depanza.jpgSulle risposte dei critici all’uscita del libro
[UPDATE 10/03/09: La seconda parte di questo testo è qui.]

di Wu Ming 1

A Walter V.
Lo zumpappà è finito.

Questa trattazione ha come oggetto principale – benché non esclusivo – quattro articoli apparsi sulla stampa nelle ultime due settimane. Si tratta di reazioni all’uscita in libro di New Italian Epic. Vado a elencarle:
– Riccardo Chiaberge, “Wu Ming, attenti a non prendere la scossa”, inserto domenicale de Il Sole 24 ore, 1 febbraio 2009;
– Filippo La Porta, “Macché New Italian Epic, questo è solo glamour”, Corriere della sera, 7 febbraio 2009;
– Emanuele Trevi, “Questo Wu Ming ha le gambe corte”, Alias, 14 febbraio 2009;
– Fabrizio Rondolino, “Wu Ming, se questa è letteratura”, La Stampa, 15 febbraio 2009.
I titoli dicono già molto. Anzi, quasi tutto. Si tratta di reazioni tra lo stizzito, il sussiegoso e il goliardico. Reazioni interessanti, poiché confermano quanto la critica e il cronismo culturale “accreditato” siano nolenti e/o incapaci di affrontare nel merito quel testo, o meglio, le questioni che pone e il dibattito che lo circonda. Al contrario, ostentano ansia di liquidarlo con poche (o in alcuni casi molte) freddure e boutades.
[Per inciso, spiace vedere in quella congrega un critico altrimenti acuto (e bravo scrittore) come Emanuele Trevi. Spero sia solo un infortunio.]
Si possono rintracciare in questi articoli alcune retoriche e tecniche ricorrenti: falsi sillogismi, sofismi, ricorso a “brani scelti” per comporre tesi caricaturali da attribuire all’avversario etc.

0. LA GRIGLIA

Con l’aiuto di alcuni amici e colleghi (li ringrazierò alla fine), ho individuato alcuni frame:
1. fallacia del “non è letteratura”;
2. fallacia del riduzionista;
3. fallacia del pigro o del ritardatario.
All’interno di questi frame, ho distinto diversi stratagemmi frequenti, cuciti insieme grazie a una tecnica che tratterò in un paragrafo ad hoc: il montaggio arbitrario dei virgolettati.
Quella che si vedrà emergere è una “griglia”, una morfologia delle reprimende contro il NIE (inteso come memorandum, libro, dibattito e nebulosa). La mappatura sarà utile a comprendere anche altre prese di posizione, future e passate, apparse sulla stampa ma soprattutto in rete.
In rete ricorrono soprattutto la fallacia n. 2 (“del riduzionista”) e la fallacia n. 3 (“del ritardatario”), che appaiono sempre in accoppiata, anche in certi testi arzigogolati apparsi negli ultimi giorni (riassumibili in una sola frase: “Ci sono anch’io, e guarda che sleppa di testo ti metto assieme!”)
Sulle pagine culturali dei quotidiani, invece, ha il netto predominio la fallacia n. 1 (“non è letteratura”).

Edika.gifL’ultimo paragrafo si intitola “Fondo del barile”. In esso elenco alcuni degli espedienti e sofismi più crassi (certuni addirittura crassissimi) a cui è ricorso questo o quel detrattore da quando è partita la discussione.

Rimane una domanda, la domanda: perché questo discorso sul NIE dà tanto fastidio? Come mai una proposta di lettura comparata di alcune opere è vissuta come una minaccia? “Perché tanto odio?” (Edika)

Un’ultima avvertenza: contra negantem principia non est disputandum, cioè: per polemizzare, bisogna essere d’accordo almeno su alcuni fondamenti. Due squadre di calcio possono sfidarsi solo se si incontrano sullo stesso campo da gioco e condividono certe regole.
Qual è il campo da gioco delle dispute sul New Italian Epic?
Rispondere parrebbe facile: la letteratura, il campo letterario; non vedete l’erba, le linee fatte col gesso, i pali della porta?
E invece no, perché alcuni negantes replicano: “No, la Letteratura è un’altra cosa, non vi riguarda”.
Io intendo seguire il consiglio ricevuto via mail l’altro giorno:
“Che Wu Ming non perda troppo tempo in discussioni con certa gente, perché finirebbe per distrarsi. Di quando in quando bisogna anche urlare con decisione: Scansatevi, ché dobbiamo procedere!
Con quelli non si disputa, tutt’al più li si analizza. Anche questo fa parte del “procedere”.
E allora procediamo.
Buon divertimento!

