di Dziga Cacace

Ov1-1.jpgCollezione Primavera 1997 (intro)
Questa volta mi fermo a metà giugno: finisce l’anno scolastico ed è tempo di scrutini e giudizi finali. Certo, non ci sono più le materie a settembre ma, quasi per contrappasso, sarò io a dover riparare: mi aspetta un’estate di lavoro e studio. Oltre a dover perdere la vista su nuove applicazioni multimediali da consegnare a fine agosto, devo anche sanare il troppo spesso rimproveratomi pregresso deficit hitchcockiano – o se preferite, secondo le nuove denominazioni del Ministero dell’Istruzione, il “debito formativo”. Comunque, ecco per i miei affezionati lettori le pagelle e le schede di valutazione del secondo quadrimestre 96/97. In questo non richiesto seguito del vendutissimo e molto apprezzato Lo sguardo mutilo, troverete infatti i giudizi riguardo ai 139 film (corti, documentari, fiction etc., in video e pellicola) che ho visto dal 2 febbraio fino al 20 giugno 1997; insomma, la mia “collezione Primavera ’97”.


Rispetto alla mia precedente opera copro dunque un periodo più breve, ma decisamente più intenso (una media di titoli recensiti pro die pari a 1). Il numero di schede equivale a un terzo di quelle contenute ne Lo sguardo mutilo, ma le parole spese sono ancora di più. Stavolta non siete più davanti a un cahier d’impressioni: a rileggere questo Oblique visioni traspare chiaramente l’inconscia presunzione di trattare tutti i film con attenzione ed equanimità. Là ero più sintetico e disordinato, ma diretto e spontaneo. Qui ho guadagnato in chiarezza e in (supposta) capacità d’analisi, perdendo però quella compiaciuta e anarchica libertà di critica. Forse ho visto roba più decente e l’impeto denigratorio è venuto meno, mancando distillati d’idiozia come L’ombra del testimone o Proposta indecente. O forse no: basta vedere cosa ho scritto de Il giurato. E fateci caso, c’è sempre di mezzo quella bestia patentata di Demi Moore.
Non più, quindi, due righe, buttate giù aspettando Hilda in perenne ritardo (anche perché s’è fatta puntuale!), ma accurate e ponderate elucubrazioni, cesellate con metodo: sigaretta tra le labbra, tastiera rovente sotto le dita incalzanti, sguardo perso nel monitor baluginante del computer e cervello lanciato in geniali intuizioni. Così è nato Oblique visioni dall’estrema sinistra, il cui titolo non deve trarre in inganno: il 33% dei film visti è stato consumato al Lumière, il mio cineclub, e ormai anch’io, come Fonzie da Arnold, ho il mio posto riservato nell’amatissima sala. Si tratta del terzo posto dall’esterno, nella quarta fila, l’estrema sinistra da cui non si possono avere che oblique visioni. Oddio, non che veda trapezoidale, però, non so, ormai la visione rigidamente frontale mi risulta scomoda, tanto che, nel cinema vuoto, ho dovuto qualche volta discutere (e cedere) con Barbara, che si batte per una rigorosa assunzione ortogonale della pellicola proiettata.
Comunque vada a finire (cosa?), però, non sono soddisfatto.
Questo libro ha una presunzione mal dissimulata, è un sequel non richiesto e preannuncia una lunga teoria di aggiornamenti che perseguiteranno i cari amici. E possiede un altro enorme difetto: come Lo sguardo mutilo, dice chi sono i colpevoli, ma stavolta in tutti i sensi. Troppo spesso racconto la trama e, peggio, vi dico come va a finire e chi è l’assassino. Me ne sono reso conto troppo tardi (cioè ieri, e perché me l’ha fatto notare Barbara) per cui: se è un giallo o un thrilling e volete vederlo, occhio allo spoiler assassino.

