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La “valle perturbante” della nuova narrativa e la necessità di immaginare il futuro, oltre i blocchi emotivi che ostruiscono la visione

di Wu Ming 1*

Ti porto a vedere l'alba

Alla vigilia di Capodanno del 2005 ricevetti una telefonata da un collega, uno scrittore italiano di nome Giuseppe Genna, nato e residente a Milano. Mi chiamò nel tardo pomeriggio e mi chiese cosa avrei fatto per festeggiare l’anno nuovo. Gli risposi che, poiché mia figlia aveva solo pochi mesi e la mia compagna aveva bisogno di un po’ di respiro, avevo deciso di restare a casa, mentre lei sarebbe uscita con alcune amiche. Per la prima volta dopo più di vent’anni avrei trascorso in casa la notte di Capodanno. Il mio piano era rileggere Il conte di Montecristo vegliando sulla bimba che dormiva.

Chiesi a Giuseppe cosa avrebbe fatto lui. Disse che sarebbe andato a una festa, benché di malavoglia. Aveva appena sentito suo padre ed era preoccupato per lui. Da alcuni anni, suo padre Vito lottava contro il cancro. Di recente i medici avevano informato la famiglia che non c’era più niente da fare. Era questione di pochi mesi.
Vito viveva solo, molti dei suoi amici erano già morti, e non aveva intenzione di uscire. Lo aveva detto in modo risoluto: sarebbe rimasto a casa, era stanco e voleva coricarsi presto.

Il pensiero di quell’uomo vecchio e morente che passava Capodanno da solo nel suo appartamento quasi mi spezzò il cuore. Mi identificai con lui: da poco ero un padre anch’io, e avrei trascorso il capodanno in casa per la prima volta nella mia vita adulta. Giuseppe e io avevamo entrambi trentacinque anni, e pensai: che ne sarà di me, trentacinque anni a partire da adesso?
Ad ogni modo, fu una piacevole nottata, il ronfare della bimba era rilassante e il libro grandioso. Il conte di Montecristo è sempre grandioso.

Ventiquattr’ore dopo mi squillò il cellulare e il nome di Giuseppe riapparve sul display. Risposi, e mi disse:
– Sono da mio padre. Io e mia sorella lo abbiamo chiamato tutto il giorno, ma non rispondeva. Ho appena sfondato la porta. E’ per terra, ha addosso il pigiama. E’ morto. Ha le mani blu, penso abbia avuto un infarto mentre andava a letto.
L’attacco di cuore aveva salvato Vito Genna dall’agonia del tumore.

Io vivevo in un’altra città, non potevo essere di alcun aiuto e non ero nemmeno uno degli amici intimi di Giuseppe. Come mai, trovando il corpo di suo padre, mi aveva incluso tra le primissime persone da avvisare?
Dapprima pensai che, nella sua mente, avesse fatto la mia stessa associazione di idee: ero un padre, come Vito; avevo passato la notte di Capodanno in casa, come Vito aveva intenzione di fare.
In seguito capii che c’era qualcosa di più, e me lo confermò egli stesso: aveva sentito il bisogno di chiamare un altro scrittore, perché stava vivendo un’esperienza allegorica soverchiante.
Certo, ogni volta che muore un genitore possono entrare in gioco dense metafore e allegorie, ma quella morte aveva connotazioni particolari.

Days of future passedVito Genna era stato un solido attivista del Partito Comunista Italiano, il più grande e peculiare dei partiti comunisti dell’Occidente, in grado di raggiungere il 33% dei voti alle elezioni politiche e mobilitare milioni e milioni di persone. Il partito non esisteva più dal 1991 ed è una storia troppo lunga da raccontare, basti dire che negli ultimi vent’anni tutta la sinistra italiana ha subito una lunga crisi e ora è praticamente scomparsa, almeno nelle sue articolazioni strettamente politiche. Col tempo l’intera sinistra politica ha perso ogni orientamento su cosa essere e che fare, fino a commettere un suicidio di massa. Dopo le ultime elezioni, per la prima volta dopo la caduta del regime fascista, in Italia non c’è più un gruppo parlamentare che faccia riferimento al socialismo. L’Internazionale Socialista, un’organizzazione mondiale con affiliati in 170 paesi, non ha più alcun rappresentante nel parlamento italiano. Nemmeno uno. E’ un sisma culturale, annunciato da innumerevoli scosse preliminari.

Al giorno d’oggi, tra le città d’Italia, una delle più a destra è Milano. Non solo è la capitale simbolica del movimento xenofobo chiamato “Lega Nord”, ma conta anche aggressivi gruppi di ultradestra.
Pochi anni fa un attivista di sinistra di nome Davide Cesare fu accoltellato a morte da neonazisti.
Meno di due settimane fa c’è stato un omicidio razzista in pieno giorno, un diciannovenne nero di nome Abdoul Guibre è stato picchiato a morte da due baristi – padre e figlio – per aver rubato un pacchetto di biscotti. Lo hanno inseguito gridando: “Negro di merda”, e lo hanno ucciso per strada, di fronte a testimoni, senza ritegno né pudore.
Il razzismo divora l’Italia come un cancro e Milano è in posizione avanzata. Un milanese che creda nella solidarietà può sentirsi frustrato e anche un po’ solo, di tanto in tanto.