1. FALLACIA DEL “NON È LETTERATURA”

cilindro_letteratura.gif Diceva tempo fa il collega Giulio Mozzi:

Spesso si dà alla parola “letteratura” una valenza positiva: un bel romanzo è “letteratura”, un brutto romanzo non è “letteratura”; un articolo assai ben fatto può essere considerato “letteratura” (specie se il suo autore, magari, pubblica anche opere di finzione): vedi gli articoli di Buzzati ecc. […] Trovo – sinceramente – un po’ bizzarro confondere un puro e semplice lavoro tassonomico, con il quale si stabilisce se un certo oggetto appartiene a una certa specie o a una cert’altra specie, e il lavoro del giudizio, con il quale si dichiara se si ritiene un certo oggetto, indipendentemente dalla specie alla quale appartiene, bello o brutto, buono o cattivo eccetera.

Sono d’accordo. Letteratura è quel che viene scritto in determinati modi e non in altri. Quali e quanti siano questi modi dipende da quel che si scrive, da chi legge, da quanti leggono e da come si legge in una data epoca. In parole povere: opera dopo opera, il campo letterario modifica la propria superficie, le linee di confine sfumano o, al contrario, si “ingrossano” e si fanno più marcate.

Tuttavia, anziché partire dalle opere concretamente esistenti e da queste indurre un quadro delle trasformazioni in corso, i negantes partono da un’idea astratta e generale di letteratura, coincidente con quella già passata al vaglio del loro giudizio. Il loro giudizio diviene fondamento di un’idea di Letteratura trans-storica, trascendente, indiscutibile. Creano, insomma, un assioma, e lo mettono a premessa generale del discorso: la letteratura è sempre stata questo, deve essere questo, sarà sempre questo e non altro.
Viene così rimossa la necessità di occuparsi dei testi e delle scritture che contraddicono o mettono in discussione l’assioma.
Ci si può dunque esimere dall’esercitare la critica.

Prendo l’esempio di Rondolino, che inizia il suo articolo con la domanda: “Di che cosa parliamo quando parliamo di letteratura?”, e si risponde dicendo che la letteratura è un insieme di mondi immaginari che tuttavia esistono proprio come gli eventi storici e perciò influiscono sul reale, “sulle vicende della terra”.
Giusto, e potremmo dirlo con altre parole: l’immaginazione è parte della realtà, perché noi che immaginiamo viviamo in questo piano di realtà. Anche i sogni sono parte della realtà, perchè parte delle nostre vite e influenza sulle nostre vite.
Solo che… non è una risposta alla domanda posta all’inizio: “Di che cosa parliamo quando parliamo di letteratura?”
Infatti, se la risposta è: “un insieme di mondi, storie e personaggi che, benché immaginari, hanno ricadute sul piano di realtà”, beh, la definizione vale pure per altri media, linguaggi, scritture. Il cinema è immaginazione che influenza le nostre vite, i videogame sono immaginazione che influenza le nostre vite, il teatro è immaginazione che influenza le nostre vite, i fumetti sono immaginazione che influenza le nostre vite.
Subito dopo Rondolino afferma che, “in questo senso”, la letteratura “è molto più che semplice intrattenimento (diversamente dalla narrativa di genere, non le basta un intreccio).”
Ammesso e non concesso che possa esistere una narrativa che non sia letteratura;
Ammesso e non concesso che la narrativa di genere sia “semplice intrattenimento”;
Ammesso e non concesso che alla narrativa di genere “basti un intreccio”;
Ammesso e non concesso che New Italian Epic parli di letteratura di genere,
(ritengo semplicistiche e fallaci tutte e quattro le affermazioni), viene da chiedersi: l’intrattenimento non è immaginazione che influenza le nostre vite? La narrativa di genere non è immaginazione che influenza le nostre vite? Dov’è la risposta alla domanda posta al principio? Cosa, nella mente di Rondolino, distingue la letteratura da tutto il resto? Qual è il suo specifico? Risposta non pervenuta.

