di Tiziana Perna

Ayat.jpgA volte capita che, improvvisamente, la tua vita entri in un contatto profondo con altre a te fino ad allora sconosciute, lontane nel tempo e nello spazio. A volte capita che per una casualità e a dispetto delle distanze temporali e geografiche, il tuo vissuto si accosti in maniera sorprendentemente profonda a quello di altri esseri, uomini o donne, vecchi e bambini, senza neanche essersi mai conosciuti. Succede così, e la maggior parte delle volte non siamo neanche in grado di accorgercene, e poi invece può succedere che i nostri sensi siano in un dato momento, e per una serie di fortuite circostanze, vigili e accorti. E’ in questo istante che si ricostruiscono i nessi e si avvicinano gli animi, le aspirazioni e le sofferenze. A me è capitato così per caso, di trovarmi al centro di una strana, quanto fitta, rete di circostanze, le quali hanno fatto sì che le vite di alcune persone, conosciute e non, vive o morte, si siano incrociate con la mia, e abbiano lasciato una memoria profonda di sé e delle proprie storie.

1. Tullio

Aprile 2007. Vivo da qualche tempo a casa di una mia amica. E’ sera e lei è appena tornata da un viaggio nei territori palestinesi occupati. Sono scesa dal piano di sopra dove Valerio, mio figlio che ha 3 anni e mezzo, è scivolato con dolcezza in un sonno profondo. C’è anche altra gente, mi fanno vedere le foto del loro viaggio. I racconti di Angela, di Corrine, le loro immagini. Ripenso al mio di viaggio in Palestina di qualche anno fa. Mi portano i saluti di una cara persona, Tullio, che avrà 80 anni o giù di lì.
Tullio l’ho conosciuto a Ramallah, Cisgiordania, Pasqua del 2002, esattamente cinque anni prima. Eravamo tanti, più di 100 persone, partiti con una carovana di Action for Peace e Disobbedienti. Gente da tutta Italia, tanti gruppi, tanti dialetti, associazioni, centri sociali, età e professioni le più diverse. Pochi giorni prima della nostra partenza l’esercito israeliano aveva occupato nuovamente le principali città palestinesi della Cisgiordania, e fatto scattare l’operazione denominata “Muraglia di difesa”, che avrebbe tenuto sotto assedio migliaia di palestinesi. Yasser Arafat era sotto il tiro dei tank israeliani che circondavano la Muqata, la sede dell’amministrazione centrale dell’Autorità nazionale palestinese.
Io e Tullio facevamo parte di un gruppo di “internazionali” che, violando illegalmente i posti di blocco israeliani, entrarono a Ramallah sotto coprifuoco, asserragliandosi a difesa degli ospedali e dei presidi medici, costantemente sotto il tiro dell’esercito israeliano. Con Tullio ho passato la notte più angosciosa della mia vita. Anche lui se la ricorda quella notte, ne sono sicura. Non ci siamo più visti, non ne abbiamo mai parlato, ma credo di sapere che quella notte è rimasta scolpita nella sua memoria quanto nella mia.
Tullio ha i capelli e la barba bianca, e l’aspetto di un uomo di montagna. Ne ha il passo, la pelle scurita dal sole, lo sguardo fermo e sereno di chi è abituato a spazi maestosi ma insidiosi. E’ del nord Tullio, non so neanche più di dove. E’ stato un partigiano. E questo partigiano si è ritrovato, a 80 anni, in una Ramallah devastata dai bombardamenti, a condividere, chissà perché con me, una notte in cui l’assurdo e il tragico sono entrati a piè pari nelle nostre vite. Eravamo stati alla sede del Medical Relief, a riordinare e scaricare sacchi di aiuti per la popolazione palestinese. Il lavoro lo avevamo finito tardi, quando già la notte era calata, coprifuoco totale. Per tornare all’ospedale di Ramallah da dove eravamo partiti, dovevamo attraversare la città a bordo di un’ambulanza, ma anche riaccompagnare al check point israeliano i due camion provenienti da Gerusalemme, che erano venuti a portare gli aiuti. Gli autisti dei due camion non se la sentivano di tornare da soli. I soldati israeliani che occupavano le strade di Ramallah, avrebbero sicuramente sparato alla vista di due camion che viaggiavano in una notte di coprifuoco. Salimmo su quell’ambulanza mentre il buio si faceva sempre più fitto. La città era senza elettricità. Quando la nostra strana processione entrò nella piazza principale di Ramallah, Al Manar, la piazza con al centro i 4 leoni scolpiti nella pietra, l’inferno si scatenò intorno a noi. C’erano altre persone oltre a me e a Tullio su quell’ambulanza, ma io mi ricordo soprattutto di lui. Della sua preoccupata lucidità. Oggi penso fosse la lucidità di chi aveva già sentito sparare intorno a sé. Di chi conosce il rumore delle armi e forse, cosa succede dentro, fin nel più profondo delle viscere, quando lo si sente per la prima volta. Per me era la prima volta. Ricordo tutto. Non era paura, la paura è poca cosa. Era terrore. Ricordo ogni sguardo, le mani che si tengono strette, la lunghissima telefonata con i nostri compagni all’ospedale che preoccupati, seguono in diretta cosa sta succedendo. Ricordo il buio intorno a noi, buio nero, non blu, e quei lampi che si accendono di continuo, senza che si riesca a capire verso dove sono diretti quegli spari. Quando vedi quei lampi sai che un colpo è partito e che in un attimo una pallottola può conficcarsi dentro di te, e allora sembra che tutti ti sparino addosso, anche se non è così. Avere la consapevolezza che qualcuno sta sparando nella tua direzione è un’emozione che ti annienta, che ferisce dentro, che ti dà la sensazione precisa che le tue funzioni vitali si stiano per bloccare all’istante. Pensi a tutto mentre cerchi di non pensare a niente. E’ un ricordo doloroso e angosciante.
Tullio era calmo, attento, preoccupato. Lo rivedo lì, mentre mi giro per cercare conforto, persa nel mio terrore. La fortuna mi ha fatto tornare a casa. La fortuna e Tullio, con quello sguardo sereno di montagne.

