Un’analisi “in situ” di quello che potrebbe portare al declino terminale dell’ultima superpotenza

di Alan D. Altiericrisi.jpg

Tutti i capitoli di “Amerika dämmerung”

1. LOWDOWN (*)

Gli Stati Uniti d’America – cuspide del capitalismo rampante del Terzo Millennio, locomotiva della produzione industriale globale – continueranno a essere LA forza trainante della crescita economica planetaria.
Giusto?
Sbagliato.
Alla chiusura del primo trimestre dell’Anno Domini 2008, anno conclusivo dell’Era Bush II, gli Stati Uniti non sono più né l’una cosa né l’altra. Per contro, sono in profondo, profondissimo DEFICIT FEDERALE: 10 TRILIARDI DI DOLLARI.

Mosca, nuova Russia, è solo uno dei luoghi in cui si è trasferito il vero capitalismo rampante del Terzo Millennio. A Mosca ha sede, citando solamente un nome, il consiglio di amministrazione del titano petrolio-gas naturale chiamato Gazprom. Se le casalinghe disperate di Voghera, Italia, e/o di Linz, Austria, riescono (non sappiamo per quanto ancora) a far bollire l’acqua per buttare le fettuccine, lo devono primariamente al metano erogato da Gazprom.

Quanto a trainare la crescita economica planetaria, il misero incremento 2.5% (circa, per difetto) dell’economia americana non può neppure remotamente competere con il 9.2% del meta-continente chiamato – nell’azzeccatissima definizione di Federico Rampini, mostro sacro dell’analisi economica del quotidiano La Repubblica prima e della saggistica geopolitica di Mondadori poi – l’Impero di Cindia, Cina+India. Le cause di questo spostamento epocale sono molte e tutt’altro che recenti.

nixon-scarface.jpgA sferrare il primo colpo basso all’economia americana è un grande statista di nome Richard Milhouse Nixon.
Ricordate? Mr. Nixon fu il Presidente americano, trionfalmente eletto per il Partito Repubblicano nel novembre 1970, che ridefinì il concetto di “Presidenza Imperiale”. Fu anche il sagace stratega che autorizzò, oltre a svariate altre brillanti iniziative belliche, i bombardamenti a tappeto sul Vietnam del Nord nel giorno di Natale 1971 sancendo quella che venne definita Escalation. Fu nonchè l’abile uomo politico che si guadagnò sempiterne fame & fortune per gli epiteti registrati su certi sgradevoli, ampiamente illegali, intercettazioni telefoniche passate alla storia come “Scandalo Watergate”. A tutt’oggi personaggio discusso e discutibile, non si può comunque dire che Mr. Nixon abbia avuto vita (politica & non) facile. In sintesi:

jfk_in_dallas.jpg– Mr. Nixon eredita la “sporca” Guerra del Vietnam da un vice-Presidente democratico, Lyndon Baines Johnson, diventato forzosamente Presidente dopo che il Presidente eletto, John Fitzgerald Kennedy (JFK), incassa un proiettile nel cranio sparato da un cecchino (psicopatico, è chiaro) di nome Lee Harvey Oswald in un fatale giorno del 1963, durante una visita di stato a Dallas, Texas. O forse di proiettili nel cranio JFK ne incassò due. O forse i cecchini (non necessariamente psicopatici) erano tre. O forse… Oh, come on, you know how these things go;
– oltre a una troppo remota guerra asiatica perduta in partenza, Mr. Nixon si ritrova tra le mani anche una troppo vicina opinione pubblica americana inferocita, disgregata ma, peggio che peggio, impoverita da una stag-flation (stagnazione + inflazione) causata costi bellici ormai fuori controllo;
– Mr. Nixon capisce quindi che, per uscire dall’ombra peggio che tetra di una replica del famoso e famigerato Lunedì Nero 1929, doveva fare qualcosa. Pertanto, in una geniale mossa a sorpresa: MR. NIXON DISANCORA IL DOLLARO DALLA RISERVA AUREA.