cocuzzolo_degli_eccelsi.gifIn realtà, questo capoverso – maldestramente avviato e peggio concluso – permette a Rondolino di porre l’assioma: letteratura non è quel che si scrive, ma quello che secondo il suo giudizio è eccelso, eterno e – ricorrendo all’ipse dixit di Adorno – “incomprensibile”. Aahhh, ecco.
Naturalmente, le iscrizioni alla società “Ec.Et. Inc.” sono a numero chiuso, anzi, sprangato. Riconoscere, ad esempio, che quella di De Cataldo è letteratura (cosa tassonomicamente evidente a chiunque) porterebbe ad ammettere quell’autore – ingombrante anche per la stazza – in cima al cocuzzolo degli eccelsi, dove Rondolino immagina di trovarsi, non si sa bene a quale titolo (su questo, cfr. anche il paragrafo 1b).
Per assiomi Rondolino ha iniziato, e per assiomi procede. L’articolo pullula di frasi come (sottolineature mie): “di certo la letteratura deve essere…”, “ogni vero scrittore è per natura…”, “il fatto è che [questa] è l’etica della letteratura” etc.
E i testi, le opere, gli esempi…? Lontanissimi, distanti anni-luce.
Il tutto per concludere, polemico, che… “nessuna rappresentazione coincide interamente con la realtà”. Ma va’?

Vediamo ora Trevi, che è meno rozzo del suo collega e non dice altrettali banalità, eppure sgocciola massime che, se non sono derivate dall’assioma-Letteratura, certamente a tale derivazione fanno pensare.
Ad esempio scrive (corsivo suo):
“in quel mondo senza pietà che è la letteratura, non c’è nulla al di là del risultato” (Cfr. anche il paragrafo sullo stratagemma “dell’intenzione”).
Invece io ritengo esista molto altro, proprio perché la letteratura non è la Letteratura di cui all’assioma (e tutti i risultati dello scrivere letterario esistono come letteratura, non solo quelli buoni).
Io penso che lo scrivere letteratura sia un processo, un divenire che non si conclude col risultato (l’opera fatta e finita) ma da questo riparte sempre. Io ritengo che la letteratura viva nel mondo grazie a relazioni tra persone, flussi di informazione e immaginazione, esempi contagiosi, cattivi esempi, opere brutte che innescano qualcosa di interessante, opere belle ma sterili, buone letture fatte per i motivi sbagliati, cattive letture fatte per motivi giusti, cattive abitudini etc. Penso anche che ogni sintesi sia provvisoria: l’opera non si conclude mai e viene riscritta ogni volta che qualcuno la legge.
A fronte di tutto ciò, mi sembra immiserente dire che l’unica, proprio l’unica cosa che conta – anzi, che esiste! – sia se un libro è riuscito o meno, è bello o meno, è geniale o meno. Anche perché la vera questione è: riuscito, bello o geniale secondo chi? La vera questione si vede in filigrana, è quella dell’autorità legittimante, l’autorità del Critico. Perché, sappiatelo, i lettori “comuni” hanno torto. Ma su questo, più avanti.

Dentro il frame del “non è letteratura”, i negantes ricorrono ad alcuni sofismi e stratagemmi facilmente identificabili.

1b. Stratagemma del “dagli al venduto”