2. Lo stesso giorno

La macchia l’avevo vista quella mattina, alla sede del Medical Relief di Ramallah, che appena il giorno prima era stata bersaglio di una violentissima incursione dell’esercito israeliano.
La Medical Relief Society, coordinata da Mustafa Barghouti, dal 1979 si occupa di creare presidi medici e di assistenza sociale in tutti i territori occupati palestinesi. A nessuno era dato sapere, in quei giorni di follia, perché mai si dovesse distruggere un presidio sanitario, sparare sulle ambulanze, devastare le sedi di chi cerca di portare aiuto alla popolazione civile. E’ una domanda che mi assillava in quei giorni, a cui saprò dare un’angosciante risposta solo quando, lontana geograficamente, ricostruirò il senso di quelle esperienze.
Io e altri compagni eravamo asserragliati nella hall di un hotel di Ramallah, quando era arrivata la telefonata che ci informava che stavano attaccando il Medical Relief. Sul luogo c’erano anche Luisa Morgantini, parlamentare europea e infaticabile donna di pace, e Tano D’Amico, il nostro carissimo fotografo Tano D’Amico. L’edificio del Medical Relief era circondato, alcune mine erano già state fatte esplodere. A nessuno veniva data la possibilità di uscire e mettersi in salvo, neanche alle famiglie che abitavano nei caseggiati accanto. Per scampare all’esplosione qualcuno si era gettato da una finestra. Di quell’episodio ho in testa le immagini di Tano D’Amico. Il corpo di quell’uomo, volato giù dal secondo piano, ferito gravemente ma ancora vivo, trascinato per i piedi dai soldati israeliani, le ambulanze e i soccorritori fermi, tutti intorno alla scena, impossibilitati a intervenire sotto il tiro delle armi. E Luisa che corre, corre, le braccia allargate, a cercare di fermare, a cercare di riprendersi quel corpo, a cercare di strappare almeno una vita, almeno solo quella vita, alla barbarie. Ho in testa lo sguardo di Tano su quell’orrore. Luisa e Tano riusciranno a riconquistare quel corpo, a strapparlo alla follia di giovani soldati israeliani, mandati ad uccidere sé stessi e questa terra tanto amata, a consegnarlo ai medici.
La mattina dopo eccoci a ripulire il Medical Relief semi distrutto.
Entro e vedo la guerra. Un’altra mia prima volta. E’ una macchia di sangue, è solo e stramaledettamente solo una macchia di sangue. E’ una macchia di sangue, e sta ferma lì. Sangue rappreso. Tutto qua. Nient’altro. Mi entra nella testa quella macchia, e non se ne andrà più.
Per tutto il pomeriggio mettiamo a posto, puliamo, scansiamo macerie, ordiniamo sacchi di aiuti, farina, zucchero. Facciamo cose semplici, cerchiamo il modo di accatastare sacchi in maniera funzionale, attraverso una catena ordinata e precisa. Facciamo cose che restituiscono senso ai nostri gesti, facciamo spazio, puliamo. Tentiamo un’impresa vana, quella di restituire quotidianità e coerenza alle cose e ai nostri gesti, nel bel mezzo di una guerra. Ma la macchia è sempre là. E lo sappiamo tutti.