Eccolo, il colpo basso all’economia US.
All’epoca, primi Anni ’70 (ma anche ben prima di quell’epoca), la totalità della moneta circolante in una nazione doveva avere un suo corrispettivo in oro. Per gli Stati Uniti d’America, la riserva aurea era (ed è tuttora, quanto obsoleta) custodita in un luogo molto coreografico chiamato Fort Knox, Kentucky. In materia, non trascuriamo 007: Goldfinger, il film che – a dispetto della magnifica Shirley Eaton tutta nuda e tutta dipinta d’oro – fa conoscere al mondo l’arcana dualità carta moneta circolante/riserva in oro.

La dualità in questione – di cui l’allora Presidente della Repubblica Francese Charles de Gaulle era un duro sostenitore – garantiva stabilità monetaria interna e forniva equilibrio commerciale estero. Alla temeraria decisione di Mr. Nixon, la sprezzante reazione dei Monsieur De Gaulle fu la seguente: “Il dollaro? Non vale nemmeno la carta su cui viene stampato.”
Giudizi caustici a parte, svincolare la carta moneta americana dalla pastoia metallica dell’oro permette a Mr. Nixon di stampare nella Mint (zecca federale) tutti i dollari che vuole. In realtà, è una rivisitazione distorta e dopata del New Deal di Franklin Delano Roosevelt. È il tentativo estremo di tamponare il deficit causato dalla guerra del Vietnam. Tentativo miseramente fallito in quanto gli USA rimangono comunque in recessione fino alla fine degli Anni ’70, bollati dalla infausta presidenza democratica di Jimmy Carter. Per contro, quella di Mr. Nixon è rimane una decisione dei cui effetti il Pianeta Terra risente ancora oggi: IL DOLLARO-FINZIONE.

A inferire il secondo colpo basso all’economia americana è un signore di nome Ronald Wilson Reagan.
Ronald-Reagan.jpgMediocre attore hollywoodiano di film B, transfuga (leggi: voltagabbana) dal Partito Democratico a quello Repubblicano, avvocato ammanicato con i più grossi special interest groups delle industrie belliche, governatore dello Stato della California, nel novembre 1980 – sull’onda dei quattro anni di totale debacle di Jimmy Carter – Mr. Reagan è trionfalmente eletto 40mo Presidente degli Stati Uniti.
Durante la sua inauguration (cerimonia d’insediamento), gennaio 1981, giurando sulla Sacra Bibbia e sulla costituzione americana, Mr. Reagan esprime le sue visioni non solo politiche con la seguente massima: «Il governo non è la soluzione del nostro problema, il governo è IL problema». Non male per qualcuno appena eletto a capo dello stato, capo del governo e comandante in capo delle forze armate.

Secondo e ben più grandioso profeta, dopo Mr. Nixon, del concetto di Presidenza Imperiale, per venire ulteriormente incontro alla sua gggente, Mr. Reagan articola la sua strategia economica (Reaganomics) su sei punti chiave:

i) deregulation: eliminazione dal mercato — inteso nel senso più ampio possibile — di qualsiasi vincolo, limitazione e soprattutto (al contrario della liberalizzazione) regola. Leggi: vietato vietare;
ii) totale, completa, agevolata mano libera ai grossi conglomerati industriali. Leggi: che ogni CDA faccia di tutto e di più per fare più soldi;
iii) taglio del 25% dell’imposta sul reddito. Leggi: i ricchi diventano sempre più ricchi e i morti di fame sempre più morti di fame;
iv) drastica riduzione dei tassi d’interesse, consentendo così al sistema bancario di aumentare la concessione di prestiti. Leggi: se hai i soldi te ne diamo sempre di più, se però poi qualcosa ti va male, ti sbattiamo in mezzo a una strada;
v) drastica riduzione del welfare (assistenza pubblica). Leggi: sempre più disgraziati vadano pure a crepare nelle cloache post-urbane che più gli aggradano. Mr. Reagan è in grado di concepire ed eseguire tutto questo ben oltre il potere che gli deriva dall’essere insediato nello Studio Ovale. A permetterglielo è, sempre e ancora, il dollaro-finzione ideato dal suo collega di partito e precedente inquilino della Casa Bianca Mr. Nixon. Ma l’elemento cardine della Reaganomincs rimane:
vi) estremo aumento delle spese militari, fittiziamente motivato con la estrema debolezza strategica americana successiva all’Era Carter. Leggi: pompiamo i profitti dei consorzi degli armamenti per grosse guerre che comunque non combatteremo mai.

