di Giuseppe Pensabene Perez

Sanaa3.jpgMartedì sera, dopo che il nostro compagno di università Naser il cinese (il vero nome era Zau Ta Ve, a lui piaceva credere che corrispondesse al nome italiano Ot Ta Via No) se ne andò, io e Aldo decidemmo di guardare un film. Erano circa le dieci e mezza, i cinesi erano costretti a rientrare nel loro dormitorio entro le undici. Avevamo cenato a casa nostra mangiando degli ottimi fusilli al ragù preparati da Aldo, deliziando il nostro collega che ne aveva mangiato tre piatti impugnando in modo assai comico la forchetta. Scegliemmo di vedere “L’imbalsamatore”, un bellissimo film italiano che avevo già visto molto tempo prima. Un film geniale ma senza alcun dubbio parecchio inquietante: una perversa storia di un taxillodermista (imbalsamatore) nano e il suo allievo, un bel giovane di cui il maestro si invaghisce perdutamente. Verso la fine del film, ormai stanchi, decretammo di andare a dormire senza terminare la visione.

Prendo sonno con difficoltà, svegliandomi di continuo in preda a terribili incubi riferiti al film. Il nano che, per la bravura del regista, ispira solo simpatia e pena, nonostante sia diabolico, si infila più volte nel letto del giovane mentre questi dorme beato con svariate ragazze. Ricordo perfettamente di aver sognato di trovare l’imbalsamatore appoggiato sui miei fianchi mentre dormivo. Turbato da questi sogni mi sveglio sentendo brividi di freddo e malessere, attribuendo il fatto alla febbre, mi alzo e prendo la coperta dall’armadio. La notte passa in modo orribile, destandomi di soprassalto continuamente e ogni volta coprendomi di più, adoperando perfino la pulciosa coperta di lana consegnatami dal padrone di casa. La mattina quando, con molta calma, Aldo si alzo, annuncio ufficialmente la mia Malattia. Purtroppo non possedevamo un termometro quindi non potevo sapere con esattezza l’entità della febbre, ma i sintomi erano inconfondibili: testa pesante, malessere diffuso, dolore alla schiena, brividi di freddo (assai anormale in Yemen ad aprile), e fronte bollente. D’altronde il giorno prima verso le sei e mezza avevo passeggiato per una specie di parco nei sobborghi di Sana’a vestito in modo leggero, inappropriato all’aria fresca del tramonto. La mia ascendenza siciliana da sempre mi contraddistingueva per un’ estrema debolezza riguardo al freddo, bilanciata da un particolare resistenza al caldo. Serenamente attribuii quell’influenza a quella mia passeggiatina incosciente, sebbene fossi un po’ stupito del fatto che non fosse accompagnata da raffreddore o mal di gola.
Passo il giorno dopo trascinandomi dal letto al mafrash (il divano basso tipico mediorientale), sempre ossessionato dal bisogno di dovermi alzare nuovamente per essermi dimenticato le cose che, necessariamente, dovevo tenere a portata di mano: telefonino, bottiglietta d’acqua, coperte varie, asciugamano e materiale leggibile.
Alla partenza avevo deciso di portarmi solo tre libri non in arabo, convinto che dopo poco Yemen sarei stato in grado di godermi un bel romanzo mediorientale a letto senza il peso dell’antipatico dizionarietto Zanichelli poggiato sul petto. Grave errore. Erano partiti con me: “la mujer de mi hermano”, sensuale e intrigante libro peruviano datomi da mio padre; “La trilogia della città di K”, stranissimo giallo molto interessante di una scrittrice ungherese, regalatomi a natale e “La storia” di Elsa Morante”, su insistenza di mia madre, che avevo accettato solo perché lunghissimo e perché non avevo mai letto niente dell’autrice. Dopo tre giorni dal mio arrivo avevo già fatto fuori il primo libro in spagnolo, divorato in quelle prime notti rese nervose dalla novità del viaggio. Il libro dell’ ungherese lo finii in dieci giorni, rallentato dalla trama complicata e a volte oscura. “La Storia” richiese quasi un mese. Un libro bello e fondamentale nonostante, a tratti, la Morante risulti un po” antipatica e saccente.