1-Un orfano chiamato San Mao di Anonimo Cinese, Cina 1949

Questa curiosa cineseria, già passato in precedenza su Fuori Orario, viene nuovamente riproposta in una nottata dedicata ai bambini (come soggetti cinematografici, non come spettatori, è chiaro). Impossibile sapere il regista, avendo perso i titoli di testa e mancando quelli di coda, ed essendo introvabile su qualunque enciclopedia di mio possesso. Come chiaramente esplicitato dal titolo, il film racconta le vicende di un orfano – dalla curiosa testa a forma di raperonzolo – che vive sulla strada di una città cinese degli anni Trenta, sfruttato e imbrogliato o da adulti senza scrupoli o da ragazzi più scafati di lui. Finalmente viene adottato da una famiglia di ricchi possidenti. Tentano di trasformarlo in un piccolo damerino ma il richiamo della strada e dei suoi piccoli compagni è più forte. Trionfa la rivoluzione e per il piccolo San Mao il futuro sembra più luminoso. A parte l’inserto propagandistico finale, risolto però abbastanza gioiosamente, tutto il film è percorso da una anarchica e vitale ricerca di libertà e il dramma degli orfani è vissuto secondo un’angolazione comica abbastanza riuscita. Originale e soprattutto, per il collezionista che s’annida in me, molto raro. Quanti italiani se lo sono visti alle cinque e venti del mattino? (D’abitudine non mi sveglio a quell’ora per vedere un film, ma la videocassetta era già pronta per Ekk e il suo Leone d’oro del ’32; colto di sorpresa dall’ennesima variazione di programma da parte di quel burlone di Ghezzi, non ho potuto che stringere i denti e godermi il bel filmetto. Tutto sommato, ringrazio Fuori Orario). (Diretta RaiTre; 2/2/97)

2-Un uomo da bruciare di Paolo e Vittorio Taviani e Valentino Orsini, Italia 1962

Salvatore, dopo aver studiato a Roma per alcuni anni, torna in Sicilia nel paese natale e si mette a servizio delle lotte dei compagni lavoratori, tentando di emancipare i loro ingenui metodi di lotta contro i latifondisti mafiosi. La sua irruenza, e in buona sostanza presunzione (che i Taviani e Orsini non esitano a mostrare) lo portano a un progressivo isolamento, anche all’interno del Partito. In un mondo percorso da omertà di paese, intrighi e connivenze, Salvatore intraprende un percorso cristologico che lo porterà, molto consapevolmente, alla morte, facendolo diventare un simbolo delle lotte contadine. La regia, come già detto, non si accontenta di presentare un eroe “buono” e incorruttibile, ma preferisce giocare sui chiaroscuri di una personalità inquieta (resa benissimo da Volonté) che aspira al riconoscimento della sua superiorità intellettuale e che cerca il martirio, identificandosi con un Cristo dei lavoratori il cui sacrificio li renda liberi. Salvatore è visto anche attraverso i ricordi della metropoli o nei suoi rapporti affettivi, sempre però macchiati da un’ambiguità di fondo. Film interessante per diversi motivi (l’esordio dei Taviani, il parlare apertamente della mafia), anche se mi sembra che ne sia stato esaltato l’aspetto politico perdendo di vista l’accurata e profonda scrittura del personaggio principale. (Vhs da RaiTre; 2/2/97)