Il padre di Genna aveva dedicato buona parte della vita a un partito che non esisteva più, nella speranza di una rivoluzione che non c’era stata, nel quadro di una sinistra politica che moriva in metafora mentre lui moriva alla lettera, moriva di cancro in un appartamento desolato di una città desolata conquistata dalla destra tanto tempo prima. Un infarto improvviso gli aveva risparmiato mesi di strazio, e il figlio aveva sentimenti contrastanti: aveva il cuore a pezzi, ma provava anche sollievo.
Il figlio sapeva che la morte del padre stava per la morte di un’epoca, la morte di un mondo. Il lutto per il padre era anche il lutto per l’epoca. L’elaborazione del lutto si annunciava dura.

Giuseppe Genna elaborò il lutto scrivendo un libro molto strano intitolato Medium. Ritengo quest’opera una delle più rappresentative di ciò che chiamo “New Italian Epic”. Non necessariamente una delle migliori, ma di sicuro una delle più emblematiche.
Pur essendo un autore discretamente noto, i cui libri sono pubblicati presso grandi editori e sovente tradotti in altre lingue, Genna scelse di non dare Medium a nessuna casa editrice. Il libro è disponibile come ipertesto sul sito dell’autore, e come libro rilegato su lulu.com, un editore on line che stampa copie singole a richiesta. Genna spiegò di voler un rapporto coi lettori più intimo, personale e delicato. Pensava che leggere il libro direttamente dal sito, a un solo click di distanza dalla possibilità di spedire un commento, o in alternativa avere il libro stampato apposta per me, potesse creare un’atmosfera più intima. E aveva ragione: pochi giorni dopo la messa on line, iniziò a ricevere e-mail di lettori che avevano da poco perso un genitore e volevano condividere quel dolore e quell’esperienza. Alcuni di loro fecero commenti molto perspicaci sull’aspetto storico e politico della morte di Vito.

MediumLe prima 39 pagine di Medium narrano nei minimi dettagli la notte e il giorno che Genna trascorse accanto al cadavere del padre. Dopo il ritrovamento del corpo, si ritrovò in un incubo burocratico. Il primo di gennaio, nell’intero circondario milanese, non c’era un medico necroscopico disponibile a venire e firmare un certificato di decesso. Senza quel certificato, l’impresa di pompe funebri non poteva prelevare il corpo. Genna rimase a lungo in quella stanza, parlò di morte con il becchino, ricevette amici e parenti, fantasticò selvaggiamente sul padre, il passato, il futuro, i sogni infranti del socialismo, l’eredità del ventesimo secolo e così via. Medium fu interamente concepito in quelle ore.

Dopo le esequie, il libro passa a un registro del tutto diverso. Dal secondo capitolo la narrazione inizia a deviare: un viaggio in Germania Est che Vito Genna fece davvero nel 1981 diviene il momento centrale nella scoperta di una realtà alternativa, di una storia alternativa, di una vita alternativa del padre, di una possibilità alternativa di elaborare il lutto. Tutto accade sullo sfondo della Guerra Fredda, e ha un ruolo indefinibile eppure importante lo scomparso Peter Kolosimo, negli anni Settanta autore di saggi di enorme successo. Per farla semplice, Kolosimo sosteneva che tutte le civiltà umane dall’alba dei tempi avessero origini extraterrestri, che in origine il nostro pianeta fosse stato colonizzato da alieni e che tutte le culture del mondo recassero i segni di tale colonizzazione. Era un personaggio molto popolare, quando Genna e io eravamo bambini.
Il fatto che Kolosimo fosse un comunista dichiarato e coltivasse apertamente rapporti con il Blocco Orientale è il pretesto che lega quest’autore al viaggio del 1981 in Germania Est. Dopo aver stabilito il collegamento, Giuseppe Genna veste i panni di Telemaco e si reca a sua volta in Germania, in cerca di tracce di suo padre. Là incontra alcuni loschi personaggi, ciascuno dei quali offre un’interpretazione del Novecento, della Guerra fredda e delle illusioni del comunismo. Ognuno di loro rivela qualcosa sul padre di cui Genna era ignaro. Emerge un legame forte tra l’esistenza di Vito Genna e il modo in cui il futuro veniva immaginato in quel passato, nell’epoca che Giuseppe va esplorando all’indietro.

Alla fine, si stabilisce un legame ancor più forte tra la morte di Vito e la nostra difficoltà a immaginare il futuro. La nostra visione del futuro è ostruita da troppi blocchi emotivi, e abbiamo bisogno di focalizzare su ciò che sta oltre, di sforzare il nostro sguardo per superare quegli ostacoli.
Medium termina con un’appendice di testi che Genna chiama “rapporti di visualizzazione”. Tali documenti furono presuntamente scritti negli anni Settanta da un comitato di veggenti comunisti, tra i cui membri vi era Vito. Il gruppo segreto era nato su ordine del governo comunista e il suo compito era predire il futuro, tuttavia lo sguardo extrasensoriale coglie tanto un remotissimo futuro quanto un remotissimo passato. L’apparire di questi rapporti sorprende il lettore, che è a tratti turbato, divertito, depresso e galvanizzato. Ecco un esempio:

Lontano è vicino e vicino è lontano. Senza luce, vedo vicinissimo una guglia, costruita da una specie che non è la nostra. Visiono altre galassie, macchia cosmica, ali nere. Una processione di esseri deformi, dall’epidermide viscosa, tripodi, procede nel buio verso la torre immensa che culmina nella guglia che ho visionato. […] Il momento risale a due milioni di anni addietro alla formazione della vita sulla Terra. La processione discontinua di questi esseri: nel buio visualizzo un deserto petroso, nessun astro a illuminare la notte. Pianeta che loro chiamano “Nglah”, cioè “Il Sempre”. Canto rituale.[…] : “Ala siderale, alimenti di foschia. Vivente minerale, rosa di pietra. Convoglio sepolto, sorgente di pietra. Arca misteriosa, luce di pietra. Squadra equinoziale, vapore di pietra. Geometria finale, pensiero di pietra”. La processione giungerà alla torre, che sembra così vicina e invece dista centinaia di chilometri, nell’arco di sei rotazioni del pianeta….

Immaginando una realtà alternativa in cui suo padre aveva una doppia vita, e interrogandosi su come avrebbe elaborato il lutto in quella realtà, Genna rende omaggio al padre, alle sue convinzioni, ai sogni, alle illusioni. Descrivendo il padre come un veggente, Genna lo omaggia in questa realtà, lo omaggia per aver almeno immaginato un futuro, impresa che le ultime generazioni trovano molto difficile. In questo modo, Genna elabora il lutto e rende l’elaborazione importante per tutti noi.
L’allegoria profonda della morte di Vito è ormai giunta in superficie. Il lutto è divenuto una ricerca, una spedizione cavalleresca nello spazio e nel tempo, un viaggio iniziatico. Lo sguardo è stato forzato, e il punto di vista reso inatteso. Una questione personale si è trasformata in meditazione sui destini della nostra specie, del nostro pianeta, del nostro cosmo. Come sopra così sotto, e ovviamente viceversa.

Questo è quello che chiamo “New Italian Epic”. I suoi tratti principali sono:
– Impegno etico nei confronti dello scrivere e del narrare, il che significa: profonda fiducia nel potere curativo della lingua e delle storie;
– Un senso di necessità politica – e potete scegliere tra il senso stretto e il senso lato dell’aggettivo;
– La scelta di storie che abbiano un complesso valore allegorico. La scelta iniziale può anche non essere conscia: l’autore può sentirsi sospinto verso quella storia e soltanto in seguito capire cosa stava cercando di dire;
– Un’esplicita preoccupazione per la perdita del futuro, con propensione a usare fantastoria e realtà alternative per sforzare il nostro sguardo e spingerci a immaginare il futuro;
– Sovversione sottile dei registri e della lingua. “Sottile” perché quel che conta non è la sperimentazione linguistica fine a se stessa: quel che conta è raccontare la tua storia in quello che senti essere il miglior modo possibile;
– Sintesi di fiction e non-fiction diverse da quelle a cui siamo abituati (es. il “gonzo journalism” alla Hunter S. Thompson), un modo di procedere che oserei definire “distintamente italiano”, e che genera “oggetti narrativi non-identificati”.
– Ultimo ma certamente non ultimo, un uso “comunitario” di Internet al fine di – qui uso un’espressione di Genna – “condividere un abbraccio con il lettore”.

Diversi libri usciti in Italia negli ultimi anni hanno in comune tutte o molte di queste caratteristiche. Ciascuno di essi è peculiare, e a volte un libro, se ci fermiamo alle prime apparenze, non ha alcuna somiglianza con quelli accanto: stili diversi, storie diverse, ambientazioni diverse, generi in apparenza diversi. Eppure, se scendiamo abbastanza in profondità, vedremo che tutte queste opere sono in reciproca risonanza.

La più famosa e riuscita è senz’altro Gomorra di Roberto Saviano, che ha venduto all’incirca un milione e mezzo di copie ed è entrato a tamburo battente nella cultura di massa italiana.
In Gomorra la sintesi di fiction e non-fiction è talmente sottile da toccare vette di perturbante. Il libro si presenta come un energico resoconto sul crimine organizzato di Napoli e dintorni, e su come questo operi nell’economia globalizzata. Di certo lo stato di cose che descrive è terribilmente reale, eppure questo non è normale giornalismo: vi sono anche capitoli autobiografici e introspettivi, in molti passaggi la prosa si fa visionaria, l’io narrante ha frequenti allucinazioni e “dirotta” i punti di vista di altre persone, giocando intenzionalmente sulla confusione tra l’autore, il narratore e un io narrante che non appartiene a nessuno dei due. Alessandro Vicenzi ha ricapitolato la questione nel modo più semplice ed efficace:

Saviano usa indifferentemente i dati dei rapporti della polizia e le sentenze e le sue esperienze personali, e racconta la camorra scegliendo una forma che è quella della narrazione in prima persona, anche se chi dice “io” nel romanzo non sempre è il Roberto Saviano anagrafico, reale. Si scivola tra resa “letteraria” dei fatti e testimonianza, cronaca […] Se Saviano descrive in prima persona anche cose che non ha visto è perché quella è la forma più potente con cui raccontarle, la più adatta a far passare nel lettore una sensazione, la più “immersiva”. […] Le barriere tra narrativa e cronaca non vengono superate: vengono semplicemente ignorate. Non so bene dove venga messo oggi “Gomorra”, nelle librerie. Credo che il successo gli permetta di risolvere ogni imbarazzo e di stare semplicemente in quelle pile di best-sellers all’entrata, che contengono di tutto, senza particolari distinzioni di genere.