Dunque dopo neanche un mese di permanenza in Yemen non avevo più romanzi se non in arabo… Di quelli in realtà ne avevo svariati, fra i quali l’eterno “La migrazione verso nord” di Tayyeb Saleh che, da quando traducemmo il primo capitolo all’università, mi porto dietro sempre ripromettendomi di finire di tradurlo/leggerlo, poiché mi era piaciuto assai. Non sono mai andato oltre il secondo capitolo…
In preda alle convulsioni della febbre leggere in arabo risultava piuttosto inutile, soprattutto senza avvalersi dell’ausilio del dizionario che risultava piuttosto penoso date le mie condizioni. Prima di dormire, spesso leggevo in arabo senza aiutarmi con lo zanichellino, credendo di capire l’andamento del romanzo nonostante alcune espressioni ignote. Adesso, che di arabo ne so un po’ di più, mi chiedo come facevo ad autoconvincermi di capire il senso del libro se almeno di tre parole per ogni riga non conoscevo il significato.
Gli unici testi che mi rimanevano in italiano erano l’odiosa guida Lonely Planet dello Yemen, dell’Oman e degli Emirati e il Sacro Corano nella traduzione di Bausani. La guida era illeggibile: le informazioni riguardo il paese in cui mi trovavo erano scarse e poste sotto un ottica banale e velatamente razzista. Il tono generale era alquanto disilluso e poco incoraggiante, si animava solo descrivendo le possibilità di trekking per le montagne, proposta che mi lasciava completamente indifferente. Nella parte riguardante Dubai e gli altri Emirati, invece, il tono era entusiastico e trionfale, minuziose descrizioni dei negozi e dei centri commercial, contornate da preziose raccomandazioni sulle modalità di shopping e paragoni dei prezzi dei vari oggetti a seconda dei posti.
Il Sacro Corano invece era un ottima lettura. La portentosa traduzione di Bausani mi stupiva ogni volta che sfogliavo le pagine di quel testo. Pur non avendo un idea precisa di come dovesse essere il linguaggio della profezia, mi rendevo conto che così come era stato tradotto rendeva perfettamente il concetto: le parole irradiavano un senso di sacralità inebriante che mi provocava l’irresistibile impulso di recitarlo con voce maestosa.
Misterioso ed ermetico, non sempre capivo il senso e soprattutto la trama degli eventi esposti nelle Sure (se mai ve ne fosse una reale necessità), leggevo spesso il Corano quando ero troppo stanco (o troppo fumato) per intraprendere un romanzo, scivolando serenamente nel sonno senza mai realmente entrare nel libro.
In quei giorni, invece, sembrava che la febbre mi avesse aperto un terzo occhio mistico: fulgide, le immagini religiose mi scorrevano davanti mentre leggevo, il senso appariva chiaro e lampante. Finalmente fui d’accordo con i musulmani nel definire la storia di Giuseppe la più meravigliosa fra le storie (per una sorta di autocompiacimento la Sura che leggevo più frequentemente era la dodicesima, quella di Yusuf, parallelo del profeta biblico Giuseppe, la cui vicenda però nel Corano viene raccontata in modo molto più avvincente e visionario). Inoltre egoisticamente pensavo, o meglio mi auguravo, che l’incedere nella lettura del Testo Generoso mi procurasse una certa benevolenza presso Dio, che magari mi avrebbe aiutato a uscire presto da quella fastidiosa malattia.
