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di Gaia De Pascale *
[In calce a questo post, link e novità dal dibattito sul NIE]

Se c’è un buon motivo per scrivere un articolo su letteratura di viaggio e NIE è senz’altro questo: la storia del viaggio e la storia della letteratura sono indissolubilmente legate fin dall’antichità, tanto che l’antropologo Francesco Remotti ha parlato di “rituale universale del resoconto” [1], vero e proprio rito di passaggio che caratterizza qualunque individuo e qualunque società in qualunque tempo. Da sempre si viaggia, e da sempre i viaggi vengono raccontati, con ogni mezzo e in ogni forma. Quella che anticamente era una performance orale si è progressivamente trasformata in una tradizione scritta, e poi ancora oltre, fino ai giorni nostri, quando ogni supporto è buono per testimoniare lo spostamento — dalla macchina fotografica al filmato in digitale, dall’ostensione di souvenir al diario, fino ad arrivare, ancora una volta, al resoconto orale.

Limitando però l’analisi al versante prettamente letterario della questione — quella letteratura che, spesso, viene definita il viaggio del lettore dentro il testo; quel testo che, quasi inutile ricordarlo, risulta suddiviso in “passi” — gli elementi che legano viaggio e NIE sono, riassumendo: i dati concreti e materiali che caratterizzano queste opere; il loro avere a che fare con il tempo (oltre che, evidentemente, con lo spazio) e con la volontà di ricaricarlo di senso; la necessità di rapportarsi, in qualche modo, con la “realtà”; l’assunzione di punti di vista eccentrici.

Vorrei partire dal titolo di un libro. Si tratta del lavoro di Eric J. Leed, saggio fondamentale per chiunque voglia avventurarsi nello studio della letteratura di viaggio: La mente del viaggiatore. Dall’Odissea al turismo globale [2]. Basterebbe giocare un po’ con queste parole, e cambiare i termini della questione facendo pendere l’ago della bilancia sul versante letterario, per avere La mente del cantastorie. Dall’Odissea al postmoderno. Ed ecco che, analizzati sotto questa nuova luce, narrativa e viaggi cominciano a correre, se non proprio sullo stesso binario, su binari quantomeno paralleli. Se poi ci dovessimo mettere ad aggiungere ciò che manca al libro di Leed, ovvero tutto quanto è accaduto dopo il 1991, data della sua pubblicazione, e a circoscrivere l’analisi ai fatti italiani, avremmo Dall’Odissea al New Italian Epic: Viaggio e NIE, in definitiva, comincerebbero a guardarsi in faccia in maniera così ravvicinata da potersi chiarire e completare a vicenda.

Certo, tutti questi condizionali possono sembrare delle forzature. Ma sono molti gli elementi che mi incoraggiano a procedere nell’analisi. Innanzitutto, il richiamo all’Ulisse omerico come incipit di ogni partenza, e di ogni racconto che voglia dirsi epico.

“L’eroe del lungo viaggio” vede il suo spostamento come una condanna. E infatti la sua partenza è decretata dagli dei, non solo non è volontaria, ma è una vera e propria punizione (e l’elemento di dolore, di strappo, resiste ancora nell’etimologia dell’ inglese travel-travail-travaglio). Tutto il suo peregrinare assume una dimensione fortemente tragica in quanto tentativo a lungo frustrato di chiudere il cerchio, di tornare a casa. Eppure è dal di “fuori” che Ulisse riesce ad avere piena consapevolezza di ciò che sta “dentro”. E’ proprio grazie a quello strappo che egli può ricomporre la sua storia, e quella degli achei. Di più: è dalla lacerazione, dalla ferita del viaggio che sgorga la narrazione, e si ricostruisce l’intreccio di una storia. Tzvetan Todorov, ne La conquista dell’America, afferma che Ulisse ha compiuto la sua impresa per fare “dei racconti inauditi” [3]. È partito, dunque, per raccontare, e il viaggio è diventato sia il mezzo che il fine del racconto. In quest’ottica, è significativo che nel saggio La salvezza di Euridice, inserito nella versione cartacea per Einaudi di New Italian Epic, Wu Ming 2 ricordi il momento in cui Ulisse scoppia in lacrime nell’udire Demodoco che rievoca gli eventi della guerra di Troia. Scrive Wu Ming 2:

“Non è il semplice ricordo, la nostalgia del passato a far piangere Ulisse. Né i fatti cantati dall’aedo sono di per sé tristi […]. Sono due gli elementi che li rendono commoventi, cioè significativi: l’intreccio del racconto e lo sguardo dall’esterno del poeta. Per comprendere cosa siamo, non bastano i fatti, ci serve una storia. E perché questa storia non sia un semplice parlarsi addosso, non basta guardarsi l’ombelico, serve il punto di vista di un altro” [4].