3-Lamerica di Gianni Amelio, Italia/Francia 1994

Tornato prepotentemente d’attualità il problema Albania, la Rai lancia in prima visione il dolente film di Amelio sulla prima ondata d’immigrazione che investì le coste pugliesi nel ’92. Un bieco affarista (Placido) e il suo segretario (un bravo Lo Verso) si recano a Tirana per stringere un accordo commerciale che usufruisca di un forte contributo governativo. Chiaramente l’impresa sarà fasulla e avrà al comando una testa di legno locale, un “presidente” controllabile a piacimento, ruolo per il quale viene scelto un prigioniero politico vessato da anni di carcere duro e in evidente stato confusionale. Lo Verso, lasciato solo in Albania per sbrigare le formalità burocratiche del contratto commerciale, si vede costretto a inseguire il “presidente” in un viaggio attraverso il paese che diventa una discesa negli inferi. L’egoismo e la prepotenza italica verso un popolo ritenuto pronto per essere colonizzato economicamente, si trasformano progressivamente in comprensione, ma non per una improvvisa compassione quanto perché anche Lo Verso si vede privato delle certezze su cui si basava la sua arroganza. Viene spogliato di tutte le sue ricchezze e delle sue ottuse convinzioni e ormai, disperato tra i disperati, ritorna in Italia a bordo di uno stracarico traghetto, alla ricerca di un posto di lavoro. Il racconto è un po’ schematico (intendo quello di Amelio, non solo il mio), a tratti rischia di scivolare in momenti retorici (il continuo parallelismo tra l’America, antica terra di nostrana immigrazione, e l’Italia di oggi) e soprattutto è “legato” da una trama (il dissidente che ha più di settant’anni, di cui buona parte in un carcere albanese, è un po’ troppo in forma) che risulta poco credibile. Ma la forza civile del film prevale su queste défaillance. L’Albania, desolata, brulla e costellata di inutili bunker in rovina, è un paesaggio dell’animo, imbruttito da troppa televisione e falsi miti di ricchezza e successo, e gli sguardi, disperati ma dignitosi, degli albanesi in viaggio per l’Italia, propongono un dramma che gli italiani hanno conosciuto ma non vogliono evidentemente ricordare. Film non perfettamente riuscito, ma ammirevole. (Vhs da RaiUno; 3/2/97)

4-Il passeggero di Michael Druker, Svezia 1996

Una ragazza scende da un treno e ruba un taxi, a bordo del quale, poco dopo, sale un bruto che la costringe a portarlo senza meta. In una palpabile tensione i due si conoscono e veniamo a sapere che lei è appena evasa, condannata per un furto di cui non s’è mai trovata la refurtiva. Inseguiti da un inquietante motociclista i due recuperano il bottino ma… A questo punto il recensore del Secolo XIX concluderebbe con un “complicazioni” e anch’io non voglio essere da meno, evitando di raccontarvi la soluzione del thriller (chissà che Fuori Orario non lo trasmetta, una volta o l’altra). Il passeggero, nonostante qualche buco nella sceneggiatura, offre un buon ritmo e la tensione è ben scandita per tutta la durata del film, ma non lo si equivochi per un semplice riuscito thrilling e basta. Come ormai la coraggiosa rassegna del Lumière inizia a rendere evidente, i film svedesi (so che sto clamorosamente banalizzando, ma d’altra parte mi rifaccio ai pochi film che ho visto) dedicano molta attenzione alla costruzione dei personaggi, dando spessore a film, magari dall’impianto narrativo esile. In questo caso gli attori (specialmente lei, scontrosamente intrigante) sono convincenti e il film offre una fotografia veramente bella: la prima parte, d’ambientazione notturna, utilizza espressivamente le luci diffratte, i riflessi dei neon e delle insegne luminose e i fari delle macchine, in un caleidoscopio cromatico interessantissimo. La seconda parte privilegia il severo paesaggio scandinavo, alternando cromatismi caldi (i campi di segala) e freddi (le foreste). O.K.: tutte ‘ste belle cacchiate, ma poi: il film t’è piaciuto? Sí, direi di sí: è forse il miglior film di questo ciclo. (Cineclub Lumière; 4/2/97)

5-Incontri a Parigi di Eric Rohmer, Francia 1995

Ho passato la prima parte del film a pensare che sono tutti completamente impazziti, poi, pian piano, l’atmosfera gentile del film m’è entrata sotto pelle e, messi da parte i molti pregiudizi che provo nei confronti di Rohmer, mi sono convinto della validità di questo piccolo film. Rohmer racconta tre brevi storie d’amore che hanno in comune il fatto di non realizzarsi, sullo sfondo di una Parigi in costante cambiamento, così come i sentimenti dei personaggi. Ma perché mi stavo irritando? Come sempre non c’è alcuna concessione alla ricerca formale, alla bella inquadratura e ai movimenti di macchina; addirittura, nel primo tempo, si hanno in rapida sequenza alcune scene dove l’operatore con la steady-cam sembra che abbia il morbo di Parkinson, alcuni zoom sono assolutamente incontrollati (a scatti, come se l’obbiettivo fosse unto) e molte, troppe volte, i passanti guardano curiosamente in macchina. Ma, in fondo, il gusto di raccontare di Rohmer prevale su tutte queste sciattezze formali che diventano ininfluenti. Una volta tanto i dialoghi mi sono sembrati, per quanto poco credibili (come, del resto, le situazioni narrate), non solo sopportabili ma addirittura convincenti, senza dover ricorrere alle solite scuse che adottano i fan del regista francese (“I dialoghi sono sciatti e banali perché la gente parla veramente così, e poi è colpa del doppiaggio”). Questo godibile balletto di ragazzi e ragazze che si inseguono per le strade della capitale francese non ha bisogno di verosimiglianza: la sessualità è soltanto suggerita e ogni drammaticità è assolutamente bandita; il racconto diventa un leggero e piacevole apologo sulla casualità e l’irrequietezza dei sentimenti, molto più convincente di tanti film che giocano sull’emotività dello spettatore. Diventerò un estimatore di Rohmer? Chi vivrà, vedremo. (Vhs; 5/2/97)