Onde evitare complicate spiegazioni sulla mia fede religiosa sincretista, e per non sembrare blasfemo, all’immancabile domanda “enta muslim? – sei musulmano?”, che mi veniva posta almeno un paio di volte al giorno, nei tassì, negli autobus o in qualunque incontro casuale, rispondevo sempre: “là, ana masih — no, sono cristiano”. Se poi il dialogo continuava sui temi religiosi e l’interlocutore insisteva sulla causa islamica, enumerando i pregi della sua religione e chiedendomi il mio parere su essa, peroravo la fratellanza fra Islam e Cristianesimo, dichiarandomi soddisfatto del mio credo e soprattutto insistendo sull’unità di Dio, che è lo stesso per entrambi. Bastava sottolineare velocemente la differenza che esisteva fra le nostre e la religione degli ebrei – assassini di Cristo, nonché sordidi oppressori dei musulmani e ladri della loro terra – per lasciare soddisfatto il mio momentaneo “avversario” che, rasserenato da questa comunione concettuale, lasciava perdere i propositi convertitori.
Ogni tanto per stanchezza mi dichiaravo musulmano, ma questa poteva rivelarsi un’arma a doppio taglio: Spesso l’interlocutore si entusiasmava e mi rimbambiva di domande sulla mia conversione, oppure, esaltando i convertiti stranieri e i loro comportamenti retti e pii, se ne usciva immancabilmente con l’aneddoto di colui che si convertì leggendo il Corano senza mai aver visitato un paese islamico. Quando poi, una volta convertito, aveva conosciuto il comportamento dei suoi nuovi correligionari, aveva esclamato: “Lode a Dio che mi ha fatto conoscere l’Islam prima dei musulmani!”.
C’era una terza maniera per sviare velocemente il discorso dall’argomento religioso: rispondere positivamente alla terza domanda fondamentale, “mastichi il qat”? Il tassista medio yemenita comunicativo o il vicino di posto sull’autobus espansivo si informavano innanzitutto sul paese di provenienza, e solitamente la risposta Italia veniva accolta allegramente. A volte, come facevo in Siria, provavo a far indovinare da dove venissi. ma dopo essere stato interpretato come pakistano, turco o malese, lasciai perdere il giochetto, rendendomi conto che in media il popolo yemenita aveva delle cognizioni di geografia umana scarsissime, in particolare rispetto alle lingue parlate: molto diffusa era la convinzione che in Europa si parlasse solo inglese, vista come la lingua comune di tutti gli occidentali. Spesso mi sono trovato di fronte a sguardi ed espressioni di incredulità dopo aver spiegato che l’italiano era ben diverso dalla lingua dagli americani e che io, occidentale, l’inglese lo masticavo appena.
Dopo la seconda fatidica domanda sulla religione arrivava il turno dell’altroargomento fondamentale delle conversazioni occasionali: il qat o, come viene pronunciato a Sana’a, il gat. Molto spesso, quasi sempre se era passata l’ora di pranzo, chi mi domandava se masticassi aveva già la guancia gonfia e dal lato del labbro, mentre parlava, faceva capolino un po’ di tritura verdastra. Lo studente di arabo che intende esercitare la lingua nello Yemen deve fare subito pratica con la differenza di pronuncia delle persone che parlano con un lato della guancia gonfio di foglioline e rametti di qat masticati. All’inizio della permanenza può creare notevoli ostacoli all’intercomprensione. La mia risposta positiva veniva accolta con entusiasmo e soddisfazione, anche se deludevo rispondendo “no” all’obbligatoria domanda successiva: “mastichi tutti i giorni?”. Masticavo solo due giorni a settimana, di solito giovedì e venerdì. Il qat è una droga in tutto e per tutto e, nonostante i suoi effetti non impediscano di ragionare razionalmente, una volta passato l’effetto il corpo ne risente considerevolmente, soprattutto, come nel mio caso, se si è principianti. Da buon estimatore delle sostanze stupefacenti, già il secondo giorno del mio arrivo a Sana’a avevo reputato opportuno comprarmi una bustina di queste famigerate foglioline, per sperimentare la celebre droga che connota lo Yemen, ricavandone una piacevole sensazione. Col passare del primo mese avevo imparato a riconoscere le principali varietà presenti nel mercato, diventando subito esigente: compravo solo quello di buona qualità, che ovviamente costava di più. Dopo due mesi ero perfettamente in grado di sostenere una conversazione sui diversi tipi di qat e i loro effetti, lasciando piacevolmente stupito il mio interlocutore, a cui ormai importava ben poco se ero musulmano fratello o porcellofago cristiano colonizzatore.