moneyy.gifFalsa premessa: questi Wu Ming si occupano solo di quello che è facile e vende [ad esempio? Sappiano le mie parole di sangue di Babsi Jones?]. Si limitano a “fotografare le classifiche di Tuttolibri” (Rondolino); “Questa cultura del romanzo non è altro che culto delle classifiche” (Trevi); Il New Italian Epic non è che “un prodotto appetibile” (La Porta). Ergo: le teorie sul NIE sono solo giustificazioni ideologiche al gusto della “massa”. Ergo: i Wu Ming sono dei venduti, dei marchettari.
La scorciatoia permette di non argomentare, e di riempire i buchi con piccole fesserie (Rondolino che parla di Moccia come perfetto “autore neo-epico”).
Memorandum, libro e dibattito sul New Italian Epic ruotano intorno all’idea di complessità (narrativa, percettiva, cognitiva), eppure – mediante la falsa premessa e il ragionamento fallato – li si attacca in quanto apologia del facile, e quindi dell’omologato.
Scompaiono così tutte le riflessioni sul pop mutuate dal lavoro di Henry Jenkins, di Steven Johnson e di tanti altri studiosi citati nel testo, tutti sacrificati sull’altare di un’idea di industria culturale – quella derivata da Adorno – che quando va bene è ferma agli anni Sessanta, come se le dinamiche fossero rimaste identiche. Oltre mezzo secolo di storia e di cultural studies gettato in pattumiera.
Questa rimozione con movimento restaurativo si alimenta di odio per la complessità, la stessa complessità che si dichiara di voler difendere.
E’ anche possibile – anzi, auspicabile – la confutazione ex concessis, basata sul “da che pulpito” e sull’evidente incoerenza dell’articolista. Infatti, l’accusa di essere “asserviti al mercato” viene da Rondolino, ex-responsabile comunicazione del Grande Fratello, apologeta del suo grande amico Emilio Fede ed egli stesso ospite frequente di salotti televisivi dell’emittenza pubblica e privata.
Per l’occasione, lo abbiamo visto nei panni di crociato della cultura “alta”.

1c. Stratagemma del “mi fingo autarchico”

autarchia.gifStrettamente correlato al precedente. Spazio tipografico prezioso viene sprecato rovesciando sarcasmo “autarchico” sul nome “New Italian Epic”, perché… è in inglese.
Eppure, nessuno si scandalizza se una stagione importante della nostra musica leggera viene chiamata “beat italiano” e non “battito italiano”; se un intero filone del nostro cinema viene definito “spaghetti western” (espressione nata negli Usa e solo in seguito adottata in Italia); se in Italia si suona il “jazz” (e non il “ciulare”, accettabilissima traduzione del termine) etc.
In Slovenia, dove forse sono più immuni di noi a certi rigurgiti, un importante movimento artistico-politico è noto fin dagli anni ’80 con un nome tedesco (la lingua degli antichi invasori!): Neue Slowenische Kunst [Nuova Arte Slovena]. Chissà se Rondolino ne era al corrente, al momento di scrivere (battutona!): “Ma perché non Neue Italienische Epik?”.
Ovviamente uno può usare la lingua che gli pare, è una non-questione. Farne una questione serve però a darci dei venduti (o dei truffatori) a priori di qualunque analisi. Oltre che in Rondolino, lo vediamo in La Porta, uno che nel 2000 riscontrava in noi un desiderio di entrare nel “salotto buono”, e nei nove anni successivi non ci ha mai visti in alcun salotto, e nemmeno ad alcun ricevimento o banchetto o vernissage (e non perché non li frequenti lui).
La Porta scrive:
New Italian Epic è il logo perfetto […], scritto nella lingua della comunicazione planetaria, per un prodotto appetibile dell’Italian Style. Pensavate che non saremmo riusciti? Beh, we can…”
In questo Paese una simile preoccupazione glotto-protezionistica non si vedeva da… da… Oh, cazzo!
Nel caso di Trevi, il sarcasmo non riguarda solo l’idioma ma anche il genere: “New Italian Epic è un Lui“!. La coniugazione al maschile. E’ un’altra non-questione, e comunque la scelta fu spiegata il primissimo giorno di presenza on line del memorandum, 23 aprile 2008:

Si può vedere “epic” come sostantivazione dell’aggettivo “epico” riferito a “romanzo”, o a “tono” (“il nuovo tono epico italiano”), o a “filone”, “movimento” etc. e quindi coniugare al maschile, come avviene con “il giallo”, “il noir” etc.; oppure si può vederlo come un sostantivo (“epic” = epica), e quindi coniugare al femminile (la New Italian Epic). Nel saggio coniugo l’espressione al maschile, perché l’alternativa mi suona equivoca. Parlare, tout court, di “nuova epica italiana” potrebbe far pensare che i libri presi in esame coprano ed esauriscano già tutte le possibilità della modalità epica oggi in Italia. Epperché mai porre limiti alla Provvidenza?