O quantomeno di un’altra versione di noi stessi, quella appunto che ci è data dal trovarci al di là dei confini imposti dai precetti famigliari, fuori dalle garanzie delle soglie rituali che fissano le nostre identità. Date queste considerazioni, non è certo una casualità se Wu Ming 1 ha dichiarato, in una recente intervista rilasciata a Jadel Andreetto: “Se ho coniato l’espressione inglese New Italian Epic anziché nuova epica italiana, è per mantenere questo sguardo da fuori. Se si sta troppo immersi nella caciara italiota, si fatica a ragionare” [5]. Wu Ming 1 e Wu Ming 2, dunque, pongono l’accento su un’altra, fondamentale, caratteristica che il viaggio e il suo resoconto condividono col NIE, ovvero la possibilità che queste esperienze ci dischiudono di vederci da lontano, di prendere le misure del nostro essere in un luogo e in un tempo.

Le identità, si sa, si costruiscono “differenziandosi od opponendosi sia all’alterità, sia alle alterazioni” [6], si creano con un gioco di specchi e riflessi. E quando questi riflessi mutano, anche le identità si trasformano, trasformando simultaneamente la percezione che abbiamo della nostra cultura di provenienza. Nella nostra interezza, ci possiamo guardare solo da lontano. E’ “laggiù” che si ricompongono i frammenti del nostro esistere, e che lo straniamento ci sottrae alla condanna di una visione parziale delle cose. Questo ha portato, nel corso del Novecento, a un proliferare di viaggi letterari nei periodi di crisi — penso ad esempio agli anni Trenta, quando la risposta ai prosatori d’arte che succubi del regime si aggrappavano a orpelli retorici privi di contenuti venne da autori come Mario Soldati, che in America primo amore racconta la sua esperienza nel luogo che allora incarnava l’alternativa migliore alla soffocante situazione europea. Nei momenti in cui il presente del proprio habitat frana, si sente l’esigenza di distanziarsi da esso abbastanza da poter ricomporre le rovine e ricominciare a dare un senso alla disgregazione. Del resto, come ricorda Claudia Boscolo, anche l’epica (soprattutto l’epica) diventa “un genere letterario gravido di potenzialità espressive” proprio “quando la libertà di espressione viene limitata dal “patronage”, cioè quando si impongono, mutatis mutandis, modalità comunicative simili a quelle che si stanno verificando oggi” [7].

Ma facciamo un passo oltre. Perché la concezione del viaggio cambia radicalmente dai tempi omerici ai tempi nostri, e il punto di svolta ha radici medievali. Basta prendere in considerazione l’Ulisse dantesco per rendersi conto di quanto le cose siano cambiate [8]. Se per l’eroe omerico “non altro male è maggiore ai mortali dell’andar vagabondando” [9], in Dante Ulisse motiva la sua partenza con “… l’ardore/ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto” [10]. L’associazione del movimento alla libertà ha dunque radici medievali, quando la possibilità di partire liberamente diviene segno distintivo dell’uomo libero. (Impossibile non sentire riecheggiare in queste considerazioni il finale di Q, in cui i personaggi si definiscono “liberi” proprio in quanto padroni della possibilità di “solcare il mare” [11], ovvero di partire — partirsi, separarsi da sé, guardarsi da fuori).

Dolore e viaggio si distanziano dunque sempre di più, e le partenze cominciano a essere tutte motivate da un qualche tipo di quest. I viaggi cavallereschi, che rappresentano lo schema del viaggio moderno significativo, sono tutti delle ricerche: della donna amata, del senno perduto, di un intreccio che possa dirsi perennemente incompiuto. E il poema epico-cavalleresco svolge, per il NIE, un ruolo particolarmente importante in quanto esempio antesignano di transmedialità e cultura partecipativa [12]. Si tratta di opere aperte in cui vengono rappresentate imprese eroiche che costituiscono dei viaggi di per sé, dato che le gesta dei mitici paladini vengono traghettate da un’epoca all’altra, da un medium all’altro.