Trascorsi un paio di giorni passando stanco e sudato dal letto al divano. Aldo, il mio fedele coinquilino, mi aveva rimediato un giornale sportivo arabo che parlava della Roma e una Repubblica vecchia di almeno due settimane nella quale gli unici articoli che mi interessarono furono uno di Bartezzaghi, sulla scomparsa dell’uso del punto e virgola, e un altro sui pirati somali del golfo di Aden. Vidi quasi tutti i film che avevamo portato dall’Italia senza trovarne alcuno veramente bello.
Al terzo giorno sentivo ancora la febbre alta e, dato che non avevo nessun sintomo influenzale come raffreddore o mal di gola, avvertivo solo uno strano fastidio al fegato (o alla milza?) quando bevevo acqua. Decisi che era il caso di cominciare a preoccuparmi e a prendere provvedimenti superiori al tè caldo con il lime. Mandai Aldo a comprare un termometro e scoprii di avere 39 quando erano soltanto le quattro del pomeriggio. Inoltre c’era il fattore nutrizione che mi allarmava: non mangiavo.
Non mangiavo quasi niente e non avevo assolutamente fame, io, che a ventiquattro anni pesavo novanta chili e non avevo mai avuto nessuna idiosincrasia alimentare. Il giorno prima ero riuscito a ingurgitare solo uno yogurt e due mele americane (lo Yemen importa mele dagli Stati Uniti). La situazione era preoccupante.
Chiamai Sergio, presente a Sana’a da più tempo, per informarmi sugli ospedali o sui medici a cui si rivolgevano gli italiani dell’ambasciata, deciso a farmi curare. La malattia rende sciovinisti? Mi fu dato il numero di una ginecologa che parlava italiano, il telefonino di un dottore da cui andavano gli italiani e vari consigli sugli ospedali yemeniti. Tutto ciò mi mise un po’ d’ansia, non chiamai nessuno e rimandai al giorno dopo un’eventuale presa di posizione, qualora la malattia fosse stata ancora forte e preponderante sul mio povero corpo.
La notte di quel terzo giorno di malattia fu terribile. Incubi e deliri mi impedirono di dormire. Sognavo, o deliravo, di partecipare a una sorta di quiz televisivo con i miei compagni di corso cinesi come avversari.
Prima di cominciare il corso di arabo per stranieri dell’università di Sana’a, non avevo mai avuto vere relazioni con dei cinesi. Quelli che vivono a Roma, immigrati, sono molto chiusi ed è difficile trovare occasioni di instaurare un qualche tipo di rapporto con loro che non sia commerciale. Il primo giorno di lezione io e Aldo ci trovammo in classe con otto cinesi e una spagnola. Cinesi arabisti. Nella facoltà di Studi orientali della Sapienza la maggior parte degli iscritti studiano cinese, ma fra loro e noi di arabo c’è una specie di diffidenza reciproca, inoltre il fatto che il preside della stessa facoltà sia anche il professore di quella lingua ce li rende antipatici. Trovarmi con dei cinesi che studiavano arabo risultava strano e inconsueto. Erano bravissimi, molto più bravi di me nonostante fossero più giovani di un paio d’anni. Usciti dalla scuola già perfettamente padroni dell’inglese scritto e orale, dopo due anni di università parlavano l’arabo classico in modo perfetto, facevano sempre i compiti per il professore scrivendo testi articolatissimi e lunghi, mentre io Aldo e la spagnola faticavamo a completare un paio di pagine di quadernino con le cancellature. Conoscevano la grammatica a menadito ed erano capaci di esprimersi in qualsiasi campo semantico, ma non sapevano niente di