3. Due giorni dopo

In quei giorni eravamo ospiti e custodi dell’ospedale centrale di Ramallah. A gruppi accompagnavamo le ambulanze in giro per la città. La popolazione civile era rinchiusa nelle proprie case dal coprifuoco totale. Cecchini israeliani sparsi un po’ ovunque sparavano a chiunque violasse il coprifuoco. Nessuno poteva uscire neanche per comprare cibo. Nessun bambino poteva andare a scuola o giocare per la strada. La città era deserta. I negozi chiusi. Il governo israeliano aveva chiuso i rifornimenti della rete elettrica, quindi tutti erano al buio, al freddo, e senza acqua filtrata. Una catastrofe umanitaria. Le ambulanze giravano per la città a volte anche solo per distribuire medicine o latte in polvere per le famiglie con neonati. Le ambulanze, bucherellate dai proiettili, erano gli unici mezzi che si vedevano girare per le strade.
Nell’ospedale dove eravamo iniziava a scarseggiare tutto, acqua, cibo, medicine, ma soprattutto i rifornimenti per il generatore che dava elettricità all’ospedale. Un ospedale senza elettricità è impossibilitato a svolgere la sue funzioni primarie.
Il 29 o il 30 marzo, non ricordo, i medici ci dissero di uscire, di seguirli nel parcheggio dell’ospedale. Lì trovammo una scavatrice. Non capimmo subito perché stessero scavando l’asfalto di un parcheggio. Quella fossa serviva a seppellire i defunti, perché senza elettricità le celle frigorifere dell’ospedale non funzionavano più.
Appena si sparse la notizia, ufficiosa, che l’esercito israeliano dava un po’ di tempo per seppellire i morti, un piccola folla silenziosa cominciò a radunarsi intorno alla scavatrice. Fatico a capire come sia stato possibile che quell’informazione abbia girato per Ramallah e sia arrivata nelle case della gente. La scavatrice iniziò a lavorare, si doveva fare in fretta. C’era un silenzio irreale, gravido di tensione e angoscia. Nessuno parlava, solo il rumore della macchina accompagnava gli sguardi e il cammino della gente. I corpi, avvolti nei lenzuoli bianchi, vennero calati giù, nella grande buca, accompagnati da sommesse preghiere, sussurri trascinati. L’aria immobile, la pioggia battente. Noi ci spostammo ai lati e con discrezione osservammo le operazioni funebri. Il silenzio fu squarciato da un gruppo di donne. Erano quattro o cinque e arrivarono quasi correndo. Loro non sussurrarono, no, loro arrivarono urlando. Il loro non fu un lamento funebre, né una preghiera, ma rabbia allo stato puro. Spezzarono il silenzio e sfogarono il dolore gridando tra le lacrime che la Palestina sarebbe stata libera.
Ricordo il volto di una di loro in particolare, ricordo bene la sua voce, ferma, potente, roca e i gesti delle mani a dare forza alla voce. Le osservammo in silenzio mentre intorno a loro la tensione iniziò a salire. Una sonora raffica di colpi, sparata dai vari cecchini appostati sui palazzi, disse a tutti chiaro e tondo che la tregua era finita. Era il segnale che diceva che ti conveniva rientrare immediatamente dal luogo da cui eri venuto, e che Ramallah doveva ridiventare la città spettrale che era.