Come dicevo poc’anzi, queste opere sono diverse dalle “non-fiction novels” o dai reportages iper-soggettivi nella tradizione del cosiddetto “New Journalism” o del “Gonzo Journalism”. Mentre quel modo di scrivere ci è ormai familiare, queste opere sono più inquietanti. Credo che l’aggettivo più adatto sia “perturbante”. Quando Gomorra è uscito nei paesi di lingua inglese (purtroppo in una traduzione mediocre), i recensori si sono chiesti cosa fosse. Ecco uno stralcio dalla recensione del New York Times, scritta da Rachel Donadio:

Ben più problematica è la difficoltà di definire questo libro. In Italia, Gomorra è stato descritto come “docufiction”, il che fa pensare che Saviano si sia preso delle libertà nei suoi resoconti in prima persona. [L’editore americano] lo definisce un’opera di “giornalismo investigativo”, espressione che suggerisce attente verifiche legali. Alcuni aneddoti sono sospettamente perfetti: il sarto che lascia il lavoro dopo aver visto in TV Angelina Jolie alla notte degli Oscar con addosso un abito bianco fatto da lui in una fabbrica illegale; l’uomo che ama a tal punto il suo AK-47 da andare in pellegrinaggio in Russia per incontrarne l’inventore, Mikhail Kalashnikov… Forse l’autore ha cambiato dei nomi? Se lo ha fatto, i lettori non ne sono informati. Non si tratta di cose da poco, e sarebbe stato il caso di chiarirle. Eppure la verità emotiva del reportage di Saviano è inattaccabile: questo libro coraggioso non mi è più uscito di mente.

gomorrah.jpgPresumo che Rachel Donadio non abbia mai avuto simili perplessità leggendo un libro di Hunter S. Thompson. Nessuno si è mai preoccupato di cosa fosse vero e cosa fittizio nella scrittura di Thompson. Allora, in questo caso, dove sta la differenza?
La differenza è che Gomorra è ben lungi dall’essere un’opera ironica. Gomorra è m-o-r-t-a-l-m-e-n-t-e serio.

Forse lo sapete, “perturbante” è l’aggettivo con cui si traduce un termine usato da Sigmund Freud: “Unheimliche”. Unheimliche indica una cosa al tempo stesso respingentemente estranea e attraentemente familiare.
Come accade in Medium di Genna, anche in Gomorra un rapporto problematico tra il narratore e suo padre diviene emblema di una dimensione più grande, fino a gettare luce sull’ambigua “doppia coscienza” di cui molti Italiani del sud sono dolorosamente consapevoli. Il narratore è figlio di una cultura che non può realmente abbandonare: anche se disprezza la mafia e la combatte, sa che quella mafia è parte di quella cultura, è coerente con quella cultura, che è anche la sua. Di fatto, il narratore condivide frame concettuali profondi con le persone che denuncia, e lo ammette presentandoci ricordi d’infanzia e conversazioni col padre. Agli occhi del narratore, la camorra è perturbante, al tempo stesso respingentemente estranea e attraentemente familiare. I lettori attraversano una “valle del perturbante”, e Saviano ne attraversa un’altra, più vasta, una valle sociale e antropologica.

“Valle del perturbante” è un’espressione coniata nel 1970 dall’ingegnere giapponese Mori Masahiro. L’ipotesi di Mori è che quando un automa avrà un aspetto e un comportamento quasi uguali a quelli umani, la reazione tra gli umani sarà di orrore e ripulsa. Secondo Mori, sarà il tipico caso in cui la notte è più buia poco prima dell’alba, perché non appena l’automa avrà un aspetto e un comportamento del tutto uguali a quelli umani, la reazione tra gli umani sarà positiva. Questa fase di repulsione si chiama “valle del perturbante” perché è una flessione nell’andamento di un grafico.

Ora, lasciamo perdere gli automi. Io penso che questa sia una metafora utile a descrivere il modo in cui un lettore attento percepisce l’oggetto narrativo non-identificato. C’è una fase in cui cominci a chiederti: com’è possibile che Saviano abbia assistito a una scena come questa? Camorristi che usano tossici come cavie per testare la roba appena arrivata, tossici che collassano dopo essersi fatti, gente lasciata a morire… Dove diavolo era Saviano per aver visto questa roba? Chi è l’io narrante? Se questo è giornalismo sotto copertura, qual è la “copertura” di Saviano? Dove si è nascosto? E’ lui il narratore? Sto leggendo un reportage giornalistico o sto leggendo un romanzo travestito da reportage giornalistico?
Eccovi giunti nella “valle del perturbante” dell’oggetto narrativo non-indentificato. Non è detto che i lettori meno attenti facciano mai questa esperienza: di solito accettano tutto come vero.
Comunque sia, è solo una temporanea flessione nel grafico, perché procedendo nella lettura si comprende cosa Saviano sta cercando di fare, e non solo lo si accetta, ma ci si commuove, perché questa cosa funziona, e i dubbi e la ripulsa lasciano il posto all’ammirazione.
La mia ipotesi è che molti di quanti hanno criticato Gomorra per la sua “ambiguità” e accusato Saviano di aver “confuso i piani”, non abbiano mai superato la flessione, e abbiano sospeso la lettura nel mezzo della valle del perturbante, senza mai uscirne.
Ogni oggetto narrativo non-identificato ha la propria valle del perturbante. Ad esempio, in Medium la troviamo al principio del secondo capitolo, subito dopo il funerale.