storia araba o di Islam. Non sapevano neanche chi erano gli Omayyadi o gli Abbasidi (le due principali dinastie di Califfi) e le uniche nozioni di civiltà islamica provenivano dalle letture di esercizio presenti sul libro di grammatica. Inizialmente pensai, con un certo compiacimento comunista, a un’impostazione maoista del sistema di istruzione, che vietava in ogni campo l’argomento religione. In realtà all’università di Pechino pongono l’accento sugli aspetti pratici: si insegna unicamente, ma in modo massiccio e completo, la lingua, corredata soltanto da qualche nozione di letteratura moderna e contemporanea; le speculazioni storiche culturali vengono solo dopo, nel caso che lo studente si specializzi nella materia con lo scopo di diventare docente. Per chi invece entra direttamente nel mondo del lavoro, queste informazioni sono giudicate superflue. Nella nostra università l’approccio all’arabo è completamente diverso, la scuola orientalistica europea dell’800-‘900 rimane il punto di riferimento. Lo studio mira a una conoscenza che abbracci tutti gli aspetti della civiltà della lingua studiata, ponendo come obiettivo la capacità di tradurre, analizzare e contestualizzare qualsiasi tipo di testo anche antico senza valorizzare o incentivare le facoltà comunicative, dando per scontato che siano ottenibili solo attraverso soggiorni nei paesi dove si parla questa lingua. D’altronde il testo base su cui studiamo è una grammatica scritta ai tempi in cui lo Stato fascista italiano aveva occupato militarmente la Libia. Un ottimo libro, che spiega e traduce in modo completo ed esauriente tutte le regole, ma non insegna assolutamente a parlare arabo. Lo studio della lingua araba è combinato fin dall’inizio con lo studio della storia e della civiltà arabo-islamica, che fornisce lo studente di validi e utili strumenti di interpretazione, che in teoria dovrebbero permettere di affrontare in modo analitico ogni aspetto a essa correlato. Ci si ritrova a fare l’esame di storia dell’Islam parallelamente a quello sull’alfabeto e sulle prime nozioni di grammatica.
Quel poco di arabo classico – balbettato e pieno di errori – che riuscivo a parlare era frutto dei miei viaggi in Siria e della passione di un unico professore, che a lezione rifiutava di usare l’italiano. Infatti lo seguivano solo tre studenti.
Era frustrante vedersi surclassato, in quello che avrebbe dovuto essere l’argomento principale dei miei studi, da ragazzine con gli occhi a mandorla, che si presentavano all’università con ombrellini per il sole decorati da disegni infantili e nella pausa della lezione, invece di uscire a fumare, come le persone normali, giocavano nervosamente con i loro telefonini . Come venni a sapere in seguito, ulteriore paradosso, non avevano scelto di studiare arabo per passione o per qualche altro motivo determinato, gli era stato imposto. Gli studenti avevano diritto a opzionare 5 materie, poi la decisione definitiva spettava all’università, che in base alle necessità della nazione e alle capacità intellettuali dei ragazzi assegnava i corsi. Per esempio Aida (Kwi Fan), che a scuola si era distinta nello studio dell’inglese e della letteratura cinese antica, avrebbe voluto studiare pedagogia. ma per merito delle sue qualità linguistiche le era stato imposto di dedicarsi alla lingua araba. Impegno che aveva accolto con entusiasmo e dedizione patriottica.