Ma, venendo finalmente al nocciolo vero della questione, cosa è accaduto da allora ad oggi? E’ accaduto che l’identificazione viaggio/piacere, e, successivamente, la progressiva democratizzazione del viaggio conseguente a una lunga serie di innovazioni tecniche, hanno rimpicciolito il mondo. E’ successo che il viaggiare di generazioni e generazioni ha ridotto sensibilmente la varietà delle cose. E’ successo che se per l’Ulisse omerico partire fu un’imposizione degli dei, per noi, oggi, partire diviene sempre più spesso un’imposizione sociale, un segno distintivo del quale non possiamo fare a meno: “Il viaggio delle vacanze è diventato, per i ceti medi mitteleuropei e nordeuropei un dovere sociale. Non colui che parte deve giustificarsi, ma colui che rimane” [13]. Tutto ciò ha chiari effetti anche in letteratura.

Se nel corso del Novecento molti scrittori si sono cimentati nel genere viaggio, è perché, per usare una categorizzazione stilata da Angelo Pellegrino, questi erano, in gran parte, “inviati ufficiali” o “invitati ufficiali” [14]. Molte delle narrazioni degli spostamenti, almeno fino agli anni Ottanta del secolo breve, sono raccolte in volume di articoli precedentemente apparsi su quotidiani [15]. E anche quando non è stato così, gli scrittori hanno varcato i confini del proprio paese sempre con lo scopo di andare là dove accadeva qualcosa: Baldini e Alvaro hanno visitato la Turchia di Kemal, Malaparte e Moravia si sono recati in URSS dopo il rapporto Kruscev, Fortini e Cassola sono approdati nella Cina di Mao, mentre l’India è stata meta privilegiata nel periodo immediatamente seguente la decolonizzazione. La narrativa di viaggio, insomma, ha avuto per lungo tempo uno scopo principalmente informativo.

Questo ruolo è venuto a cadere con il tempo. A partire dagli anni Ottanta, ha cominciato a diffondersi l’angoscia dell’irracontabilità del mondo. L’overdose informativa, la possibilità sempre crescente di accedere a ogni angolo del globo con un colpo di mouse, o comprando via internet biglietti low cost, o semplicemente accendendo la tv, ha provocato tutta una serie di lamentazioni apocalittiche: il mondo è chiuso, non c’è più niente da vedere. Siamo nel villaggio globale, non esiste più un altrove. E, infine: anche il racconto è morto. Tutto è stato detto, visto e riportato sulla pagina scritta mille volte, e non ha più alcun senso continuare.

Curiosamente, però, è proprio a partire da questi anni che la letteratura di viaggio, almeno in Italia, ha avuto un boom senza precedenti. Soprattutto dall’ultimo decennio del Novecento hanno cominciato a fioccare collane editoriali interamente dedicate al genere (penso, ad esempio, alla collana “Viaggi e Avventure” della edt, a Feltrinelli Traveller, a “Stranger” di Rizzoli). Quella che per un lungo periodo è stata una fetta di letteratura italiana completamente snobbata dalla critica — in virtù, proprio, dei numerosi dati materiali che ne “contaminano” l’aura di disincarnata letterarietà, pregiudizio che il genere viaggio si trova a condividere con il NIE — piano piano ha iniziato a farsi largo a spallate, interessando gli studiosi, entrando addirittura nel pantheon dei Meridiani Mondadori [16].