4. Ibdaa

Marzo 2008, campo profughi di Dheisheh. La mia seconda volta.
RR si chiamano. Che sta per Refugees Rappers. Sei ragazzi salgono sul palco dell’Ibdaa, il centro culturale del campo profughi alle porte di Betlemme. Inizia il concerto. Basi registrate, il microfono che passa di mano in mano, il ritmo sincopato dell’hip hop, i movimenti del corpo a seguire l’onda. E’ un concerto come tanti altri, se non fosse che qui nasce in un campo profughi palestinese. Nasce dalla rabbia e dalle storie di quei circa 12.000 palestinesi costretti a vivere in un triangolo di terra di mezzo chilometro quadrato. Cantano e ballano le loro storie, quelle delle loro famiglie, dei loro vicini. Corpi abbarbicati su altri corpi. Non capiamo i testi. Bastano i movimenti, la voce. La rabbia non ha bisogno di essere tradotta. E di storie da raccontare ce ne sono tante.
Qualche sera prima il gruppo di danza tradizionale di Ibdaa ne ha raccontate altre di storie, quelle dei nonni e dei padri, dal 1948 alla seconda occupazione del 1967, quelle dell’amore per la terra e i suoi frutti, della lotta per essa. I codici espressivi sono diversi, ma in entrambi c’è la voglia di narrare le storie della resistenza del popolo palestinese.
Dheisheh è un unico corpo, fatto di viuzze strette, di casette ammassate una sull’altra. Si può espandere solo in linea verticale Dheisheh, può occupare spazio di cielo, ma non di terra. Secondo le convenzioni che regolano gli statuti dei campi profughi palestinesi, questi sono sotto l’egida delle Nazioni Unite, le quali nel caso del campo di Dheisheh, hanno affittato l’area per 99 anni. Se la popolazione cresce, si fa spazio sopra, mai di fianco. Non c’è terra. Non ci sono le autorità palestinesi. I servizi essenziali alla popolazione sono forniti dalle organizzazioni per i rifugiati delle Nazioni Unite. Su una popolazione di circa 12.000 abitanti, di cui il 60% minorenni, ci sono una clinica con un solo dottore, due scuole primarie e due secondarie. Le classi sono composte in media da 45 bambini.
Per riuscire a sopravvivere in un posto come Dheisheh, c’è bisogno che si funzioni come un corpo, che si creino armonie tra i propri sé. Ibdaa è il punto rosso sulla mappa che dice “voi siete qui”. Un punto dove si intrecciano le trame di una rete complessa, che parte dalla strada. Ibdaa vuol dire qualcosa che si costruisce dal niente. Ibdaa è quando si inizia a essere in due e poi si diventa un noi. Ibdaa sono i rifugiati cacciati dalle proprie terre tra 46 villaggi delle aree di Gerusalemme e Hebron durante l’occupazione israeliana del 1948. A Ibdaa c’è spazio per tutti, purché si costruisca qualcosa che appartiene a tutti. Ma soprattutto a Ibdaa ci incontri i ragazzi, tanti, le ragazze meno, ma tante anche loro. Ibdaa elabora i lutti e li fa diventare musica, danza, informazione, socialità. E allora la rete si infittisce e si aggiungono progetti e servizi.
Nella piccola biblioteca all’interno del loro asilo ci si guarda intorno ammutoliti, grati a chi ci ospita per averci dato la possibilità di conoscere tanta bellezza in mezzo a tanto dolore. Saliamo sulla terrazza di uno degli edifici di Ibdaa, e la guardiamo dall’alto, l’unico modo per guardare Dheisheh. Intorno al campo profughi, una fitta rete di avamposti militari israeliani, recinzioni, insediamenti colonici. Una prigione collettiva, in cui ammassare palestinesi uno sull’altro, in cui segregare economie, storie, cultura, relazioni. Ibdaa è un po’ il cuore di Dheisheh e pompa fuori sangue e respiro. Costruisce piani su piani, in ognuno c’è uno spazio rivolto a un servizio, a un gruppo di teatro, di danza, alle squadre sportive maschili e femminili, al gruppo delle donne. Il cielo affitta i suoi piani ai profughi di Dheisheh. La terra sotto, la cura Ibdaa.