6-Die Venetianische Nacht di Max Reinhardt, Germania 1913

Nell’ambito di una rassegna di film tedeschi ambientati nel nostro paese, rassegna che, forse colpevolmente, ho disertato con cura (perdendomi anche un sicuro capolavoro con la Prati e Cannavale), il Lumière presenta questa preziosa chicca: il mio primo film di Reinhardt. La notte veneziana è un vaudeville scanzonato e divertente che ricopre un maggior valore di rarità piuttosto che artistico. Nel 1° rullo c’è un’interessantissima gita visiva attraverso i canali di Venezia, non ancora lordati da insegne pubblicitarie, pizzerie e altre porcate. Carina anche la lunga parentesi onirica che consente surreali scenette. Interessante, va’. (Cineclub Lumière; 6/2/97)

Ov1-2.jpg7-Il dottor Stranamore di Stanley Kubrick, Gran Bretagna 1964

Rivedo, dopo una decina d’anni, uno dei cult della mia adolescenza. Ne avevo un ricordo abbastanza vivo ma non ero più consapevole della sua notevole bellezza. Uno sciroccato colonnello in andropausa (dall’emblematico nome Jack D. Ripper) scambia il suo perdere colpi dal punto di vista sessuale con un complotto dei russi che, a suo dire, starebbero avvelenando l’acqua (e infatti lui beve alcool medicinale e acqua distillata). Il colonnello lancia i suoi bombardieri all’attacco dell’Unione Sovietica e il mondo si trova sull’orlo di una catastrofe nucleare. Seguiremo lo svolgersi degli avvenimenti attraverso tre diversi e connotatissimi punti di vista (specie da quello scenografico): il vertice al Pentagono dove sono riuniti militari e politici in un crescendo di ottusità; il comando dove risiede il colonnello impazzito; e l’interno di uno dei bombardieri lanciato nella folle missione. Bravissimi gli attori, con una menzione particolare per Sellers (che si divide in tre ruoli), Hayden e Scott. Dunque, un film perfetto: una satira, assolutamente compiuta dal punto di vista formale e narrativo, che assurge ad autentico e godurioso capolavoro e che preme per entrare nella mia Top Ten. (Vhs; 7/2/97)

8-Segreti e bugie di Mike Leigh, Gran Bretagna/Francia 1996

Strano regista Leigh. Tutto sommato Segreti e bugie mi ha soddisfatto, ma non totalmente. Il primo tempo m’è sembrato un po’ troppo insistito nella sua drammaticità, una drammaticità che richiede una presenza attoriale notevole e che qui, talvolta, risulta invece discontinua. Forse è colpa della traduzione, ma i dialoghi funzionano parzialmente. Nel secondo tempo il film ha un ritmo migliore e la sottile comicità del regista si fonde bene a momenti intensamente (e credibilmente) drammatici. Premesso che trovo altamente morale (in senso bertolucciano) lo stile di ripresa del regista (evita accuratamente ogni linea cadente, posizionando sempre la cinepresa verso la linea d’orizzonte), se devo essere sincero, trovo Leigh più bravo a riprendere gli imbarazzi, gli sguardi, gli impercettibili e nervosi movimenti delle mani, piuttosto che le scene madri; insomma, lo trovo più fine a suggerire che a mostrare (mi pentirò di questa avventata affermazione, lo so). Lamentele da vecchio rompicoglioni? Sí, ne ho, figurati: la scena che vede il fotografo durante il suo lavoro è sinceramente divertente, anche se è una facile concessione al gusto dello spettatore, quasi a dargli un contentino dal momento che il racconto arranca un po’. E poi, basta con la “dittatura del vomito”. Ogni volta che si vuole mostrare allo spettatore un dolore intensissimo, ZAC!, eccoti una bella vomitata con la testa nel cesso. Un po’ d’originalità, eccheccazzo. (Cineclub Lumière; 8/2/97)