Ma come sono state affrontate, a cavallo tra i due millenni, queste narrazioni? La risposta è semplice: come è stata affrontata la letteratura tout court. C’è chi, come Alberto Arbasino (Trans-Pacific Express, Mekong, Passeggiando tra i draghi addormentati, Le Muse a Los Angeles), ha incarnato la figura dell’intellettuale disincantato, ironizzando con il popolo dei turisti, lamentando che non esiste più un luogo autentico, dato che ormai “arrivano tutti” [17] (come se non arrivasse anche lui…). Altri, come Gianni Celati, hanno giocato a sdoppiarsi, si sono presi in giro, hanno alzato le mani in segno di resa già dagli incipit dei loro resoconti. Altri ancora, e sia qui emblematico il caso di Manganelli (Esperimento con l’India), hanno considerato il loro viaggio un esperimento — con se stessi, prima di tutto, ma anche, evidentemente, con la scrittura. Tutti, ognuno a suo modo, hanno usato il viaggio per parlarci di sé, della propria personalità letteraria. Sguardi iperselettivi, frantumazione dell’io, esibizione dei detriti di un mondo impazzito e condannato alla sempreugualità; ognuna di queste tecniche narrative non ha fatto altro che dirci la stessa cosa: non c’è più nulla che possa ancora essere insegnato, e quindi compreso. Non c’è senso, e se c’è abita solo negli occhi del viaggiatore, o nella penna dello scrittore.

Ed eccoci all’oggi, finalmente. Oggi che sono sempre meno i letterati che partono come inviati di questo o quel giornale, e sempre più i giornalisti che hanno un tale successo di pubblico da farsi, a loro modo, cantastorie. Penso a Tiziano Terzani, o a Paolo Rumiz. Oggi che la perdita di senso non fa più così ridere, oggi che ogni resa della scrittura trova a schiantarsi contro il muro dei lettori. Lettori che vogliono storie, che confidano in qualcuno capace di raccogliere la sfida della dicibilità: del passato, del futuro, e di tutto lo spazio che li separa. E che vogliono essere agenti fondamentali di questa ricostruzione. Perché sanno che l’appiattimento e l’omologazione del linguaggio introdotti dai media equivalgono all’appiattimento e all’omologazione del mondo: per questo è da qui, dalle parole, che si deve ripartire.

Il New Italian Epic e la letteratura di viaggio hanno dinanzi a sé i medesimi ostacoli, e le medesime possibilità.

Quello che vuole un lettore di libri di viaggio è semplicemente viaggiare. E questo non si può fare eliminando l’attraversamento. Nonostante gli alti livelli di scrittura, molta narrativa di viaggio ha generato un senso di frustrazione nel fruitore dell’opera perché — a causa del taglio giornalistico prima, e della voluta frantumazione poi — sono saltate tutte le connessioni. A farla breve, è mancato il racconto del transito. Un viaggio in cui non si transita semplicemente non è un viaggio. Al limite, può essere un album di fotografie, una raccolta di cartoline. Ma il lettore vuole mettersi in marcia, costruire pezzo per pezzo il percorso, colloquiare in prima persona con i viandanti, dar loro un volto, un odore, una stretta di mano. La forza che ha la parola, la capacità della scrittura di creare attorno a sé partecipazione: è questo che rende viaggiatore chi legge.

Se c’è da augurarsi qualcosa, oggi, dal genere viaggio e dalle narrazioni nel loro insieme, è dunque che ricomincino a transitare. Perché viaggiare ha a che fare con il tempo, tutti gli spostamenti sono ricerche più o meno soddisfatte di compiere percorsi straordinari nel passato o nel futuro. Si va alle radici dell’umanità, “verso la cuna del mondo”, in India, in America del Sud, soprattutto in Africa. O si rincorre il futuro, si sbircia in quello che forse saremo, o che magari vogliamo fare in modo di non essere mai, puntando lo sguardo verso lo skyline di New York, o dentro l’ossessiva spinta alla metamorfosi di Hong Kong. Il futuro ha un cuore antico, scriveva Carlo Levi. “Ritorno al futuro”, si legge nel sottotitolo di New Italian Epic. Eppure l’unico tempo che ci appartiene davvero è questo presente, che chiede di essere attraversato, attimo dopo attimo. E’ qui, ora, che si creano connessioni, che ciò che è stato non smette di vivere, di abitare in tutto il tempo a venire. Il transito è il movimento dentro una zona intersiziale, un continuo mutamento di luogo grazie al quale la realtà ci viene incontro progressivamente. E’ una fase di passaggio, il racconto di un divenire in cui si dispiegano tutti i possibili, e si tesse la trama di racconti potenzialmente senza fine. Sì, senza fine, perché escono dalla gabbia della norma, del già dato (o detto). Dalle strette maglie del “luogo comune”.