Con un bilancio della “difesa” (all’epoca, inizio Anni ’80) pari a tre volte la somma dei bilanci militari di tutte le altre nazioni del mondo messe assieme, a Mr. Reagan viene da alcuni storici attribuito il merito di avere portato l’Unione Sovietica – la cui economia statalizzata fu incapace di reggere il passo, e il colpo, di quella inarrestabile corsa agli armamenti – alla bancarotta. Da qui il disastro del sistema sovietico del 1991. Da qui anche il conferimento a Mr. Reagan della dubbia etichetta di “Vincitore della Guerra Fredda”.

Poco più di un secolo e mezzo prima dell’apparizione di Mr. Reagan, osservando il campo di battaglia dopo la Battaglia di Waterloo – oltre quarantamila caduti – si sussurra che il Duca di Wellington abbia a sua volta sussurrato: «C’è solo una cosa peggiore di una battaglia perduta: una battaglia vinta». Pressochè nessuna sintesi riassume il dopo-Reagan meglio delle parole del Duca di Wellington.

George Herbert Walker Bush (Bush I), 41mo Presidente (Repubblicano) degli Stati Uniti, già Direttore della CIA prima e Vice-Presidente di Mr. Reagan poi, eredita un deficit federale di circa 2,3 TRILIARDI di dollari (dell’epoca, 1990). Deficit che dopo la Prima Guerra dell’Iraq (1991) e per l’anno residuo (e ultimo) dell’Era Bush I si gonfia a 3,23 TRILIARDI di dollari.
A questo punto, perfino l’equivalente americano della casalinga disperata di Voghera ritiene che il lowdown dell’economia a stelle e strisce sia stato raggiunto. Con l’elezione presidenziale del novembre 1992, George H.W. Bush viene cacciato a furor di popolo. Al suo posto arriva il semi- sconosciuto – ma decisamente piacente e indubbiamente carismatico – governatore democratico di un depresso staterello sudista quale l’Arkansas.
Con questo uomo nuovo alla Casa Bianca, la casalinga disperata americana percepisce – o crede di percepire – luce alla fine del tunnel.
Nella realtà, il vero lowdown è destinato rivelarsi molto, molto più profondo.

2. KNOCKDOWN (**)

Alla sua Inauguration, gennaio 1993, William “Bill” Jefferson Clinton, 42mo Presidente (democratico) degli Stati Uniti, entra in scena quale Renaissance Man della ripresa economica americana. Da subito tiene fede al suo vincente slogan elettorale – It’s the economy, stupid, «È l’economia, stupido». E da subito si impegna a perseguire una inziativa epocale: NAFTA, North American Free Trade Agreement (Accordo Nord-Americano per il Libero Scambio).
Versione nord-americana dell’europeo Trattato di Schengen, il NAFTA stabilisce l’immediata eliminazione dei dazi doganali su metà dei prodotti statunitensi diretti verso Messico e Canada, più la graduale eliminazione di altri diritti doganali durante un successivo periodo di quindici anni.
Il NAFTA prevede inoltre l’abolizione delle restrizioni su molte categorie di prodotti, inclusi motoveicoli, componenti auto, computer e componentistica hi-tech, forniture tessili, agricoltura. Pur proteggendo (per brevissimo tempo) brevetti, diritti di autore e marchi di fabbrica, il NAFTA cancella anche qualsiasi restrizione ai flussi di investimenti tra i tre paesi del continente nord-americano. Il NAFTA diventa quindi un’ulteriore spinta verso una DEREGULATION SELVAGGIA. Nel dicembre 1992, l’accordo è firmato dal Presidente messicano Carlos Salinas de Gortari, dal Primo Ministro Canadese Brian Mulroney e dallo stesso Mr. Clinton. Entrata in vigore: 1 gennaio 1994. Non sono però tutte strette di mano e coppe di champagne:

revol_zapatista.jpg– nello stato messicano del Chiapas, la firma del NAFTA viene celebrata con l’inizio di quella che in seguito si sarebbe chiamata Revolucion Zapatista, guidata da un individuo perennemente incappucciato denominato “Subcomandante Marcos”. Gli zapatisti vedono il NAFTA come la legalizzazione di una ulteriore razzia di materie prime da parte del nord del mondo. Hanno ragione;
– strumentalmente (ma non poi tanto), gli stessi conservatori repubblicani americani si oppongono al NAFTA, profetizzando un aumento incontrollato dell’immigrazione clandestina dal confine meridionale. Hanno ragione anche loro;
– nemmeno i teamsters (sindacalisti) della potente gilda del lavoro AFL-CIO fanno salti di gioia. Intuiscono che il NAFTA significherà una fuga di investimenti americani verso zone del mondo dove il costo del lavoro è di gran lunga inferiore. Hanno ragione in pieno.