9-La signora in ermellino di Ernst Lubitsch e Otto Preminger, USA 1948

Mentre io passo a Hilda film di provata qualità, la furbacchiona si diverte ad arrembarmi scabecci prodottini. Così pensavo dopo il primo quarto d’ora di questo film. Poi sono stato conquistato dall’esile racconto e, a visione ultimata, sono abbastanza contento. Lubitsch morì durante le riprese, per cui il film porta il suo marchio anche se l’intenzione iniziale è irrimediabilmente trasfigurata: la favola è divertente e assume spesso le cadenze di un musical, in un’ambientazione coloratissima e molto artificiosa. Vale poco, ma tutto sommato mette allegria. (Vhs; 9/2/97)

10-Tanti filmetti di Georges Méliès

Divertente antologia che mi permette di conoscere alcune opere della preistoria: insieme al famoso Il viaggio nella Luna del 1902, vengono presentati altri film meno noti che contribuiscono però, in un modo o nell’altro, a rendere chiara la poetica del regista francese. L’homme orchestre ci presenta un curioso personaggio (Méliès stesso?) che si moltiplica in sette orchestrali per poi “ricomporsi”; in The Inn Where No Man Rests, non sappiamo se la locanda dove è ambientata la breve vicenda sia stregata o se sia tutta un’illusione procurata dallo stupore alcolico del protagonista; ne La lanterna magica assistiamo all’omaggio a uno degli antenati del cinema; ne I tuoni di Giove e ne La sirenetta si apprezzano soprattutto le inventive ambientazioni (tutte rigorosamente in cartapesta); in The Terrible Turkish Executioner il trucco delle teste tagliate è spunto per alcune divertenti gag; infine ne L’eclisse: il corteggiamento del Sole alla Luna assistiamo all’evento celeste con una certa malizia erotica. Tutti i cortometraggi, come detto, sono caratterizzati da qualche invenzione che, in pratica, diventa il motivo primo del film stesso: i classici trucchi di montaggio (apparizioni e scomparse) si alternano all’uso delle sovrimpressioni e alle prime animazioni, ma su tutto predominano le immaginifiche scenografie, dal gusto esagerato e artificiale. Film cortissimi e divertenti. (Vhs; 9/2/97)

11-Il ventaglio di Lady Windermere di Ernst Lubitsch, USA 1925

Raro film muto che vede l’originale trascrizione di un’opera di Wilde. Lady Erlynn, dal passato equivoco, ricatta Lord Windermere e, dietro la minaccia di rivelare che è la madre di sua moglie, gli estorce del denaro. Lady Windermere sta per cedere alla corte di Lord Darlington, convinta che il marito la stia tradendo con Lady Erlynn, finché la stessa, con un gesto che moralmente la redime ma che, praticamente, distrugge i suoi sogni di rispettabilità, si accolla ogni responsabilità riguardo l’imbarazzante vicenda. Sospetti, segreti, pettegolezzi, giudizi lapidari: le moralità altrui sezionate e giudicate da un’umanità ottusa e falsa, in un rigorosissimo esercizio drammatico che nulla concede al gusto dell’equivoco e che schiaccia la piccineria alto borghese su sfondi e scenografie gigantesche. Il gesto finale di Lady Erlynn allontana lo scapolone d’oro che, con il matrimonio, le avrebbe dato pubblica accettabilità, ma con un inaspettato finale, il riccone si rende conto dell’ipocrisia della situazione e il film si conclude, senza sbandierarlo troppo, su una nota positiva. Anche se gastricamente ho apprezzato di più La bambola di carne, Il ventaglio di Lady Windermere è un’opera più completa e interessante. E brava Hilda che finge di fregarmi e poi… (Vhs; 9/2/97)