Una delle cose che più colpiscono in Gomorra è l’ampiezza, la gittata del libro: il viaggio inizia al porto di Napoli e nelle trascurate periferie di quella città, ma poi Saviano ci porta in Russia, Bielorussia, Scozia, Stati Uniti, Spagna, in Medio Oriente, a Hollywood, in Colombia… Lo sguardo di Saviano fa incursioni in tutto il mondo, perché la criminalità organizzata italiana fa affari in tutto il mondo.
Niente per cui provare amor di patria.

Medium e Gomorra sono due esempi di New Italian Epic. Il mio utilizzo del termine “epic” cerca di mettere in gioco tutti i suoi significati e le connotazioni. L’ho scelto perché lo hanno usato molti lettori e recensori per descrivere questa letteratura, l’aggettivo spuntava qua e là su Internet, su blog e forum. Che intendeva dire quella gente? Di certo non si stava riferendo al “teatro epico” di Brecht, non stava usando il termine in modi criptici e sofisticati. Io sono tornato alle definizioni di base, al fondo di roccia dura su cui tutti appoggiamo i piedi. Ho afferrato il dizionario. Consultate l’Oxford English Dictionary e scoprirete che “epic” si usa per:

1. un lungo poema sulle gesta di grandi uomini e donne, o sulla storia passata di una nazione;
2. un lungo film, storia etc riguardante imprese coraggiose e avventure eccitanti;
3. un compito, attività etc. che richiede molto tempo, è pieno di difficoltà e merita attenzione e ammirazione una volta portato a termine;
4. qualcosa degno di nota e ammirazione per via delle dimensioni e della natura delle difficoltà da sormontare;
5. qualcosa di molto grande, che ha luogo su grande scala;

Diamo un’occhiata più da vicino.
Grandi uomini e donne“. Per essere grandi, non è necessario essere famosi. Vi sono grandi esseri umani la cui grandezza è riconosciuta solo dai loro amici. Non c’è bisogno di Napoleone, Cromwell o Florence Nightingale per scrivere un romanzo epico. Se ce li infili, è perché ti senti di farlo, ma non c’è alcun obbligo.
La storia passata di una nazione“. Il che non comporta per forza leccate di culo e propaganda patriottica, dato che le nazioni, solitamente, hanno storie di corruzione morale, genocidio, sfruttamento, etc. E non è nemmeno necessario scrivere un romanzo storico per trattare della storia passata. Medium, ad esempio, non è un romanzo storico.
Un compito pieno di difficoltà“. Tentare di sforzare lo sguardo e riappropriarsi di un senso del futuro è una bella impresa, e i libri di cui sto parlando sono tutti molto ambiziosi per quel che riguarda la gittata…
…il che ci porta alle ultime due definizioni, dove l’enfasi è posta sulle dimensioni. Qualcosa “che ha luogo su grande scala“. Di sicuro queste narrazioni non sono del tipo minimalista: ogni questione individuale diviene simbolica di questioni più grandi, come lo stato del pianeta etc.

Non era che l’inizio della mia riflessione sulla tonalità “epica” nella letteratura italiana recente. In realtà la riflessione non è soltanto mia, perché molte persone vi stanno contribuendo. Nella versione estesa del memorandum le cose si sono fatte molto più complesse, proprio perché ho potuto far tesoro di quei contributi. Descrivo l’epica stessa come un particolare lavoro sulle connotazioni, ma approfondire ora questo aspetto mi porterebbe troppo lontano.

Ora vorrei fare un passo indietro, perché ho menzionato lo stato del pianeta. Parliamone brevemente, perché è il punto cruciale.

Noi tutti veniamo dal mare. Siamo usciti dal mare tanto tempo fa e ci siamo evoluti in terraferma fino a diventare quel che siamo: esseri umani. Veniamo dal mare, ma il mare sta morendo. Il mare soffre di “ipossia”, carenza di ossigeno dissolto. L’acqua di mare diventa “anossica”, priva di ossigeno, e i pesci muoiono, tutta la vita acquatica muore. Le aree in cui questo avviene sono dette “zone morte”. L’estate scorsa, chi conduce queste ricerche ne ha individuate 146 e alcune sono enormi; ad esempio, la “zona morta” nel Golfo del Messico si estende in larghezza per oltre 500 chilometri, su una superficie di circa 20.000 chilometri quadrati. E’ la superficie del Galles. Provate a immaginare un’area estesa quanto il Galles, del tutto priva di ossigeno e di forme di vita. E quella non è nemmeno la “zona morta” più vasta del mondo: tutto il fondo del Mar Nero è diventato “zona morta”, con bassissime concentrazioni di ossigeno e niente pesci, niente plancton, niente alghe, niente di vivo, niente, e parliamo di un’area di 440.000 chilometri quadrati.
Qual è la causa? E’ una reazione a catena innescata dai fertilizzanti a base di azoto che usiamo in agricoltura. Quelle sostanze finiscono nei fiumi, i fiumi le portano al mare. E pian piano il mare muore. Le “zone morte” sono una fra le diverse cause dell’estinzione dei pesci d’acqua salata. Le altre sono una pesca eccessiva e sregolata, l’inquinamento e le conseguenze del cambiamento climatico. Alcuni scienziati hanno previsto l’estinzione totale – estinzione totale – dei pesci d’acqua salata entro il 2050, se nessuno interviene a rallentare o invertire le tendenze in corso. Poco più di quarant’anni a partire da adesso, niente più pesci. Acque vuote di vita e piene di morte. E se muore il mare, la terraferma lo seguirà di lì a poco. Se il mare cessa di essere un ecosistema, nessun altro posto lo sarà più.