Erano venuti nello Yemen con delle borse di studio del governo cinese che, nell’espansione globale del suo mercato, necessitava di interpreti fidati e sottomessi, quindi incoraggiava e incentivava lo studio dell’arabo mandando studenti nei vari paesi. I miei compagni di corso provenivano tutti dalla stessa classe dell’università di Pechino, dove il loro professore aveva dato loro nomi arabi, che cominciavano tutti per N: Naser, Nagib, Nafisa, Nowfal, Nahla, Na’ila, Nisma, tranne Aida che, in qualità di ricercatrice, era incaricata di sorvegliarli. Quasi tutti, oltre a frequentare le lezioni, già lavoravano traducendo gli ordini impartiti da ingegneri o architetti cinesi a operai yemeniti. La collaborazione con la Cina in campo urbanistico esisteva già ai tempi dell’Imam quando, proprio con l’aiuto dei cinesi, fu costruita la prima vera strada asfaltata dello Yemen, che collega Sana’a a Hodeida. Dice la leggenda che poi il sovrano Imam si rifiutò di pagare l’aiuto prestato dal governo di Mao, e che addirittura agli operai e agli ingegneri fu vietato di far ritorno in Cina. Non so quanto sia vero, ma poco fuori di Sana’a, vicino al monumento per i martiri egiziani mandati da Abd al Naser per combattere contro la monarchia, sorge un cimitero cinese.
Oltre a essere studiosissimi, i miei colleghi erano anche disciplinatissimi, l’ambasciata vietava loro di uscire dalla capitale, in quattro mesi di Yemen avevano visitato solo la città vecchia di Sana’a e non erano nemmeno mai andati a vedere la bellissima casa dell’Imam, che si trova appena fuori città. Abitavano tutti nel lercio studentato dell’università, a cui le femmine dovevano obbligatoriamente far ritorno entro le sette di sera. La loro borsa di studio era di 50 dollari al mese, noi 50 dollari li spendevamo in una settimana solo con tassì, ristoranti, internet e qat. Erano impostatissimi e fedelissimi al governo, si innervosivano se il professore li provocava con qualche domanda sul Tibet e si offendevano quando gli yemeniti dispregiavano la tecnologia cinese scadente ed economica. A me, nonostante mi facessero un po’ paura per la loro serietà e sebbene fossi invidioso della loro bravura, mi stavano tutti molto simpatici. Naser e Nagib poi erano stati fin dal primo giorno di lezione amichevoli e comunicativi. Era divertente vedere cinesi e italiani comunicare nella lingua dei telegiornali arabi, giacché si rifiutavano di parlare il dialetto yemenita o qualsiasi variante di arabo che non fosse il classico. Nessuno di loro fumava e bevevano molto raramente. Soprattutto, dopo quattro mesi di Yemen, non avevano mai voluto provare il qat, schifati dalla droga e impauriti dalla dipendenza. Provarlo, oltre che un piacere, era stato per me un dovere socio-antropologico, se si aveva intenzione di cercare di comprendere la società indigena.
Il rifiuto di parlare il dialetto e l’avversione verso il qat erano strettamente collegati, denotavano un oggettivo disinteresse verso gli yemeniti. Potersi esprimere in una forma di arabo “bassa” e riuscire a capirla è necessario per poter interagire con tutte le classi sociali della popolazione. Il “fusha”, classico, viene parlato solo dalle persone acculturate e nelle occasioni formali. Limitarsi a praticare una lingua che permette di comunicare solo con una determinata classe sociale e in determinate situazioni, reputando inutile sforzarsi per apprendere anche il linguaggio utilizzato dalla maggior parte della popolazione, precludendosi la possibilità di instaurare rapporti veritieri basati su effettivi scambi sociali, mi fa inevitabilmente pensare a un certo snobismo intellettuale (razzista). Nel caso dei miei compagni di corso, però, credo che questo si riallacci al fatto che non avevano scelto di imparare l’arabo per passione o per interesse: per loro era un dovere e il dovere era imparare l’arabo classico verso il quale dovevano concentrare tutto il loro impegno. Resta il fatto che nella loro permanenza di sei mesi nello Yemen non avevano praticamente frequentato yemeniti, anzi molti glieli presentammo noi che stavamo nel paese da molto meno tempo. Rimase proverbiale fra me e Aldo la frase pronunciata in perfetto “fusha” da Naser, dopo aver conosciuto il sindaco, un nostro carissimo amico yemenita: “Fa-inna-hu insanun tayyibun”. Sebbene tradotta letteralmente significasse semplicemente “è davvero un buon uomo”, per la sua altisonanza classica a noi, abituati a parlare e a sentir parlare classico solo nelle lezioni, suonava piuttosto come “ebbene costui è una amabile persona”.