E sull’economia americana è precisamente questo il primo contraccolpo del NAFTA: MAQUILADORAS.
Le maquiladoras (fabbriche) sono una mastodontica cintura di industrie pesanti in territorio messicano appena a sud del confine USA. Tutti i grossi conglomerati americani, europei e non solo si lanciano a testa bassa nell’impresa delle maquiladoras. I vantaggi:

– strutture prefabbricate a bassissimo costo;
– nessun controllo ambientale su scarichi ed emissioni;
– pressochè nessun sistema di condizionamento e/o idrico-sanitari;
– pressochè nessun apparato di sicurezza del lavoro;
– nessuna limitazione al sesso e all’età alla forza lavoro. Uomini, donne e bambini possono essere tutti messi alla macchina e/o catena di montaggio;
– nessuna limitazione ai turni di lavoro, dalle otto alle sedici ore al giorno per lavoratore, straordinari liberi;
– nessuna limitazione agli orari di lavoro, le maquiladoras operano ventiquattro ore al giorno, sette giorni alla settimana, tracentosessantacinque giorni all’anno;
– nessuna copertura sanitaria, sindacale, professionale, etc. etc. etc.

maquilas.jpgOggi, trascorsi esattamente sedici anni dal quello storico 1992, le maquiladoras continuano a esistere, a prosperare, a produrre. A tutti gli effetti, sono mega-industrie che si reggono su LAVORO PARA-SCHIAVISTA. E, ci insegna la storia da lungo tempo, schiavismo e omicidio scavano le medesime fosse. Esiste una teoria investigativa da parte della polizia messicana – quanto meno da parte di quel 5% di inquirenti non ancora corrotto in modo terminale dai cartelli della cocaina – che l’ormai decennale, oscena strage di donne a Ciudad Juarez sia in qualche modo collegata alle maquiladoras. Tutte operaie, le vittime continuerebbero a venire sacrificate su un doppio altare:
a) riti di iniziazione per i nuovi membri delle famigerate latino gangs del crimine organizzato sud-americano;
b) sadica intimidazione omicida a opera dei racket del lavoro schiavista… oops, correzione: neo-liberista.

Per una qualche imperscrutabile ragione, da parte dei difensori a tutte le latitudini dei cosiddetti “diritti umani” (inclusi gli ormai ex arcobalenanti entro i confini itaGLiani) non risultano cortei, slogan, striscioni, megafoni, cori, sfilate, danze, sassaiole varie, spogliarelli, carri allegorici, maschere & mascherate, blocchi stradali, esibizioni di nani/ballerine/marinai, incendi di cassonetti, raid black-bloc, violazioni creative di zone verdi-gialle-rosse, interrogazioni parlamentari e/o affini di tutto quanto sopraelencato contro le maquiladoras. Nel caso specifico del belpaese, deve di certo trattarsi un lapsus di alcuni malcapitati, involontariamente ignari, sia chiaro, sulla via della baguette a Montecitorio.

Il trend cominciato con il NAFTA è destinato ad allargarsi, espandersi, dilatarsi ben oltre il NAFTA. È destinato a diventare un mega-trend, ciò che oggi chiamiamo GLOBALIZZAZIONE.
Cardine della globalizzazione resta lo outsourcing, appalto esterno, realizzato in prima istanza (produzione) nelle maquiladoras, in istanze successive (logistica) anche per i servizi. A che scopo stipendiare e assicurare un operaio di catena di montaggio a Joliet, Illinois, USA, oppure una centralinista telefonica a Porto di Potenza Picena, Marche, itaGLia, quando – per un decimo, un ventesimo di quei costi – si possono ottenere gli stessi servizi da un ragazzino di quattordici anni di Guadalajara, Mexico, o da una ragazzetta di diciassette anni di Shanghai, Cina?