Qualcosa di nuovo sotto il sole.

Ogni atto artistico e letterario, ogni opera d’arte, ogni romanzo reca i segni di ciò che accade intorno, in un modo o nell’altro. I tempi in cui viviamo sono condizionati dalla morte dei fondatori, dei “capostipiti”, dei genitori che se ne sono andati lasciandoci con problemi enormi. Noi siamo gli eredi delle loro allucinazioni, ormai ci rendiamo conto che la crescita, lo sviluppo, il consumismo, il Prodotto Interno Lordo, tutto questo ci fa correre su un binario morto, e ci chiediamo se lungo la corsa vedremo uno scambio, e chi scenderà ad azionare la leva.
Stiamo cercando di capire che fare, ma i nostri pensieri sono ancora prigionieri dei vecchi frame concettuali, il che significa che anche le nostre parole sono prigioniere. Pensiamo ai movimenti che chiedono un calo di produzione e consumi. Chiamano questo processo “decrescita”, “décroissance“, “degrowth“.
“Decrescita” non è nemmeno un antonimo, è una mera negazione del concetto opposto, quindi dipende dal concetto opposto, e infatti ogni volta che diciamo “decrescita” diciamo anche “crescita”, e “crescita” è sentita come una parola buona, d’istinto la associamo a cose positive, a processi che sono necessari e benigni, come la crescita dei nostri figli, o la crescita di piante che possiamo mangiare. “Decrescita” non è una parola efficace, non funziona.
I nostri pensieri e vocaboli sono ancora prigionieri. Per anni abbiamo espresso i concetti in cui credevamo semplicemente aggiungendo prefissi come “de-” o “post-” (es. “postmoderno”) ai concetti in cui non credevamo più. Sapevamo soltanto di essere post-qualcosa.
[In Italia questo ha toccato punte di ridicolo, dato che tutti sono “post-fascisti” o “post-comunisti” o “post-democristiani” etc.]

Astra1.jpgLa letteratura postmodernista si è a lungo concentrata sui “postumi” seguiti alla sbornia del moderno. Gli autori postmoderni hanno sviluppato un tipo di ironia che all’inizio aveva un valore critico, e io sono contento che quei libri siano stati scritti, amo alcune di quelle opere, penso che dobbiamo tenere il buono e portarcelo appresso lungo la via, scartando quello che non ci serve più; oppure, se preferite un’altra metafora, dobbiamo ricostruire su quelle fondamenta, ma per ri-costruirci sopra dobbiamo prima demolire la casa squinternata che c’è adesso.
Il problema del postmodernismo è che ha generato un esercito di seguaci e imitatori, e presto si è ubriacato di se stesso, si è intossicato della propria ironia, del proprio sarcasmo e disincanto. L’ironia si è fatta sempre più fredda e anaffettiva, il che era perfetto per il nuovo spirito dei tempi: il disincanto ha invaso e impregnato l’intero paesaggio artistico e mediatico, finché a un certo punto, probabilmente durante gli anni Ottanta, è diventato il sentimento dominante nella cultura occidentale. Nulla andava più preso sul serio. Se prendevi qualcosa sul serio, facevi la figura del seccatore.

Vorrei citare lo scomparso David Foster Wallace. Questo è uno stralcio da una famosa, classica intervista rilasciata a Larry McCaffery per la “Review of Contemporary Fiction”, estate 1993. E’ l’ultimissima risposta, ed è molto interessante:

Questi ultimi anni dell’era postmoderna mi sono sembrati un po’ come quando sei alle superiori e i tuoi genitori partono e tu organizzi una festa. Chiami tutti i tuoi amici e metti su questo selvaggio, disgustoso, favoloso party, e per un po’ va benissimo, è sfrenato e liberatorio, l’autorità parentale se ne è andata, è spodestata, il gatto è via e i topi gozzovigliano nel dionisiaco. Ma poi il tempo passa e il party si fa sempre più chiassoso, e le droghe finiscono, e nessuno ha soldi per comprarne altre, e le cose cominciano a rompersi o rovesciarsi, e ci sono bruciature di sigaretta sul sofà, e tu sei il padrone di casa, è anche casa tua, così, pian piano, cominci a desiderare che i tuoi genitori tornino e ristabiliscano un po’ di ordine, cazzo… Non è una similitudine perfetta, ma è come mi sento, è come sento la mia generazione di scrittori e intellettuali o qualunque cosa siano, sento che sono le tre del mattino e il sofà è bruciacchiato e qualcuno ha vomitato nel portaombrelli e noi vorremmo che la baldoria finisse. L’opera di parricidio compiuta dai fondatori del postmoderno è stata importante, ma il parricidio genera orfani, e nessuna baldoria può compensare il fatto che gli scrittori della mia età sono stati orfani letterari negli anni della loro formazione. Stiamo sperando che i genitori tornino, e chiaramente questa voglia ci mette a disagio, voglio dire: c’è qualcosa che non va in noi? Cosa siamo, delle mezze seghe? Non sarà che abbiamo bisogno di autorità e paletti? E poi arriva il disagio più acuto, quando lentamente ci rendiamo conto che in realtà i genitori non torneranno più – e che noi dovremo essere i genitori.