Mi confermarono che alcuni cinesi del sud mangiavano davvero i cani e qualsiasi tipo di animale vivente. Non assumevano mai una posizione critica nei confronti del loro governo, anche quando, dimenticandomi della loro legge sul controllo demografico, domandavo se avessero fratelli o sorelle. Ossessionati dallo spreco di cibo, se al ristorante avanzava un pochino di riso se lo facevano mettere in una bustina per portarlo a casa. Naser e Nagib mi invitavano spesso a cena, nella cucina privata che il preside dell’università di Sana’a aveva concesso loro, facendomi mangiare ottime pietanze cucinate con cura.. A cena bevevano acqua riscaldata nel bollitore per il tè, sostenendo che faceva bene al fisico.
Quella notte li sognai tutti e fu orribile. Nel mio incubo-delirio erano i miei avversari in un mortale quiz televisivo sulla conoscenza dell’arabo. Su un enorme schermo colorato apparivano delle domande e noi concorrenti dovevamo prenotarci per rispondere spingendo un pulsantino viola. Anche quando sapevo le risposte non riuscivo mai a pigiarlo in tempo, venendo sistematicamente umiliato dagli ululati di gioia e dalle risate di scherno del gruppo di cinesi che, tutti contro di me, si scambiavano pacche sulla spalle e abbracci di soddisfazione per aver risposto correttamente. Tribolavo e non arrivavo mai ad azzeccare la domanda, anche nei rari casi in cui premevo quel pulsante in tempo: al momento di pronunciare la risposta, la mia bocca emetteva solo lamenti strazianti mentre i miei avversari si sbellicavano dalle risate, sfottendomi nella loro lingua a toni con una voce che suonava alle mie orecchie mostruosamente cavernosa. Ogni volta che sbagliavo o che loro indovinavano la risposta, cioè sempre, mi sentivo catapultato verso il basso come in un ascensore con i cavi rotti che precipitasse verso il piano terra. Mi svegliavo di continuo per bere acqua e poi ricascavo in quell’incubo fin troppo reale. Mi sembrava di sognare a occhi aperti. giacché bastava sdraiarmi e chiudere gli occhi per rientrare in quell’atmosfera agghiacciante senza che mi fossi ancora completamente assopito. Seppi in seguito che uno dei sintomi della malaria è proprio il delirio notturno. Attribuii quelle visioni alla mia ansia di competizione frustrata dalla superiorità linguistica dei cinesi. Inoltre, probabilmente, c’entrava il fatto che avevo cercato di prendere sonno leggendo la grammatica araba.
Quando fu giorno mi misurai la febbre scoprendo di avere 39 e mezzo già di prima mattina. Decisi di recarmi all’ospedale tedesco yemenita. Dopo aver inutilmente tentato di ingoiare qualche forchettata di pasta al tonno preparata dal mio buon coinquilino, tramutatosi nel mio infermiere privato, scesi in strada a prendere un tassì. Vestito con i pantaloni della tuta, un maglioncino di lana con sopra un felpa di cotone, lo scialle omanita come sciarpa, i sandali con sotto i calzini e gli occhiali da sole, dovevo essere una buffa figura nel sole sananita dell’ora di pranzo. Arrivati all’ospedale Aldo, che mi aveva gentilmente accompagnato, si mise a fare storie col tassista per il prezzo che chiedeva, grugnendogli di lasciar perdere: Non era il caso vista la situazione. Pagai la cifra esagerata e scesi dalla macchina.

(1-CONTINUA)