Ov1-3.jpg12-La corazzata Potëmkin di Sergej M. Ejzenštejn, URSS 1926

Il sommo capolavoro del Maestro l’ho visto la prima volta sei anni fa, insieme a Hilda, in una retrospettiva sul cinema di Ejzenštejn organizzata al cinema Palazzo. Oggi, in pieno trip sovietico, lo rivedo con curiosità, anche perché la patina mitologica che avvolge il film me ne ha lasciato un ricordo confuso: certo, come dimenticarsi le sequenze della scalinata di Odessa? Ma le ricordo grazie a Ejzenštejn o a Il secondo tragico Fantozzi? Insomma, dopo aver conosciuto meglio l’opera di Sergej Michailovic ed esserne rimasto sconvolto, devo riscoprire il suo capolavoro. Il Palazzo era gremito di studenti, tutti venuti perché l’occasione per vedere il famoso “occhio della madre” era ghiottissima. Francamente non so se il film fosse veramente piaciuto, ma ho ancora nelle orecchie l’autentico boato che seguì la caduta della famosa carrozzina. E oggi, che dire? Al di là delle sequenze più famose, sono tanti i momenti veramente esaltanti, anche se, a essere sincero, ho preferito altre cose del Maestro di Riga. La ricerca sul montaggio di Ottobre e la purezza delle immagini di Que viva Mexico mi hanno impressionato di più dell’emozionale Potëmkin. Ma non sono qui per fare un’ottusa classifica: La corazzata Potëmkin non è una cagata pazzesca, è un film stupendo in cui si attua una notevole sintesi tra istanze formali e narrative. Trama: i marinai della corazzata sono degli autentici gourmet e sono stufi di mangiare carne con i vermi; si ribellano e il loro capo Vakulinciuk viene ucciso. La sua salma viene portata a Odessa ed esposta alla folla: la popolazione scossa (“Morto per un cucchiaio di minestra”, l’intreccio gastro-politico si fa sempre più stretto) reagisce manifestando e, in una scena che Sollima ha voluto assolutamente citare nel finale del suo Sandokan, porta soccorso ai marinai con una miriade di barche a vela. L’esercito non prende sportivamente la cosa e compie un massacro (sequenze formalmente molto compiute: composizione perfetta, movimenti di macchina eccezionali, montaggio concitato per le scene di folla, “rigido” per i soldati, campi lunghi e primi piani alternati sapientemente). La Potëmkin si allontana da Odessa ma incontra una minacciosa squadra navale; la tensione sale grazie a una sequenza montata perfettamente: lo scontro sembra inevitabile. Invece no! La Potëmkin passa indenne tra le altre navi solidali e veleggia verso il sol dell’avvenire. In realtà finirono tutti molto male, ma la veridicità storica importava poco a Ejzenštejn. Insomma, anche se sono un fottutissimo esteta, prepotente affiora la commossa partecipazione al racconto; e allora non posso che concludere così: La corazzata Potëmkin è un capolavoro pazzesco. (Vhs; 12/2/97)

13-La fine di San Pietroburgo di Vsevolod I. Pudovkin, URSS 1927

Povera stella, il Pudovkin! Narratore intenso e sinceramente lirico, tenta di fare l’Ejzenštejn e sforna un’opera incerta che in tante parti ricorda La madre, in altre gli esperimenti di Sciopero, ma che soprattutto si perde nei meandri di un racconto che potrebbe essere semplice ma è appesantito da tanti inserti, belli ma poco funzionali alla chiarezza della trama. Secondo un classico schema propagandistico abbiamo la presa di coscienza di uno zotico che, arrivato in città per lavorare, denuncia alla polizia un amico agitatore. Si pente, viene arrestato e poi spedito al fronte. Matura una coscienza politica e partecipa ai dieci giorni che sconvolsero il mondo. A differenza di S.M.E. (Sergej Michailovic, o se preferite Sua Maestà, Ejzenštejn), Pudovkin racconta la rivoluzione attraverso le storie di singoli individui: politicamente è meno retorico (e meno potente, il che, viste le intenzioni celebrative del soggetto, è sicuramente un difetto) e dal punto di vista narrativo risulta molto più conservatore, imbevuto com’è di patetismo drammatico. I tentativi formali risultano un po’ incerti (anche se le inquadrature sono molto interessanti) e c’azzeccano poco. Comunque bello, anche se tra i miei Pudovkin è, al momento, il più discutibile. (Vhs; 12/2/97)

