di Azzurra D’Agostino

CarracciMangiatoreFagioli.jpgQuando si svegliò quella mattina il cielo riposava zitto come un sasso sul fondo del fiume. Neanche un frullo d’ala tra le piante, nessun volo di falco o di rondine, nessun trillo di passero rompeva quel silenzio perfetto. L’aria restava muta e svaligiata nell’insondabile esattezza del suo azzurro.
Fausto fece alcuni passi nell’aia a testa insù, per controllare meglio. A vista d’orizzonte, nulla. Tra gli alberi del bosco intorno alla fattoria, nulla. Persino il gallo quella mattina aveva saltato il suo canto. Tutto ciò gli parve molto strano. Salì sul trattore, già carico dal giorno prima di covoni di fieno, e si diresse verso la tenuta dei Brumini. Per strada, ogni tanto dava un occhio in alto per controllare: anche lungo la via nessun segno di vita a popolare le nuvole. Scosse la testa impensierito. Il trattore sobbalzava e il sedile a molle lo faceva saltellare come un pupazzo nella scatola magica.

Il lungo viale in selciato che portava alla tenuta, col grande cancello d’ingresso sempre aperto, rigava i campi gialli del luglio inoltrato. Quando arrivò nel cortile principale, tra il casolare e la stalla, a motore spento tese gli orecchi: tutt’intorno si sgolavano i grilli e le cicale, ma nemmeno un singolo fischio di rondone.
– Oh! Bene bene! È quanto ti avevo chiesto?
Il Brumini spuntò da dentro la stalla con gli stivali di gomma incrostati di fango e guano, la camicia fuori che tirava sulla pancia formando una serie di “8” ad ogni bottone.
– Sì, quel che c’è rimasto dopo il passaggio del Brusco!
– Ma quel Brusco diobonino quante ne ha di bestie? Ogni volta ci si litiga la biada!
Fausto alzò le spalle e aprì le mani, come a dire “che vuoi farci”. Non gli piaceva parlare degli affari degli altri. Meglio sempre tacere che alimentare malanimi da niente (che poi andava a finire come quella volta, che i fratelli Cerri s’erano accoltellati per delle voci non vere). E poi era uno che non amava sprecarsi in chiacchiere.
– Vieni dentro che ti do un bicchiere
– No, via, Brumini, che dopo che ho finito qui ho ancora tutta la legna da mettere dentro…
– Dai dai che un bicchiere non ha mai ammazzato nessuno
E il Brumini si diresse nella cucina direttamente affacciata sull’aia, tagliando il discorso senza aspettare replica; Fausto lo seguì lasciando le chiavi sul trattore, con lo sportello della cabina di guida ancora aperto.
Dentro era semibuio, l’aria umida e fresca come una cantina; da una trave nell’ombra del sottoscala pendevano due prosciutti che spandevano profumo di sale e grasso.
Il Brumini prese dalla madia una forma di pecorino avvolta in un canovaccio e una pagnotta di pane; sul tavolo di legno rigato stava già un fiasco impagliato; Fausto prese dall’acquaio due bicchieri, di quelli piccoli da osteria, ed entrambi si misero a sedere. Stella, la cagna da caccia (bravissima al cinghiale), ticchettò con le unghie sul cotto impolverato e si andò ad accucciare accanto al tavolo, fissandoli.
– Quando si va a cinghiale? , disse Fausto indicando la cagna col mento
– Eh, boia, da quando son caduto l’anca non mi regge più bene. A far tutti quei chilometri non mi sento mica tanto.
Il Brumini versò il vino poi tagliò con un coltello a serramanico che teneva in tasca due grossi pezzi di pane e due fette di formaggio.
– Senti mo’ questo qui, che lavoro!
Fausto mise il formaggio sulla spessa fetta di pane bianco senza sale e disse, mentre masticava:
– L’ha fatto la Dora?
– La Dora, sì
– A fare il formaggio è brava, proprio. Ma anche le bestie son buone, si vede. È che te le tratti bene, lo so. Son tornato da poco nella bassa, vedessi…
– Mi immagino
– Le bestie laggiù il sole non lo vedono neanche dipinto. Ce ne saranno delle batterie da cinquanta, sessanta a capannone. Fan tutto lì dentro: mangiare, bere, mungere e via.
– Eh
– E poi grosse! Gli fan le punture
– Sì, lo sapevo. Ma di quella roba lì non mi fido mica…
– Però diventano il doppio. E carne morbida, pure. Ci fai tre volte il ricavo di adesso. Dovresti pensarci. Ci sto provando anche io e vedessi che roba
– Io le mie bestie ci mando il Glauco a pascolarle e va bene così
E il Brumini bevve di un sorso il suo bicchiere e si alzò strascicando la sedia. Quello segnava che il benvenuto era finito, e anche Fausto si alzò, mentre la cagna ora odorava per terra in cerca di qualche briciola. Fausto gli lanciò la sua crosta del formaggio e uscirono.