Maquiladoras e outsourcing sono lo tsunami dei marchi Made-in-China, Made-in-Malaysia, Made-in-Vietnam, Made-in-Pakistan, Made-in-Wherever. E sono al tempo stesso la pietra tombale di quel marchio di cui tutti andavano tanto orgogliosi: Made-in-the-USA.
Con Schengen e il NAFTA prima, con la globalizzazione poi, l’antico sogno imperial-coloniale di Adam Smith torna così a realizzarsi appieno: materie prime E manodopera a costo quasi zero, niente assicurazioni, niente pensioni, possibilità di licenziare in qualsiasi momento, nessun ostacolo a chiudere bottega dal giorno alla notte, meno di nessun ostacolo per ricominciare daccapo in qualsiasi altra fetida, disperata cloaca del sud del mondo. Alla peggio, bisognerà mettere sul libro paga qualche dittatore-tagliagola in più e riempire di carcasse di morti di fame qualche fossa comune in più. Hey, man, no big deal.

Tornando a Mr. Clinton – nello scarso tempo che gli resta dopo gli incontri ravvicinati del nono tipo con stagiste alla Casa Bianca – l’uomo è comunque abile nel tenere gli Stati Uniti fuori da guerre grosse. Questo, in controtendenza rispetto a tutti i suoi predecessori, gli va riconosciuto.
Di conseguenza — e senza dare troppo peso al commovente “intervento umanitario” in Somalia (1993), né alla trionfale “liberazione” del Kosovo (1999) – la Clintonomics non risente di astronomiche spese militari per cancellare dalla faccia della terra questo o quello. L’ex-Unione Sovietica non è più una minaccia militare e arranca negli artigli di una feroce depressione economica. L’onda media del successo nella Prima Guerra dell’Iraq (combattuta peraltro dall’Amministrazione Bush I e dall’ONU), del containment di Saddam Hussein e della debolezza dell’Iran, continua. Mr. Clinton può però godere di uno scacchiere medio-orientale vagamente tranquillo.
Il che è un valium anche per il mercato petrolifero, con un costo del barile di greggio medio-orientale attorno ai 30 dollari al barile. È una situazione che assicura (ragionevole) stabilità estera e (incoraggiante) prosperità interna.

Per il grande capitale americano, la Clintonomics si traduce in un’orgia dei profitti. Dopo le vacche agonizzanti della Reaganomics e della Bushnomics I, i soldi riprendono finalmente a fluire anche nelle tasche delle casalinghe disperate. Assieme ai soldi, crescono di pari passo i consumi: cibo, abiti, elettrodomestici, automobili, case, giocattoli. TUTTI i consumi. In retrospettiva, il quinquennio 1995/2000 viene guardato ancora oggi come qualcosa che va ben al di là di un nuovo Capitalistic Renaissance (Rinascimento Capitalista): diventando una nuova Golden Age, (Età dell’Oro, non quello di Fort Knox).
C’è un unico, trascurabile problema in questa Golden Age, un problema appena nascosto sotto la superficie ma più che pronto a tornare ad azzannare. In realtà, sempre lo stesso problema: il dollaro-finzione.

Tra i molti scricchiolii sinistri – molto simili a quelle emissioni di gas velenosi che vengono in superficie da un cratere vulcanico prossimo all’eruzione – verificatisi dalla Bushnomics I alla Clintonomics (decennio 1990-2000), due sono i knockdown da allarme rosso che devono essere menzionati.

KNOCKDOWN #1 1989/1991: COLLASSO DELLE SAVINGS & LOANS ASSOCIATIONS.

Le Savings & Loans Associations (Associazioni Risparmi & Prestiti), sono una sorta di equivalente americano delle Casse di Risparmio itaGLiane.
Già dalla Reaganomics, la deregulation permette agli istituti bancari di eseguire investimenti usando i fondi dei correntisti nel mercato immobiliare commerciale. In precedenza, detti investimenti erano limitati al residenziale, in quanto l’immobiliare commerciale, incatenato all’andamento del PIL (Prodotto Interno Lordo), è un settore di estrema volatilità.

In particolare, seguendo le inziative peggio che spregiudicate — oggi la chiameremmo finanza creativa — di tale Charles H. Keating, Jr., Presidente del CDA, la californiana Lincoln Savings & Loans, il più grosso e rispettato di questi istituti di credito, finisce in un colossale buco nero di insolvenza verso i propri clienti.