5. Cinque anni prima

La ricordavo Dheisheh, c’ero già stata nel 2002. All’epoca il campo era circondato da macerie e bombardato. Per arrivarci, dal centro di Betlemme, camminammo a piedi, in mezzo a voragini enormi nell’asfalto, scheletri di palazzi, auto bruciate. Non incontrammo nessuno.
A Ibdaa ci accolsero con il solito calore, che avrei poi imparato a conoscere e ad amare. Riuscimmo a vedere, attraverso il satellite, i telegiornali italiani, e a sapere quindi che gli altri del nostro gruppo, già arrivati a Ramallah, avevano violato il coprifuoco, erano scesi per le strade in mezzo ai combattimenti e si erano recati a piedi e con un mazzo di fiori in mano, al quartier generale di Arafat. Ricordo in particolare un’immagine di quel tg, un soldato israeliano che, sporgendosi dall’angolo di un palazzo, scarica proiettili chissà verso dove, torna a proteggersi dietro l’angolo, si gira e rimane pietrificato, senza parole, attonito, a guardare questa sfilata di pazzi che camminano per le strade della guerra.
Quella notte la passammo a Ibdaa, stesi uno accanto all’altro nei nostri sacchi a pelo, al centro della sala teatro, vicini, lontani dalle finestre. Una notte intera di bombardamenti. Ricordo Valerio e Giampiero accanto a me, ricordo che dormimmo poco, e che ridemmo tanto. Scherzi della tensione.
La sera, prima che calasse la notte, un ragazzo di Ibdaa, che parlava bene italiano, ci accompagnò a fare un giro del campo profughi. Tra le stradine strette del campo, in mezzo al silenzio e alle porte chiuse delle case, trovammo una porta aperta e capannelli di gente che in silenzio e in fila ordinata, entravano in casa, salutavano uomini e donne con baci e abbracci, prendevano il caffè e uscivano mestamente. Era la casa della famiglia di una giovane donna di 18 anni, che pochi giorni prima si era fatta saltare in aria nel supermercato Supersol di Gerusalemme ovest, uccidendo una guardia giurata e una ragazza israeliana, anche lei di 18 anni. I giornali di mezzo mondo parlarono a lungo di questa vicenda, accostando le storie delle due ragazze morte: Ayat, palestinese, la carnefice, e Rachel, israeliana, la vittima. Ragionai a lungo su quelle due parole.
Non entrai in quella casa, rimasi sull’uscio, non andai a salutare la famiglia, non presi caffè. Li osservai, la madre soprattutto. Lo sguardo vuoto, i gesti e le parole ripetute meccanicamente, da automa, parole e gesti senza vita. Come se Ayat, la figlia, avesse fatto esplodere anche i movimenti e le parole vive della madre.
Ricordo che camminammo in silenzio, le parole non uscirono più, ognuno di noi perso nei propri pensieri, gravidi di domande e di angoscia.