Il sole adesso picchiava più forte e nell’aria aperta i due uomini strizzarono gli occhi abbacinati. Fausto salì nella cabina del trattore a prendere il cappello di paglia, mentre il Brumini (che il suo non se lo era tolto neanche in casa) si dirigeva verso il deposito del fieno sul retro.
La stagione stava per finire e c’erano le ultime cose da sbrigare prima che iniziassero le piogge che già da metà agosto bagnavano le montagne. Con le consegne quell’anno era arrivato lungo: un ritardo dovuto al fatto che aveva perso un sacco di tempo dietro a una malattia che gli aveva devastato prima i girasoli e dopo la vigna. Per mesi aveva girato per i campi assieme al Tecnico, un perito agrario esperto di parassiti e malattie delle piante, provando tutte le misture che il Tecnico gli proponeva. A calci chimici avevano infine sfrattato la morìa, ma il costo era stato alto e Fausto ci aveva perso le notti.
Ma il Tecnico l’aveva avuta vinta. Come l’altro Tecnico, quello esperto di allevamenti, che anni prima gli aveva dato una mano con dei problemi alle vacche, e che gli aveva fornito alcuni suggerimenti su come migliorare la produzione e ridurre i costi. Era semplice, bastava ispirarsi alle produzioni in grande scala e far crescere un po’ la fattoria: ampliare la stalla, cambiare i mangimi… e con qualche dose di estrogeni e antibiotici (non senza un po’ di rischio) avrebbe avuto la carne più morbida della zona. E abbondante. Poteva permettersi anche qualche bestia in più. Rinnovare, questa era la parola d’ordine. I due Tecnici sembravano dischi rotti: “Bisogna rinnovare!”, dicevano a ogni controllo.
E Fausto rinnovava. Ampliamenti, mungitrici, mangiatoie, iniezioni, miscele, impasti, pannelli, catene, isterectomie, incubatrici… ora la sua stalla era un capannone all’avanguardia al pari di quelli della bassa. I Tecnici venivano e andavano controllando tutto, facendo persino le analisi del sangue agli animali, e la macellazione avveniva con dei modi nuovi, e i lavoranti indossavano la cuffia verde come quella delle sale operatorie degli ospedali. Nel giro di qualche anno, era riuscito a triplicare la produzione e le vendite. Aveva un bel da dire, il Brumini, con quel sopracciglio alzato a condanna ogni volta che affrontavano il discorso; per essere competitivi bisognava stare al passo coi tempi, c’era poco da fare. E infatti il Brumini non andava per buone acque. L’anno prima aveva perso metà raccolto, per aver rifiutato l’elicottero con la medicina; e i vitelli gli nascevano sempre con lo stesso ritmo, e qualcuno moriva. Le vacche non ingrassavano abbastanza, e con il pascolo all’aperto spendeva troppo. Insomma si spezzava la schiena per niente. Era una gara persa in partenza.
Del resto il Brumini aveva i suoi anni, si poteva anche capire; non aveva la testa per apprezzare il progresso. Ma lui, Fausto, coi suoi tre figli giovani, era aperto alle novità, non voleva restare fermo al forcone. Pensava fosse inutile. Come quelli che rifiutano l’aereo dicendo che se fossimo nati per volare avremmo le ali. Ma i suoi figli l’aereo l’avevano preso e gli avevano detto che era meglio che stare nel divano di casa. C’era pure la signorina a portarti le bibite, e lo schermo al plasma.
Pensava tutte queste cose mentre il rimorchio si alzava a scaricare i covoni, il Brumini e il Glauco a sudare nei vapori della paglia, la faccia coperta da un fazzoletto come i banditi e la scena che si ripeteva uguale anno dopo anno. Povero Brumini, si disse Fausto, qualcosa gli sfuggiva, eppure lui non sembrava curarsene, col suo piglio severo e poco ciarliero da vecchio di una volta; amava le sue bestie e ci parlava, con quei suoni gutturali che ormai nessuno faceva più. Isolato nella sua piccola tenuta di montagna, il lavatoio ancora davanti casa, poche macchine e una miseria che non importava a nessuno. Accettava le verità oscure e paradossali della natura senza bisogno d’altro, così come gli era facile riprodurre il fischio del merlo: qualcosa che impari da bambino e che ti sembra di aver sempre saputo. Nient’altro, non voleva sentire ragioni, anche se ci perdeva. Peggio per lui, si disse Fausto, pensando felice alle sue vacche grasse legate in fila là nel capannone; io di fame non ci crepo sicuro.

