Bravo, Guido Bianchini sono tornati a vivere la città. Ma pochi (bisogna fare l’eccezione di Gabriele Coltro del Gazzettino che con Ferrari Bravo ha provato spesso a ragionare di quegli anni) hanno provato a raccontare la loro storia come parte della storia dell’intera città.

CAPITOLO IV
INDIVIDUAZIONE DEI RUOLI

1. Introduzione, un’intervista paradigma

Nel 1984, Nantas Salvalaggio, prestigiosa firma del giornalismo e anche della letteratura, intervista il pubblico ministero Pietro Calogero. Siamo a quattro mesi dalla sentenza di primo grado che ha confermato le accuse del giudice padovano. L’intervista viene pubblicata in due puntate, il 9 e il 14 ottobre, sul Corriere della Sera con il titolo: “Quel 7 aprile del ’79 quando presi Negri”.

Gli “anni di piombo” non sono sepolti. Esiste un governo del terrore all’estero. Negri e compagni sono “mine vaganti” per l’Europa, ma chi li protegge a Parigi? e perché? La notte del 7 aprile, che decapitò l’eversione di Autonomia Operaia in Italia, Negri fu arrestato in extremis sulle scale di casa, stava scappando con la moglie, valigie in mano. Queste ed altre cose, allarmanti ed inedite, rivela Pietro Calogero, il “minuto siciliano di ferro” che decifrò e vinse l’organizzazione segreta di Autonomia Operaia. Qualcuno all’inizio tentò di demolire il suo castello d’accusa, definendolo “l’astruso teorema Calogero”. Almeno tre volte fu progettata l’eliminazione del magistrato. […] Pietro Calogero, 44 anni, laureato in giurisprudenza, vive col suo stipendio di funzionario dello Stato in un appartamento del primo piano, due stanze, cucina, bagno e soggiorno. Il soggiorno è tappezzato di libri e di riproduzioni di quadri celebri. […] Indossa un paio di pantaloni neri ed una maglietta sportiva grigia, a mezze maniche. Nelle cinque ore e più di colloquio che seguiranno, si alzerà di frequente dalla poltrona: fumerà un numero imprecisato di sigarette, diciamo una trentina. […] Dottor Calogero, nessuno ha mai raccontato dal di dentro la notte del 7 aprile. […] “Io dirigevo le mosse dal piccolo bunker della questura di Padova, avevo posto una condizione: a nessun costo bisognava muoversi prima che Negri cascasse nella rete”. […] “Era mia opinione che il grande disegno sotterraneo di Autonomia operaia potesse essere distrutto, ma a patto che fosse neutralizzato il cervello pensante, l’uomo che tirava i fili: quell’uomo era Negri”. […] “Alla seconda rampa di scale Negri capisce che è finita: posa la valigia a terra e s’asciuga la fronte con un fazzoletto… Nel giro di mezz’ora, altri trecento terroristi sono presi. E’ una caduta verticale della violenza. Già la mattina che segue, Padova sembra una città svelenita: l’arresto del capo supremo ha provocato il corto circuito”. […] Quando ha sentito il nome di Negri per la prima volta? ”E’ stata mia moglie, per caso. Dunque le dirò che avevo cominciato a studiare il linguaggio dei volantini degli attentati o delle manifestazioni […] Allora ho detto a mia moglie: ‘Sento la mano di uno che sa parecchio di diritto costituzionale…’. Lei salta su e dice: ‘Senti, Pietro, ma tu hai mai letto