6. Mohammed

Nel marzo del 2002, una breve sequenza video fece il giro delle televisioni di tutto il mondo, e poi come al solito, il mondo se ne dimenticò. Io no. E’ una sequenza durissima, immagini atroci, che soffocano e opprimono pensieri e speranze. Le ricordo nitidamente. Un bambino che urla, disperato, la telecamera lo riprende mentre si ripara dietro un pezzo di cemento, si ripara dagli spari. A cercare di proteggerlo con il proprio corpo c’è il padre, il braccio e la mano tesi avanti, a cercare di fermare le pallottole, il volto sfigurato dal terrore, dallo sforzo di gridare. Poi si sente una raffica, e il corpo di Mohammed Al Durra, 9 anni, solo 9 anni, che si abbandona senza più vita, respiro, gioco, sorrisi, scuola, amori. Finito là. Il padre non urla più e il suo corpo, che si piega su quello del figlio, raccoglie la morte, in un gesto scolpito secoli prima in una Pietà.
Nel marzo del 2008 vado ad incontrare un altro Mohammed. Anche lui bambino.
Bethany è una cittadina della Cisgiordania, a pochi km di distanza da Gerusalemme. Le separa un muro. Uguale a tutti gli altri muri che circondano, schiacciano, soffocano e separano i tanti villaggi palestinesi. A Bethany incontro Samar Sahaar, la donna che gestisce la Lazarus Home. Una piccola scuola Montessori a Roma, la “Casa dei Bimbi” nel X Municipio, sostiene a distanza 3 bambini ospitati alla Lazarus. Vado ad incontrare Mohammed, Lila e Ziad. E la signora Samar.
La Lazarus home ospita 31 bambine tra i 4 e i 15 anni. Dall’altro lato della strada c’è Jeel al Amal, l’istituo maschile che ospita 86 bambini fino ai 17 anni. I genitori di Samar, una famiglia palestinese proveniente da Gerusalemme Est, fondarono l’istituto, iniziando ad accogliere bambini che per motivi vari non avevano una famiglia. Samar mi accoglie con il calore e l’energia infaticabile di chi è avvezzo a scavalcare muri di qualsiasi tipo. Dalla sua bocca, nel nostro incontro, difficilmente usciranno parole di risentimento nei confronti della popolazione israeliana. E’ come se ti dicesse che non ha tempo per questo, che c’è talmente tanto da fare che lascia agli altri i perché e i per come. Sa di pratico e di giusto questa donna dallo sguardo diretto e curioso. Ha a fianco l’amore di un dio e la forza di varie altre donne che a loro volta ne hanno a fianco un altro.
Samar accoglie bambine provenienti da tutti i territori palestinesi, senza genitori o allontanate dalle famiglie in seguito a traumi o violenze. Samar dà loro casa, una casa vera, non solo un ricorvero e un letto. Mi dice che la casa è grande sì, ma modesta, che i soldi non bastano mai, e che proprio perché modesta ci tiene che le bimbe abbiano un bel giardino, che le sue bimbe possano affacciarsi, uscire a giocare e avere occhi solo per vedere la bellezza dei fiori e degli alberi di ulivo, di questa terra tanto ferita che è la Palestina. E che per questo ha comprato loro anche una pecora, con cui giocare e di cui prendersi cura. Parla parole semplici Samar, parole che sanno di straordinario. Preferisce parlare dell’impossibile Samar, e l’impossibile oggi per i bambini palestinesi è l’infanzia stessa, la sua sorprendente bellezza. Ha mille progetti, le vacanze da organizzare in Italia, le gare di karate delle sue bambine in Giordania, la costruzione di un centro medico, che oltre a ospitare il primo pronto soccorso (attualmente c’è una sola ambulanza su una popolazione di 36.000 abitanti e una piccola infermeria che non è in grado neanche di mettere un gesso), accoglierà anche un centro di informazione e sostegno alla gravidanza e alla maternità. La casa di Samar è stata la prima casa nei territori palestinesi ad accogliere donne sole con bambini, – adesso — mi dice — altri semi stanno nascendo, a Betlemme, Ramallah e allora io mi occupo solo delle mie bambine, che devono avere il meglio. – Samar non si accontenta perché avere un tetto e da mangiare non basta se cresci a pane e odio.
La Lazarus Home lavora con tutti: i pellegrini che vengono in città, la Regione Puglia per la costruzione dell’ospedale, l’associazione dei medici clown per i bambini, l’AVSI in Italia per i sostegni a distanza, le suore comboniane per i volontari, il centro anti-violenza di Differenza Donna a Betlemme, le autorità palestinesi. Samar guarda con curiosità anche noi, tre donne italiane che viaggiano con una carovana di “Sport sotto l’assedio” e vengono dai centri sociali. Samar non ha pregiudizi e si cura di cose serie, perché restituire serenità a quelle bambine e a quei bambini è cosa drammaticamente seria. Nel frattempo beviamo il tè, Mohammed è schivo, non parla, ogni tanto se ne va, poi si riaffaccia. Beve il tè con difficoltà perché non riesce a muovere bene un braccio. Ha 4 anni (l’età di mio figlio) e ha sempre fame, mi dice Samar. Ci sono tanti vuoti da riempire e ognuno li sfama come può. Ziad e Lila hanno 12 anni. Ci scambiamo disegni tra bambini. Ziad ha disegnato gli alberi, un cielo dritto e azzurro, una bandiera palestinese al centro. Mohammed fa capolino di nuovo con la testa, e poi scappa. Va a mangiare.