Ci vollero un paio d’ore per finire il lavoro. Spostarono i covoni scaricati dal trattore in tre, poggiandoli sul nastro trasportatore che li portava nella parte alta del fienile. Qui a forza di carriole e forconi li sistemarono ordinatamente creando un sottotetto di paglia odorosa. Quando ebbero terminato, sudati e sporchi di polvere, il Brumini lo invitò di nuovo dentro, ma questa volta Fausto fu irremovibile: doveva mettere via dei quintali di legna e voleva farlo prima di mezzogiorno, quando a casa sua era pronto da mangiare. Era già mezzo dentro la cabina del trattore, quando distrattamente guardò insù, ricordandosi della strana sensazione della prima mattina: niente. Nessun migratore, rapace, o stagionale; nessun segno di piumaggio e tra i rami dei cipressi del viale nemmeno la traccia di un nido.
La campagna stava silenziosa nel solleone. Passò un nugolo di moscerini e poi un’ape, unici segni di esseri volanti.
– Brumini – disse a un tratto con aria interrogativa. Questi si voltò e lo guardò coi suoi luminosi e tristi occhi grigi tra la pelle cotta, alzando il mento per annuire.
– …nulla nulla, ci si vede.
– Ci si vede, saluta la Carla.
– Presenterò. Passo la settimana prossima.
E Fausto accese il motore che scoppiettando coprì quel silenzio inumano che pervadeva i tappeti di luce sopra le loro teste e sopra i tetti; un silenzio che faceva spavento a sentirlo.
Doveva essere simile a quello, andare al cimitero; solamente il brucare inesorabile dei vermi e dei lombrichi, e tutto il resto, di dentro e di fuori, perso in una mutezza inabitabile.
– Hai visto come guardava per aria? – disse il Brumini a Glauco, il suo lavorante, dopo aver alzato un’unica volta il braccio in segno di saluto. – Per me cercava le tortorelle – aggiunse quasi innervosito; poi scosse la testa come rassegnato e si diresse verso l’uscio, dove la Stella si stirava le zampe sbadigliando e scodinzolandogli in segno di bentornato. In pochi passi i due uomini scomparvero nell’ombra della casa.
Il fresco di dentro li percorse come una doccia. Si sedettero al tavolo, su cui ancora stavano i bicchieri, il fiasco di vino, il pane e il formaggio.
Il Brumini pensò che la Dora da un po’ era strana, forse non stava bene; non era da lei lasciare il mangiare fuori posto. Ché poi il formaggio sudava. Scosse di nuovo la testa e si alzò a dare una sciacquata a uno dei due bicchieri. Poi si versarono il vino e restarono in silenzio a guardare fuori dalla porta aperta.
Oltre la soglia la luce accecante della tarda mattina confondeva l’aria e la polvere e l’odore dell’estate si mescolava a quello intenso della casa, e tutto stava pieno e composto nella sua immobilità.
– Certo che è strana, sta cosa – disse a un tratto Glauco.
– Strano, strano, e che cos’è che non è strano? – rispose il Brumini seccamente, già alzandosi dalla sua sedia di legno e paglia intrecciata. – Ma cosa vuoi pretendere? È così che va. Dai, andiamo, ché è già tardi per le bestie. Finché non finiamo non si mangia.
E uscì senza voltarsi indietro.

L’aia stava sola senza nemmeno un’ombra. Nessuna ala sfiorava il cielo sopra le tegole di arenaria, e nemmeno sui palazzi delle lontane città, sui campi distesi, sui frutteti, sui castagneti assetati. Era l’ora degli spiriti, ma anche i demoni si erano ritratti. Nessuno più poteva davvero dimorare in quella terra e in quel cielo deserti.