Per me è… “il nuovo epico italiano”. Voialtri dategli il sesso che preferite.

1d. Stratagemma di “Tizio e Caio”

them.jpgIl memorandum parla sempre di opere, il focus è sulle opere, gli autori sono meno importanti. La cosa è specificata numerose volte, persino con pedanteria: il New Italian Epic è un dialogo tra libri, non si danno “autori del New Italian Epic”, ciascun autore ha scritto e scrive anche altre cose che non rientrano nella descrizione.
Questo – forse più per riflesso condizionato che per una tattica cosciente, e forse anche perché la comparatistica è giunta in Italia molto tardi e rimane una “bestia” sconosciuta a molti critici – viene sempre ignorato dai negantes. Non vi è detrattore del NIE che non abbia ribattuto al memorandum denigrando – velatamente o esplicitamente – gli autori menzionati, o comunque ponendo l’accento sugli autori anziché sulle opere (forse perché le opere bisogna leggerle).
E così, io avrei scritto che “Letizia Muratori raggiunge l’epic” (Trevi), mi si obietta che “Genna è più dadaista che epico” (Trevi), si osserva che il NIE “comprende gli scrittori di genere oggi di maggior successo” (Rondolino) a cui si affiancano “molti minori e qualche epigono” (sempre Rondolino), inoltre “Wu Ming non trova di meglio che rilanciare l’ epica proponendo una Famiglia, benché letteraria” (La Porta, che poi cita alcuni autori), famiglia – ovvio! – “protettiva e scarsamente sensibile a tutto ciò che avviene fuori di essa” (sempre La Porta), poi Girolamo De Michele è chiamato – che stile! – “un altro scrittore che…” (Trevi) e via così, spostando l’attenzione, cazzeggiando, sminuendo.
Sbaglierò, ma io qui leggo un sotto-testo (in Rondolino nemmeno tanto “sotto”): che c’entrano tutti questi con la Letteratura? Raus! De Cataldo, Lucarelli? La loro è “povertà linguistica e sintattica”! (Rondolino).
Esempi? Non pervenuti.

1e. Stratagemma del “che c’entrano questo e quello”

area_trapezio.pngLa Letteratura basta a se stessa. La Letteratura è Letteratura e basta, sicut erat in principio, et nunc, et semper, et in saecula saeculorum. “Il campo letterario non s’allarga”, ci assicura chi ne sorveglia e pattuglia i confini. E dunque, perché mai “scomodare le scienze cognitive” (Trevi), tirare in ballo “il fumetto e il videogioco” (Rondolino), usare termini del discorso scientifico-tecnologico etc.?
Di quest’ultima caratteristica del libro, Chiaberge si lamenta in modo esplicito:

Campo elettrostatico, resistenza, dibattiti che si accendono: siamo in piena temperie futurista. Mancano solo turbine, dinamo, contatori, interruttori e fusibili, e l’impianto è completo. L’essenziale è non prendere la scossa. Per recensire un libro di Wu Ming ci vorrebbe un ingegnere dell’Enel.

Ci sarebbe un lungo discorso da fare sul disagio degli intellettuali umanistici italiani se posti di fronte alle scienze, sull’analfabetismo tecnologico (che a volte si traduce in autentica paura di Internet), sul tono di sufficienza con cui rivendicano di essere stati rimandati tutti gli anni in matematica e di non saper più fare le divisioni senza calcolatrice. Provate a immaginare lo stigma che si abbatterebbe su di me se dicessi, con la medesima aria di chissenefotte, di non sapere quale opera inizia con “Quel ramo del lago di Como…” Eppure non saper fare le divisioni, o non saper calcolare l’area di un trapezio, andrebbe considerato altrettanto grave.