14-Dracula di Francis Ford Coppola, Usa 1992

Perso all’uscita cinematografica, ho avuto la costanza di aspettare che questo film passasse di nuovo sul grande schermo e, thanks God, il Lumière ci ha messo una pezza, consentendomene l’abbastanza gradita visione. Perché abbastanza? Il primo tempo gode di scenografie (il castello di Dracula, che sembra un trono da cui dominare il mondo), di effetti e di un ritmo assolutamente notevoli. L’ambientazione horror è rivitalizzato con intelligenza, tra citazioni cinematografiche (i tanti classici Dracula, Nosferatu etc., ma anche La bestia di Borowczyk) e figurative (Dürer e Caravaggio, tra quelli che ho colto), e attualizzata facendo emergere la carica erotica del romanzo di Bram Stoker (Crepax, anche se in altro campo, l’aveva pensato già dieci anni prima). Questo approccio molto sensuale ci consente la piacevole visione di tante esangui e dentute belle figliole, tra cui la futura (chissà) diva Monica Bellucci, che, al suo esordio cinematografico, ci ammannisce con sicuro impegno professionale un bel paio di minne ubertose. Il secondo tempo, in cui prevale l’ambientazione nella Londra di inizio secolo, è più blando; le invenzioni sembrano esaurite e il film si trascina fino al concitato finale. Ciò nonostante si apprezza la presenza dell’ambiguo Hopkins, che pur combattendo Dracula presenta un evidente lato oscuro. Insomma, abbastanza bello; bravi gli attori, belli i costumi, giovanilistica la regia, per un prodotto da gran mercato che non rinuncia all’autorialità. (Cineclub Lumière; 13/2/97)

15-Dementia 13 di Francis Ford Coppola, USA 1963

Mia un po’, il primo film di Coppola! E bravo il Lumière che recupera questa rara pellicola e la propone in una interessante serata monotematica. Il film è in versione originale, il sonoro è vagamente impastato, la palpebra vacilla e all’inizio la trama sembra leggermente confusa. Non posso dire di avere capito tutto; per farla breve: un tizio stermina familiari e conoscenti a colpi d’ascia, perseguitato dal ricordo di quando da bambino, in un incidente, uccise la sorella. Sotto l’evidente influenza di Corman, Coppola costruisce un horror/thrilling abbastanza scolastico dal punto di vista narrativo (non preoccupatevi se vi ho detto chi è l’esagitato con l’ascia, lo capireste anche voi dopo dieci minuti di visione) che, però, riserva qualche piacevole sorpresa formale: le sequenze delle uccisioni sono inventive, soprattutto quelle sott’acqua. Per cui il film si apprezza. (Cineclub Lumière; 13/2/97)

16-Pickpocket di Robert Bresson, Francia 1959

Visto tre anni fa al Beaubourg di Parigi, lo rivedo con piacere per rendermi conto se il giudizio (scocciatissimo) della prima visione era stato attendibile. L’avevo visto conoscendo letteralmente solo una decina di parole francesi e la visione in originale (per cui come muta) era stata ostica. Tanto più che il personaggio principale mi era sembrato fin da principio odioso: di conseguenza, il film mi aveva preso quasi niente. Bresson, con il suo consueto composto stile, ci racconta la storia di un ragazzo senza qualità, che intraprende l’attività del borseggiatore. Una serie d’incontri (un amico onesto che gli offre del lavoro pulito, la ragazza che assiste sua madre morente, il commissario che gli dà la caccia) gli pongono dei dubbi che vengono risolti dal crescente successo dell’attività criminale. Infine, catturato, capirà di amare la ragazza. Il film si chiude con l’amara considerazione di quanto sia stato lungo e tortuoso il cammino per dare senso a una vita che si trascinava. La narrazione è scandita molto bene e le scene “d’azione” (i vari borseggi e le esercitazioni per metterli in pratica) sono costruite con intelligenza (anche se mi pare impossibile fregare dei portafogli a quella maniera). Ciò che mi convince poco è l’assoluta incapacità recitativa dell’attore principale, espressivo come un sarago lesso, particolare non secondario che mi aveva colpito anche alla prima visione. Può darsi che sia una precisa scelta registica a significare il vuoto morale del protagonista, chissà. Con il beneficio del dubbio (perché l’attore è cane in maniera devastante): film apprezzabile. (Vhs; 14/2/97)