d’un certo Toni Negri?” […] Calogero si alza, mi porge due tomi grossi ed annotati a piè di pagina: “Stato e diritto del giovane Hegel” e “Studio della genesi illuministica della filosofia giuridica e politica di Hegel”. Gli domando se si sia divertito nella lettura. “Beh — scuote la testa il magistrato — Negri non è il filosofo più affascinante che conosca. Messo alle strette preferisco Cartesio, Platone. Ma io non ero in cerca di piacevolezze: dovevo individuare il cervello ispiratore, il linguaggio che disegnava in filigrana il progetto dell’eversione…Dopo tanto studiare, ho avuto la certezza matematica: l’uomo era lui, una mente duttile e luciferina, una sorta di Sant’Antonio della violenza, che si muoveva senza sosta in tutte le direzioni”. […] Quindi lei incontra Negri solo dopo l’arresto… “Viene da me per l’interrogatorio. Si presenta con la coda in mezzo alle gambe. Gioca il ruolo del signor Nessuno, del sognatore sprovveduto. Ma, quando gli metto le carte in tavola, strabuzza gli occhi, resta senza parole. Quasi non ci crede. E come se ne va, dice alla guardia che l’accompagna in cella: ‘Che testa, questo Calogero! Peccato che stia dall’altra parte della barricata’…”. […] Il condottiero di Autonomia Operaia, e ideologo dell’eversione, “è stato tradito dalla grafomania”; come un piccolo Cesare, Toni Negri, documentava passo passo il suo “De bello patavino”, sicuro della vittoria. Ma quando il giudice Calogero riuscì a sequestrargli l’archivio apparve come il “Re nudo della fiaba”. Il “timido magistrato di ferro” […] aveva finalmente in mano le prove: il volontario Pollicino Negri aveva sparso dappertutto un’infinità di impronte. Bastava leggere con pazienza, decifrare i suoi geroglifici, e veniva fuori il disegno ambizioso, sanguinoso, l’attacco al cuore dello Stato, con tanto di piani e decisioni strategiche. […] Calogero incontra Alessandrini nel gennaio del ’79, si scambiano dati e impressioni, si trovano d’accordo su tutto. Ma Alessandrini, dopo sette giorni, viene ucciso. Che fare? Calogero non muta la sua strategia, procede con fermezza. […] Anche i terroristi, riflette, erano persuasi che io avessi alle spalle l’organizzazione del Partito Comunista. Non potevano credere che un pugno di uomini, con i poveri mezzi dell’amministrazione statale, fossero in grado si smascherare una trama sotterranea che era stata preparata con molto denaro e intelligenza luciferina. Quando Calogero ha scoperto il risvolto criminoso di Autonomia e i suoi legami con il terrorismo? Calogero dice: bastava leggere i loro volantini, i loro giornali, i loro libri. Altro che linguaggio “demenziale”. Calogero si è ricordato di una frase di Shakespeare in Amleto: “C’è del metodo in questa follia”. […] E’ stato scritto che Negri era una sorta di prezzemolo della sovversione: stava coi vertici, in cima al grattacielo, e poi si mescolava con la manovalanza nei sottoscala: “Indossava il passamontagna per provare l’emozione del primo appuntamento d’amore”. Il giudice timido si piega ad un sorriso amaro, impenetrabile: il cuore ha delle ragioni, forse, che la ragione non conosce.