Il tempo e lo spazio possono ricaricarsi di senso solo attraverso un movimento incessante che faccia saltare tutte le categorie preesistenti. Non si tratta di fare tabula rasa del mondo, o del passato. Ma di viaggiarli in uno stato di continua tensione. Solo così si può essere altrove eppure ancora qui.

Non è forse l’epica una “iperbole che produce attrito — o addirittura scontro aperto — tra il familiare e l’estraneo”[18]? E questo attrito non si potrà recuperare solo restando abbastanza ancorati al mondo da comprendere l’ “altro” senza idealizzarlo, ma al contempo distanti da esso quel tanto che serve a non addomesticarlo, non possederlo? Attraversamento del tempo e dello spazio senza possesso. Questa è, in definitiva, la chiave. Perché “estraneo” è anche quel passato che non riusciamo più a interrogare, quel futuro che non sappiamo più immaginare. E allora questo è proprio il momento di uscire una volta per tutte dal binomio cattivo cannibale/buon selvaggio. O, se si vuole, avanguardia/realismo. Eccola la sfida: cercare un altro tipo di esotico che sia eccentrico rispetto alla coppia di opposti nella quale la narrativa di viaggio (e con essa tutta la narrativa) si è a lungo impantanata, per tornare alle radici della sua etimologia – ciò che sta fuori di noi, e al quale dobbiamo continuare a tendere perché il “noi” abbia la forza di riprendersi il suo senso. E quindi, in definitiva, di darlo anche all’ “altro”. Chiunque, o qualunque cosa, esso sia.

NOTE

1. F. Remotti, Viaggi nell’alterità, in Aa. Vv., Le antropologie degli altri. Studi di etno-antropologia, a cura di F. Remotti, Scriptorium, Torino 1997, p. 152.

2. E.J. Leed, La mente del viaggiatore. Dall’Odissea al villaggio globale, trad. it., Il Mulino, Bologna 1991.

3. T. Todorov, La conquista dell’America, trad. it., Einaudi, Torino 1992, p. 16.

4. Wu Ming, New Italian Epic. Letteratura, sguardo obliquo, ritorno al futuro, Einaudi, Torino 2009, p. 176.

5. J. Andreetto, “Intervista con Wu Ming sul New Italian Epic”, Panorama online, 23 gennaio 2009.

6. F. Remotti, Contro l’identità, Laterza, Roma-Bari, 1996, p. 9.

7. C. Boscolo, Scardinare il postmoderno: etica e metastoria nel New Italian Epic, “Carmilla”, 29 aprile 2008.

8. Il paragone tra l’Ulisse omerico e quello dantesco è utile per rendere subito palese, nella brevità di questo studio, il drastico cambiamento che il concetto di viaggio assume nel medioevo. In realtà, come ampiamente documentato da Maria Corti in Scritti su Cavalcanti e Dante, il naufragio di Ulisse nella Divina Commedia ha motivazioni molto più complesse e sfumate, con riferimenti al metodo degli aristotelici radicali: “Un complesso culturale che consentiva a Dante di fare di Ulisse un contemporaneo, imparentato sia ai coraggiosi navigatori del proprio tempo sia a quegli intellettuali del XIII secolo che avevano aspirato a divenire sapientes mundi ed erano finiti, con metafora risalente lontano, a sant’Agostino, in un naufragio filosofico” (M. Corti, cit., p. 268).

9. Omero, Odissea, xv.

10. Dante, Inferno, xxvi, vv. 97-98.

11. L. Blissett, Q, Einaudi, Torino 2000, p. 635.

12. E’ importante sottolineare come il rapporto tra il poema epico-cavalleresco e il Nie sia circoscritto alla necessità di orientarsi nuovamente verso una cultura partecipativa. Non bisogna qui farsi trarre in inganno dal termine “epico”, e alle diverse connotazioni che questo assume là dove viene utilizzato come aggettivo e là dove, invece, viene utilizzato per identificare un genere letterario. Ringrazio Claudia Boscolo per avermi fatto notare tali necessarie distinzioni.

13. E. Stölting, Riposo, cultura e tempo libero, trad. it., in Aa. Vv., La letteratura di viaggio. Storia e prospettive di un genere letterario, Guerini e Associati, Milano 1987, p. 230.