1f. Stratagemma del “non conta l’intenzione”

Immagine realizzata da Ben Heine - clicca per ingrandirlaAccusa ricorrente: il memorandum porrebbe l’accento sull’intenzione dell’autore, che invece, se l’opera è malriuscita, non conta proprio niente.
E’ una delle principali accuse che mi muove Trevi (cfr. anche il paragrafo sui morceaux choisis), secondo il quale io starei spacciando “fregnacce”, ma la scaglia anche Rondolino, ovviamente con maggiore grezzuria e fretta di saltare a strampalate conclusioni: a lui, la presunta apologia dell’intenzione autoriale sembra quasi “una versione (postmoderna) dello zdanovismo, o una declinazione letteraria della battaglia ratzingeriana contro il relativismo culturale.” Bum!
Ora: nel memorandum la parola “intenzione” compare solo una volta, in un passaggio in cui dico che bisogna “prescindere” da essa. Potete verificare con una ricerchina nel pdf.
Quello che Trevi e Rondolino hanno voluto distorcere e parodiare è un discorso piuttosto preciso non sull’intenzione, bensì sulla responsabilità dell’autore. Un discorso che porto avanti fin dalla mia “Lezione su 300” al DAMS di Torino (maggio 2007), contro la “fisica dell’alibi”, contro il continuo rintuzzare le critiche dicendo che quanto si è scritto non andava preso sul serio etc.
Sia Trevi sia Rondolino hanno “incriminato” un passaggio del memorandum in cui dicevo:
“L’importante è che il tentativo [di trasmettere la passione all’opera e quindi al lettore] si veda [anche] nonostante l’insuccesso del risultato testuale”.
Entrambi hanno convenientemente interrotto la citazione prima della frase che concludeva il ragionamento e gli dava un senso:
“Quel che conta è che l’ironia perenne, il disincanto e l’alibi non siano teorizzati, e non vengano poi invocati per tappare i buchi.”
Perché mai dà tanto fastidio, tanto da volerlo rimuovere, un discorso sulla responsabilità dell’artista? La cosa un poco puzza.
E comunque: cos’è tutta ‘sta canea contro l’intenzione dell’autore? Forse che l’autore deve fare le cose alla boia vigliacca, in uno stato di febbrile stupefazione, senza riflettere né progettare?
Temo che alcuni lo pensino, forse nemmeno pochissimi. E il fastidio per la riflessione a priori è secondo solo a quello per la riflessione a posteriori, come mi accingo a spiegare.

1g. Stratagemma del “tu scrivi i tuoi romanzi, ché i critici siam noi”

tarzan_jane.gifQuesto stratagemma è stato usato moltissimo in rete negli ultimi mesi. Nelle prese di posizione qui sviscerate resta implicito, ma c’è. Risuona, sorda come il rintocco di una campana crepata, la nota del: “non siete all’altezza, come vi permettete?”. Seguita dall’altra: “Tutta autopropaganda!”
Lo stratagemma si basa su un falso sillogismo.
Premessa maggiore: Nessuno scrittore può essere un critico (“di se stesso”, aggiunge chi si crede furbo).
Premessa minore: Wu Ming vuole fare lo scrittore e il critico.
Conclusione: Wu Ming non è un critico e nemmeno uno scrittore. E’ solo un venditore. E’ tutta autopromozione, è “marketing” (La Porta), “glamour mediatico” (La Porta), oppure sono le sinistre manifestazioni di un nuovo potere “zdanoviano”, populista, “antipolitico”, “leghista” (un Rondolino decisamente sopra le righe), o – al contrario – un epifenomeno inconsistente che “dura ming! Non può durare!” (Chiaberge).
Purtroppo, questa è una sorta di apemen’s agreement tra critici e scrittori, condiviso anche da colleghi che stimiamo: “Io scrittore, tu critico!”
Io Tarzan, tu Jane.
Si veda ad esempio Gianfranco Manfredi, il quale in un’intervista dichiara:

Io penso che non tocchi agli scrittori definirsi. Gli scrittori raccontano. Le definizioni spettano ai critici […] Il tentativo [di Wu Ming] è sicuramente sincero e interessante, ma temo che al di là delle intenzioni si tratti di uno slittamento verso una forma di auto-marketing. Al che, il mio commento è “preferisco scrivere”.

O Giampaolo Simi, che in un’altra intervista dichiara:

Il saggio dei Wu Ming è pieno di riflessioni interessantissime su quello che sta succedendo. Oddìo, eleggersi anche a critici-storici contemporanei di se stessi però, mi pare azzardato.