Come si intuisce questo, pur se in forma di intervista, può essere classificato come un testo letterario piuttosto che come un testo giornalistico. Si tratta di un articolo pieno di suggestioni letterarie. L’inizio ricorda qualcosa. «Negri e compagni sono “mine vaganti” in giro per l’Europa» un po’ come il fantasma che si aggira per l’Europa di Marx. E poi Giulio Cesare, addirittura Pollicino, geroglifici da decifrare, il cervello pensante e luciferino che tira i fili del terrorismo italiano.
Ho voluto proporre questa intervista in apertura di questo capitolo perché rappresenta un ottimo punto di partenza. Contiene quasi tutto. Dice di Calogero molto più di qualsiasi intervista precedente. Ma ci dice molto di quasi tutte le figure coinvolte nella vicenda: di Negri, luciferino, diabolico ma anche pauroso e vile, di Alessandrini, di chi remava contro.
E’ un ottimo esempio che fa capire come questa vicenda attivi nella testa di giornalisti, e forse lettori, schemi già prestabiliti che in parte possono essere attinti dal genere mitico-letterario.

2. L’ipotesi iniziale

Nel cominciare il lavoro di analisi degli articoli che hanno raccontato, per più di un decennio, il caso 7 aprile avevo ipotizzato di poter individuare nel corso degli anni lo svilupparsi di una “fabula” passabilmente coerente. Una fabula classica: fatta di buoni, cattivi, momento di rottura e ricomposizione. Una trama che emergesse dalla linea principale del racconto dei quotidiani, omettendo cioè, come sostanzialmente è stato fatto, gli esiti processuali definitivi che “rovinano” e mutano radicalmente il quadro iniziale.
Di «logica del fumetto» aveva parlato Paolo Dusi, in un convegno tenutosi nel 1982 e i cui atti sono stati pubblicati in un “quaderno” di Questione Giustizia sempre nello stesso anno. Esaminando il rapporto tra il processo padovano e pubblica informazione Dusi sosteneva che

I fatti vengono selezionati e disposti come elementi portanti di una storia a traccia prestabilita che, nella radicalità degli schieramenti e nel manicheismo delle contrapposizioni, viene inevitabilmente ad assumere l’andamento del fumetto. Il fumetto assume a proprio fondamento un valore che funge da verità portante (spesso si tratta, per l’appunto, di salvare l’umanità da un progetto di distruzione) e su di esso individua, una volta per tutte, il ruolo dell’eroe negativo e quello dell’eroe positivo, che ad esso si contrappone; spesso l’eroe positivo deve affrontare non solo il nemico dichiarato, ma anche difficoltà ambientali, pericoli inattesi, nuovi avversari; assumono rilievo, così, anche i profili che individuano la schiera dei buoni e quella dei cattivi.

L’articolo di Dusi, concentrato in poche pagine, rappresentava un’importante intuizione. La sua analisi si fermava però al 1982. Con un corpus di articoli ben più ampio ho provato a tracciare un’ipotesi di lavoro simile.
Si trattava di un’ipotesi forte che però, alla fine, la lettura di un numero così grande di quotidiani, per un numero troppo ampio di anni, non mi permette di sostenere con convinzione perché forse sarebbe risultata eccessivamente riduttiva. Ma non tutto è da buttare. Se non una trama coerente infatti è sicuramente possibile individuare, all’interno della narrazione, dei ruoli e delle parti.
Insomma delle figure (non sono solo persone fisiche ma anche figure retoriche) relativamente stabili. La sensazione che mi ha condotto a proporre un’analisi del genere è che le definizioni che i quotidiani danno degli attori coinvolti nel caso 7 aprile siano la diretta conseguenza della situazione iniziale. Una specie di gioco ad incastri in cui i quotidiani (il cui ruolo principale è quello di essere i narratori della fabula) siano costretti a preservare una coerenza minima della rappresentazione.

Ma non si può ovviamente pensare ad un giornale di massa come a un semplice narratore. I quotidiani sono stati, nella migliore dell’ipotesi, degli osservatori (scontando quindi, come minimo, il “paradosso dell’osservatore”) e nella peggiore, degli attori interessati. Attraverso quindi l’individuazione del cast di attori e del carnet di ruoli a disposizione, dovremmo arrivare (si veda a tal proposito il sesto capitolo) a dare una risposta alla domanda: “I quotidiani che ruolo hanno assunto nella vicenda?”. Un approccio che, integrato con una descrizione del contesto storico (più avanti si approfondirà in proposito il ruolo determinante del caso Moro nel condizionare la vicenda in esame) e con alcune considerazioni sulle caratteristiche e sui vincoli del campo giornalistico italiano alla fine degli anni Settanta, dovrebbe aiutarci a ricostruire abbastanza fedelmente la situazione in cui i quotidiani si sono trovati ad operare.

Questo tentativo di delineare i caratteri essenziali di ogni ruolo è importante anche per un altro motivo. Nella narrazione del 7 aprile, nel processo di costruzione dei personaggi che abitano quest’inchiesta, più che lo sviluppo dell’intreccio, che appare difficilmente riducibile a una trama, risaltano i particolari. E quindi, a loro volta, i personaggi. Persone, ritratti, immersi in un disordine assoluto di fatti e avvenimenti. Alla fine, forse, quello che è rimasto del 7 aprile sono proprio i particolari, non i fatti.

(16 – CONTINUA)