Peggio del peggio, ben cinque senatori in carica – Alan Cranston (Democratico, California); Dennis DeConcini (Democratico, Arizona); John Glenn (Democratico, Ohio), difatti: l’ex-astronauta; Donald Riegle (Democratico, Michigan); John McCain (Repubblicano, Arizona) – entrano tutti nel mirino di una grossa investigazione congressuale con l’accusa di corruzione.
Vengono chiamati i Keating Five (I Cinque di Keating), acido gioco di parole sul nome Keating: cheating (fonetica molto simile) è il gerundio del verbo to cheat, frodare.
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Charles H. Keating finisce a sua volta sotto processo per frode fiscale e falso in bilancio, quest’ultimo (negli USA, non più in itaGLia) gravissimo reato federale.
Tutti e cinque i Keating Five sono trovati colpevoli di condotta impropria in quanto, in uno di quei classici grovigli tra politicanti da suburra e magnati d’assalto, avevano “favorito” le malversazioni di Keating. A tutti gli effetti, nel 1990 la Lincoln Savings & Loans si collassa definitivamente. Un milione e mezzo di risparmiatori sul lastrico. Costo del tamponamento (parziale) del governo federale (leggi: contribuente americano): 3,4 miliardi dollari dell’epoca).

In totale, la perdita finanziaria dei collassi delle altre S&L ammonta a 160 miliardi di dollari, 130 miliardi sborsati dal governo americano (leggi di nuovo: contribuente americano).
And by the way, quel John McCain è questo John McCain: attuale candidato repubblicano alla Presidenza degli Stati Uniti. Oops!

KNOCKDOWN #2 1998-2001: COLLASSO DELLE COSIDDETTE DOT.COM COMPANIES.

Ricordate? Il commercio diretto su Internet. Quel perfetto mondo completamente virtuale (ma anche totalmente fasullo) in cui nessuno sarebbe più dovuto uscire di casa, comprando mutande e senape sul sito X piuttosto che non sul portale Y, e passando il resto della giornata succhiando Coca-Cola Made-in-Dubai e godendosi uno qualsiasi dei diciottomila virgola trentuno canali satellitari.
Ricordate? Quel mondo ancora più perfetto (e ancora più fasullo) in cui (in un futuro che è già presente) il frigorifero di casa avrebbe “avvertito” sulla fibra ottica il frigorifero del supermercato per farsi mandare giusto quella mezza pinta di latte mancante.

Per Wall Street, le dot.com companies si gonfiano fino a diventare un autentico baccanale della taroccatura finanziaria. Il motto vincente: Get Big Fast, diventa grosso in fretta. Sorry, boys: quel mondo perfetto non è mai esistito e nessuno diventa grosso da nessuna parte. Tranne che nei debiti.
Le dot.com companies cessano di esistere ancora prima di esistere. Nei fiumi di sudore, nelle eco delle urla e nei tumuli di cartacce della sale contrattazioni da New York a Sydney vengono il dato conslusivo mondiale è PERDITA DELLE DOT.COM: 5 TRILIARDI DI DOLLARI.
Eppure, knockdowns settoriali a parte, l’immane macchina della economia globalizzata riesce comunque a reggere.

Mr. Clinton argina il problema di credibilità personale causato dallo “scandalo” delle sue scappatelle, “scandalo” grottescamente e ipocritamente strumentalizzato dall’enclave repubblicana in un tentativo (fallito) di impeachment. Alla fine dell’Anno Domini 2000, conclusione del suo secondo e ultimo mandato, Mr. Clinton lascia con una crescita economica USA del 4% e – per la prima volta dalla Guerra del Vietnam – con un SURPLUS ATTIVO DEL BILANCIO FEDERALE: 500 MILIARDI DI DOLLARI.

La Golden Age sembra quindi destinata a continuare, giusto?
Sbagliato.

I vettori negativi del dollaro-finzione stanno comunque arrivando a massa critica. Vettori negativi che penetrano dritti al nucleo: sistema bancario e mercato azionario.

Note

(*) lowdown: livello più basso, fondo del barile
(**) knockdown: (termine pugilistico) colpo sufficientemente forte da scaraventare qualcuno, o qualcosa, a terra