14. Pellegrino, Verso oriente, p. 10.

15. Occorrerebbe, qui, una digressione sul rapporto letteratura/giornalismo, ma devierei troppo dal focus del mio scritto. Mi limito a riportare, per adesso, queste parole di Guido Piovene del 1965: “La separazione tra giornalismo e letteratura è tanto più netta quanto più un popolo, per ricchezza, per tradizione colta o per altri motivi, legge per abitudine libri e riviste specializzate. Un popolo come il nostro, in cui la maggioranza di chi leggeva, almeno fino a ieri, leggeva soltanto il giornale, voleva trovarvi di tutto, il giornale, la rivista e il libro”. G. Piovene, La “terza pagina”. Perché ha fatto fortuna solo in Italia?, in “La Stampa”, 30 giugno 1965.

16. E’ del 2008 la pubblicazione, nei Meridiani Mondadori, del primo volume (1700-1861) di Scrittori Italiani di viaggio a cura di Luca Clerici.

17. Cfr. A. Arbasino, Passeggiando tra i draghi addormentati, Adelphi, Milano 1997, p. 233.

18. Wu Ming, New Italian Epic, cit., p. 72.

* Gaia De Pascale è dottore di ricerca in Analisi e interpretazione dei testi italiani e romanzi. E’ autrice dei volumi Scrittori in viaggio. Narratori e poeti italiani del Novecento in giro per il mondo (Bollati Boringhieri, 2001), Slow Travel. Alla ricerca del lusso di perdere tempo (Ponte alle Grazie, 2008) e Wu Ming. Non soltanto una band di scrittori (Il Melangolo, 2009). Il suo sito ufficiale è www.gaiadepascale.it

LINK, ANNUNCI, NOTIZIE SUL DIBATTITO NIE

bookowski.jpg DARIO OLIVERO SU BOOKOWSKI (REPUBBLICA.IT)
Interessante e da approfondire (sappiamo che qualcuno la sta approfondendo) la connessione/genealogia Pasolini-Petrolio-NIE che emerge in questa recensione di Dario Olivero, sul suo “blog d’autore” Bookowski, repubblica.it.

UOMO MORDE CANE SU “IL RIFORMISTA”
Sono trascorsi undici mesi prima che i lettori potessero leggere, finalmente, una vera critica “negativa”. Finora i “detrattori” si erano prodotti soltanto in mesti frizzi, tristi lazzi e flosce frecciatine che si volevano liquidatorie e in realtà avevano effetti-boomerang. Per la prima volta, qualche giorno fa, abbiamo letto un articolo critico che tentava di discernere, una recensione pensata e articolata, che in molti punti trova il nostro disaccordo ma è basata su uno sforzo di comprensione e analisi. Luca Mastrantonio ha pensato che prima di criticare il libro fosse d’uopo leggerlo, e al contrario di molti altri… lo ha fatto! Dopo quasi un anno di freddure e cacaggi di sentenze, questa è una notizia.
[Carmilla, cogliendo l’occasione, ringrazia Mastrantonio e la sua testata per l’attenzione e l’abnegazione con cui seguono questo sito.]

malcontento.jpg MASTRANTONIO È CONTINI AL CONFRONTO
Invece, sul “Corriere della sera”, Mirtillo Malcontento tenta di cavarsela con poco. Siamo indulgenti, molto più di questo non gli si può chiedere.

ANTONIO SCURATI SU TUTTOLIBRI DE “LA STAMPA”
A tutta pagina, l’autore di Una storia romantica e La letteratura dell’inesperienza riflette sull’epica e il suo ritorno. Clicca per aprire il PDF.

UN’ILLUMINANTE CONFERENZA SU GOMORRA
Avevamo già segnalato un intervento di Dimitri Chimenti su Gomorra e le strategie testuali con cui Saviano ha inserito nella narrazione la realtà circostante. Quella che linkiamo ora è un’espansione e un’accelerazione di quell’analisi, oggi molto più vasta e chiara, nonché estesa al film di Garrone. Titolo: “Appunti per una tipologia retorica: inserti, prelievi, innesti in Gomorra di Roberto Saviano” Pagina di presentazione con i file audio in streaming.


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