dfw1.jpgDa quell’intervista sono passati quindici lunghi anni, Wallace non è più tra noi e finalmente capiamo quanto avesse ragione. Noi dobbiamo essere i genitori, i capostipiti, i nuovi fondatori. Abbiamo bisogno di riappropriarci di un senso del futuro, perché sotto il sole sta accadendo qualcosa di radicalmente nuovo. E’ un pericolo senza precedenti, è un GROSSO problema e il disincanto non è la soluzione migliore.

A mio avviso il dispotismo dell’ironia ha prodotto una sindrome sociale affine all’asimbolia del dolore.
L’asimbolia del dolore è una sindrome neurologica, causata da un danno alla corteccia insulare del cervello. Non rispondi al dolore in modo emotivo, o dài la risposta emotiva sbagliata: ti metti a ridere.
Noi ridiamo perché la risata è utile dal punto di vista dell’evoluzione. Ridere ha a che fare con il sollievo dopo un falso allarme.
Quando qualcuno ti racconta una barzelletta, la tensione cresce e sei sempre più curioso, vuoi sapere come va a finire. Le migliori barzellette ti tengono all’erta per quello che sembra essere un tempo lunghissimo, e il tuo cervello si fa sospettoso, e alla fine ti trovi sulla difensiva, ma poi la battuta finale dà alla storia una torsione inaspettata, la tensione si scarica e ridi.
E’ anche il motivo per cui il solletico fa ridere: all’improvviso qualcuno fa per toccarti, istantaneamente ti metti sulla difensiva, infatti irrigidisci i muscoli, ma poi quella persona non ti fa davvero male, si limita a toccarti e stimolarti in un punto insolito, e allora il tuo cervello dice: “Era un falso allarme!”, e ti metti a ridere.
Una risata segnala che è tutto a posto, significa: “Non c’è da preoccuparsi”. E’ probabile che il ridere si sia evoluto da un verso ritmato che i nostri antenati emettevano dopo un falso allarme. Il resto del branco lo sentiva e tutti si sentivano sollevati: non c’era bisogno di fuggire o combattere. Ovviamente, quando il pericolo era reale e qualcuno o qualcosa procurava autentico dolore, il cervello dava la corretta risposta emotiva, non c’era sollievo, nessuno rideva, tutti fuggivano o combattevano.
Ma quando soffri di asimbolia del dolore, quella parte del cervello non funziona più, il circuito non si chiude, niente ti dice che stavolta è vero, che non si tratta di un falso allarme, e finisce che dài la risposta emotiva sbagliata. Ridi. Ti sfondo la faccia a calci, e tu ridi.
Negli anni Ottanta e Novanta una gran parte della cultura occidentale ha iniziato a confondere dolore e solletico. Pian piano abbiamo perso la facoltà di distinguere un dolore vero da uno falso: sentivamo o eravamo testimoni di grandi dolori, e reagivamo ridacchiando. L’ironia era ovunque. Nel frattempo era caduto il Muro di Berlino, l’Occidente aveva vinto e c’era persino chi diceva che era finita la storia, e durante gli anni Novanta tutti ridacchiarono ancora di più. Certo, non nell’ex-Jugoslavia o in Ruanda, ma nel cuore dell’impero molte persone, soprattutto gli artisti, erano molto cool e ironici e sghignazzanti e intenti a farsi l’occhiolino a vicenda.
I nostri compagni umani sono neuralmente programmati per associare le risate ai falsi allarmi, quindi conclusero che non c’era pericolo…

… poi scoppiò la bolla della cosiddetta “New Economy”, e subito dopo ci fu l’11 Settembre, poi la cosiddetta “Guerra al Terrore” e l’invasione dell’Iraq, poi arrivarono i bombaroli kamikaze a Madrid e nel Tube di Londra, e adesso l’economia globale sta franando, ma in molti continuano a non capire quanto la situazione sia pericolosa, e intanto il ghiaccio dei poli si scioglie, il petrolio sta arrivando al picco di estrazione prima del previsto, e si stanno esaurendo le scorte di metalli, nel giro di pochi decenni niente più rame, niente più ferro, niente più cadmio etc. etc.

nuvolosita_36_italia.jpgE’ chiaro che, essendo io un romanziere e amando la letteratura (le due cose non vanno sempre insieme), mi interessa vedere come la mia professione possa evolversi di fronte a questi pericoli. Ciò che mi preme è trovare nella letteratura di oggi un diverso approccio etico allo scrivere, oltre il disincanto di ieri. Una piena assunzione di responsabilità di fronte a quel che accade su scala planetaria. Ed essendo un romanziere italiano, sono ancor più interessato a vedere cosa accade nella letteratura di quel paese. Si comincia sempre da dove ci si trova, è l’Italia è sempre un posto interessante da cui cominciare, un notevole laboratorio (tanto per usare un eufemismo). Di recente ho trovato molti segnali interessanti nella letteratura italiana, ne ho scritto e ne ho discusso, è in corso un dibattito ed è per questo che sono qui.