7. Tre bambini, una macchia e io

Torno a Roma dal mio viaggio nel 2002. La macchia è sempre là. Distesa. Scrivo un breve testo su quella macchia che mi assilla. Provando a chiedermi e a immaginare a quale corpo vivo appartenesse. Ne parlo con Luisa Morgantini, le mando una mail con il testo che ho scritto. Dopo qualche giorno mi arriva la sua risposta: “Si chiamava Jamal”. E mi racconta la storia di quella macchia di sangue. Mi racconta la storia di Jamal, un ragazzo palestinese di 23 anni, membro della polizia presidenziale, che in quei giorni difendeva il quartier generale di Arafat. Era andato al Medical Relief per vedere se c’era bisogno di dare una mano. Sua madre è una militante, una femminista, una laica, un’intellettuale, una pacifista. E’ una cara amica di Luisa. E’ la donna che urlava sulla spianata del parcheggio dell’ospedale di Ramallah. E il corpo di suo figlio è sotto quell’asfalto.
Dopo il rientro, Federico realizza un documentario sulla nostra esperienza nei territori palestinesi. Nel video utilizzerà delle foto di Simona Granati e Tano D’Amico, i due fotografi che erano con noi in quei giorni. L’ultima immagine della breve sigla del documentario è una fotografia famosa di Tano D’Amico, scattata in un suo viaggio nei territori palestinesi nel 1990. Ritrae una bambina che ride, le mani a coprire una risata che esplode. I capelli arruffati, ribelli. Una fotografia indimenticabile. Dopo pochi giorni, leggendo il quotidiano Il Manifesto, rivedo quella fotografia e un breve articolo di Tano D’Amico. La bambina della fotografia si chiamava Versetti (in italiano), cioè Ayat. Diventerà quella giovane donna del campo profughi di Dheisheh, fattasi esplodere in un supermercato di Gerusalemme, portando via con sé altre vite, e le parole e i gesti di sua madre.

Questa è la storia di una macchia di sangue che si chiamava Jamal.
Di una bambina che si chiamava Ayat.
Di un bambino che si chiamava Mohammed.
E di un altro che si chiama nello stesso modo.
E la mia, che le ho incrociate.
Me le porto dietro.
Tutto qua.