Colleghi, compagni, ma che idea di scrittore dovremmo desumere da queste dichiarazioni? Lo scrittore come selvaggio, come idiot savant, come artista naif alla Ligabue (Antonio, non Luciano)? Vi invito a riflettere.
Il sillogismo descritto sopra è fallace per due motivi: è scorretto lo svolgimento (la conclusione contiene due giudizi diversi), ma soprattutto è fallace la premessa. Avendo forma universale, può essere contraddetta anche da un solo caso particolare di segno divers…
Uno solo??? Moltissimi scrittori sono stati anche critici e auto-critici. Per restare all’Italia: Dante, Leopardi, Pirandello, Pasolini, Calvino, Sciascia, Rondolino…
Questa fallacia è nota come “petitio principii“. Dire che lo scrittore non deve essere un critico è, nel migliore dei casi, un cattivo uso della logica modale. Confonde una volontà (“io, scrittore, non voglio essere il critico di me stesso”) o un desiderio (“io, scrittore, penso che i miei colleghi non dovrebbero fare i critici”) con uno stato del mondo, cioè una necessità. E’ come se io, vegetariano e astemio, deducessi da me stesso l’impossibilità per ogni scrittore di mangiare carne e bere alcolici. In questo caso, poi, volontà e desiderio sono innanzitutto dei critici: sono loro a temere le “invasioni di campo”.
Strettamente correlato a questo stratagemma è quello “del paternalismo”, nelle due varianti: A) “sei giovane”; e B) “ma come, proprio tu, mi meraviglio di te!”.

1h. Stratagemma “del paternalismo” – variante A

Gianburrasca033.gif“Siete dei ragazzi, bisogna capirvi” etc. Vi ricorre soprattutto Trevi, che butta lì un: “Wu Ming, sei giovane, sei furbo…”
Poteva forse avere un barlume di senso quindici anni fa, agli esordi di Luther Blissett. Oggi che uno di noi ha quasi 45 anni (esattamente come Trevi), il sottoscritto ne ha 39 e il più giovane ne ha comunque 35, suona a dir poco fuori luogo.
Trevi, pur essendo nostro coetaneo, parla dei “coetanei di Wu Ming” come fossero chissà quale razza aliena o tribù barbara dai costumi incomprensibili. E lo fa mentre recensisce un libro che ipotizza una generazione non anagrafica bensì letteraria, e basterebbe guardare gli anni di nascita degli scrittori intervenuti nel dibattito dei mesi scorsi: Lucarelli (1960), Evangelisti (1952), Fois (1960), Bellu (1957), De Cataldo (1956), Binaghi (1957), Scurati (1969), Bertante (1969), Genna (1969), Muratori (1970), Sarasso (1979) etc. Età diverse che più non si potrebbe. In ogni caso, quel “siete ragazzi” vale anche per Evangelisti?

1i. Stratagemma “del paternalismo” – variante B

JudasKiss.gifVi ricorrono Trevi e La Porta. E’ la versione “elogiativa” della confutazione ad hominem. “Proprio tu che in altre occasioni ti sei dimostrato intelligente, adesso mi scrivi queste cose”, oppure: “Proprio tu che sei di sinistra poi te ne esci con queste cose che sono palesemente di destra”, o viceversa.
In questo modo, si può far scomparire o recedere sullo sfondo l’oggetto del disputare, l’argomento del dibattito. Si pone come premessa una “verità” sull’altro disputante, da cui si trae un’immediata conclusione, che può benissimo rimanere indimostrata.
“E’ inaccettabile che proprio gli autori di prodotti narrativi eseguiti a regola d’arte come Q e 54…” (Trevi, e notare il tono dato all’espressione “prodotti narrativi”); “Ma proprio loro, appassionati nel cercare una verità non convenzionale del nostro Paese, non si accorgono che…” (La Porta).
In pratica, da una precedente stima nei nostri confronti (che, ad esempio, La Porta non aveva mai manifestato, essendo come s’è visto un nostro cronico detrattore) viene fatta discendere la “autorità morale” per esprimere giudizi somari oggi.

[Un refuso? Dove?]

[Fine prima parte – 1 di 2 – Continua]


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