In Italia si usa di frequente un’espressione: “l’anomalia italiana”. Vi sono serie ragioni storiche per cui l’Italia è così diversa dal resto d’Europa e la logica della vita sociale appare impenetrabile o addirittura inesistente. Farò conto che in questa sala tutti siano al corrente di tali ragioni, o almeno di alcune. C’è di mezzo la Guerra Fredda etc. Diciamo solo che dopo la caduta del Muro per l’Italia iniziò una fase tumultuosa che va avanti ancora oggi. Nel 1993 crollò il vecchio establishment politico, i più grandi partiti si dissolsero e vi fu un improvviso liberarsi di energie incontrollabili. Nemmeno nei più scatenati sogni ad occhi aperti la sinistra rivoluzionaria degli anni ’70 aveva previsto alcunché del genere, anche se l’esito è parso più simile a una controrivoluzione: da quei giorni, lo spettro politico della società italiana si è spostato sempre più a destra.

Cos’è successo nel frattempo?
Di tutto.

artegioia.jpgNel mondo della letteratura il tumulto ha provocato il ritorno alla narrativa e alla forma-romanzo come mezzi favoriti di espressione, creazione e comunicazione. Negli anni Sessanta la “Neoavanguardia” aveva dichiarato guerra a quella che percepiva come narrativa “normale” e “tradizionale”. La cosa ebbe conseguenze di rilievo nel decennio a seguire: negli anni Settanta dagli scrittori seri non ci si aspettava che scrivessero romanzi “convenzionali” o che si occupassero di narrativa. Nei tardi anni Settanta un capolavoro come L’arte della gioia di Goliarda Sapienza fu rifiutato da molti dei più grandi editori del paese, perché quel tipo di romanzo – storico, epico, moltitudinario e toccante, la cui autrice non prendeva nemmeno le distanze da quel che scriveva, né faceva strizzate d’occhio – era ritenuto datato e conciliante. Questo accadeva pochi anni prima dello strepitoso successo de Il nome della rosa.

Negli anni Ottanta una nuova generazione di autori italiani riprese a scrivere romanzi, ma le loro influenze non erano nella narrativa di genere o nella cultura pop. Dopo il 1993, però, vi fu un’eruzione di narrativa che si rifaceva a generi popolari, soprattutto ai crime novels della tradizione “hard-boiled”, e in alcuni casi alla fantascienza.
Quei nuovi autori non erano figli delle avanguardie, non gliene poteva fregare di meno se una cosa era ritenuta o meno “appropriata”. Carlo Lucarelli, Valerio Evangelisti, Giancarlo De Cataldo, noi Luther Blissett e molti altri, noi eravamo figli problematici della popular culture. Eravamo cresciuti con una dieta stabile di narrativa di genere, musica rock, cinema, giochi di ruolo, i primi videogames… E usavamo già Internet, anzi, quello che c’era prima, le BBS, comunicazione elettronica pre-web. Nel 1994 alcuni di noi tenevano già siti web. Non ci interessava il comportamento “giusto” da intellettuali, e nemmeno le tirate snob contro l’industria culturale. Volevamo dare il nostro contributo alla popular culture, portarci dentro conflitti e contraddizioni, non stigmatizzarla guardandola da fuori, o addirittura rifiutandosi di guardarla. Quando uscì il nostro primo romanzo, Q, dichiarammo in modo esplicito che volevamo combattere la nostra battaglia dentro il pop e portare le nostre pratiche all’interno dell’industria culturale.

Dieci-quindici anni dopo, la situazione si è evoluta, anche in modo radicale. Ci sono state scosse e torsioni, molte influenze si sono incontrate e hanno generato nuove pratiche e il processo va avanti.
Molte cose stanno accadendo nella letteratura italiana, il New Italian Epic è soltanto una di queste, ma è quella che mi interessa di più, e quella che mi sento spinto a esplorare.
Grazie a tutti.

* Discorso d’apertura alla conferenza “The Italian Perspective on Metahistorical Fiction: The New Italian Epic”, Institute of Germanic and Romance Studies, University of London, UK, 2 ottobre 2008.

IL TESTO ORIGINALE INGLESE E’ QUI

L’AUDIO ORIGINALE IN INGLESE E’ QUI

Prossimamente appariranno in rete interventi di altri relatori alla conferenza.
Ringrazio in particolare: Claudia Boscolo (per lo sbattimento), Giuseppe Genna (che mi ha dato il permesso), Marco Amici e Monica Jansen (per le riflessioni), Manu (perché c’è), Valter Binaghi (che pone il problema), Vanni Santoni & Gregorio Magini di Scrittura Industriale Collettiva (che essudano realismo liquido).


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