17-Beautiful Girls di Ted Demme, USA 1996

Incongrua scelta del Lumière: il nipote del vero Demme licenzia un film indeciso tra commedia nostalgica e ritratto generazionale, con aspirazioni un po’ più alte. Ovviamente non riesce in nessuno dei due intenti e il film non decolla: sono scarsi i momenti divertenti (e le situazioni si presenterebbero a ripetizione) e sono banalmente scontate le considerazioni sull’amore e sulla vita. Un redivivo Timothy Hutton ritorna a casa, nella gelida provincia americana, dopo tanti anni. Una festa con i vecchi compagni della high school consente l’incontro con gli amici, tutti più o meno in crisi (lavoro, amore etc.). Ma Hutton viene soprattutto colpito da una nuova vicina di casa, una tredicenne molto più matura dei suoi amici quasi trentenni. Ovviamente l’amore è impossibile e a Hutton non resta che riprendere la solita vita. Detto così, fa schifo. E, in effetti, un po’ schifo lo fa. Secondo le intenzioni del regista, Hutton, che vive in città, dovrebbe apparire molto più maturo dei suoi coetanei, ma, francamente, agli occhi di un europeo che non sia cresciuto bevendo tutte le sere al bar (cioè come quasi tutti gli europei, esclusi gli inglesi), anche lui appare come un bambinone immaturo il cui orizzonte culturale si spinge al massimo a Il mago di Oz. Il film scorre e si arriva a fine visione senza irritarsi troppo, dal momento che la presunzione registica è manifestamente inibita dall’incapacità di provare qualche approfondimento un po’ più serio. Per cui, mediocre e superfluo. (Cineclub Lumière; 15/2/97)

Ov1-4.jpg18-Tempeste sull’Asia di Vsevolod I. Pudovkin, URSS 1928

Finalmente un Pudovkin veramente godurioso: lontano dal pathos de La madre e dai pasticciati tentativi formali de La fine di San Pietroburgo, Vsevolod sforna un film d’avventure che, al consueto forte messaggio ideologico, accompagna un buon ritmo, bellissime inquadrature e un montaggio molto convincente. Bahir è un cacciatore mongolo che, ito a vendere pelli di volpe al mercato, viene angariato da un inglese, sotto il protettorato dei quali è schiacciata la nazione mongola. La reazione violenta del nostro eroe, altrimenti bonario, porta a una repressione che lo costringe alla fuga sulle montagne dove abbraccia la lotta partigiana dei sovietici. Viene però catturato e ferito dagli inglesi ma, dal momento che lo ritengono discendente di Gengis Khan, viene anche curato, rivestito e istruito per farne il reggente fantoccio del loro regime coloniale. Bahir compie una seconda presa di coscienza e guida il popolo e i partigiani alla lotta contro l’imperialismo in un’ultima entusiasmante sequenza che mostra, in stretto montaggio parallelo, una violenta tempesta di vento e la travolgente carica della cavalleria mongola. La materia narrativa, ricca d’azione, consente montaggi molto arditi e la bellezza straordinaria dei luoghi portano Pudovkin a fotografare molte scene all’aperto, dove taiga, deserti e steppe regalano set ideali. L’esotismo delle terre in cui è ambientata la storia consentono anche una descrizione quasi documentaristica degli usi dei mongoli buriati, specialmente nella scena ambientata nel monastero. Ottimo, Vsevolod. (Vhs; 16/2/97)

(CONTINUA – 1)