unorosso.jpgdi Massimo Gardella

“Il grande Uno Rosso” è la Prima Divisione di Fanteria degli Stati Uniti, la spina dorsale delle truppe d’assalto americane. L’autore, Sam Fuller, ne ha fatto parte durante la Seconda guerra mondiale ricevendo due medaglie al valore (una nello sbarco in Sicilia e un’altra nel D-Day a Omaha Beach, Normandia). Ma Fuller prima di essere uno scrittore era un regista considerato scomodo dall’intellighenzia di Hollywood per le sue idee anarchiche, per il suo cinema controverso. Celebrato da Scorsese e in questi ultimi anni al centro di una riscoperta critica tardiva ma meritata, l’esperienza autobiografica di Fuller come soldato fu da lui stesso portata sugli schermi nel 1980 con un film dallo stesso titolo. Il soggetto del film fu tratto dall’omonimo libro, che finalmente ha trovato una collocazione nelle librerie italiane, che precendentemente l’avevano clamorosamente snobbato. Ora, con la splendida locandina originale, frecciabr.gif Il grande Uno Rosso è stato pubblicato dall’editore romano Elliot (€ 22,00, pagg. 571), e consigliamo vivamente di non lasciarvelo scappare.

È la storia di una squadra di Marine dallo sbarco in Nord Africa fino a quello in Normandia, passando per l’occupazione alleata della Sicilia, la battaglia della Bulge (in Belgio) e la liberazione di Falkenau (un campo di sterminio in Cecoslovacchia). I quattro protagonisti, soprannominati i Quattro Cavalieri dell’Apocalisse, sono:
Zab — ricalcato su Fuller stesso; un aspirante scrittore entrato nell’esercito per osservare il conflitto in prima persona, deciso a scrivere il romanzo bellico definitivo;
Griff — illustratore e disegnatore di satira, tiratore scelto con un unico problema: non riesce a sparare al nemico se lo guarda negli occhi; nel film lo interpretava un Mark Hamill appena uscito vittorioso da un altro conflitto, le Guerre stellari di Lucas, dove vestiva i candidi panni del discepolo Jedi Luke Skywalker, e che nel film di Fuller si ritrova spossato dall’orrore a versare interi caricatori su un soldato tedesco che ha trovato rifugio in un forno – ancora tiepido – del lager di Falkenau;
Johnson — dal Sud degli USA, con un retaggio nel KKK da dimenticare;
Vinci — da Little Italy, NY; determinato a onorare il sangue italiano che scorre nelle sue vene, perché come dice suo padre “I fascisti non sono italiani!”.
Su tutti loro veglia la granitica figura del Sergente: reduce della Prima guerra mondiale e con uno scheletro nell’armadio che lo tormenta. Nel 1918 aveva ucciso un tedesco ignaro che l’armistizio fosse stato firmato diverse ore prima. Per il Sergente la differenza tra “uccidere” in guerra e “assassinare” un uomo è fondamentale per stabilire il confine tra necessità di sopravvivenza e umanità.
Il romanzo segue il percorso della squadra attraverso spettacolari azioni di combattimento, rese ancora più drammatiche dal fatto che Fuller le ha vissute in prima persona. Si tratta di una cronaca di guerra in forma di romanzo, narrato con un occhio obiettivo e disilluso che lo trasporta fuori da ogni retaggio ideologico e/o politico. È uno di quei libri a cui calza l’aggettivo “universale”.
Dal primo sbarco ad Azrew (Algeria) a quello finale in Normandia, il romanzo segue lo sviluppo e l’annullamento emotivo dei protagonisti, affiancati dai rimpiazzi che il Sergente (a volte sospettato di favoritismo per i suoi Quattro Cavalieri) manda sempre in avanscoperta, ma esponendosi sempre alla testa del gruppo. Il Sergente è un uomo di poche parole (nel film era interpretato da un mostruoso Lee Marvin, anche lui decorato in guerra e con una mentalità simile a quella di Fuller), a cui fa da contraltare lo spietato Schröder, un ufficiale della Wehrmacht il cui solo scopo è combattere e uccidere per il Fuhrer. Schröder è l’emblema del perfetto soldato nazista: determinato, arrogante, senza scrupoli e cieco sostenitore della politica di Hitler. Usando le parole di Fuller per descriverlo: “He disagreed with Hitler’s policy on only one thing: Jews. He didn’t think any of them should be spared to end up in slave labor camps or brothels for German officers. They should all be liquidated.” (“C’era un unico punto della politica di Hitler su cui non era d’accordo: gli ebrei. Era convinto che fosse inutile risparmiarli per i campi di lavoro o i bordelli per ufficiali tedeschi. Andavano sterminati tutti, e basta”, ndr).
Schröder e il Sergente si incontreranno senza saperlo nel corso dell’intero romanzo, osservandosi a distanza e rispettando la reciproca professionalità militare, anche se perseguita per fini opposti. Il romanzo è action packed, lo stesso Spielberg si è ispirato a Fuller (sia al libro che al film) per il suo Soldato Ryan, e le descrizioni di battaglie e imboscate si alternano a momenti di pathos emotivo che mettono i brividi (letteralmente), come la liberazione del lager di Falkenau (dove il Sergente si prende a cuore una ragazza di età indefinibile e ridotta allo spettro di un essere umano), oppure l’avanzata in Sicilia (l’incontro con un piccolo mafioso italoamericano che simpatizza coi nazisti e cerca di ingannare la Squadra), lo sbarco a Omaha Beach (incredibile nel descrivere l’animo dei soldati coscienti di trovare la morte sulla spiaggia) e la strepitosa battaglia in un anfiteatro romano in Algeria con un panzer tedesco e la cavalleria berbera.
Il romanzo di Fuller è pieno zeppo di momenti incredibili, è un libro da affiancare sullo scaffale a Remarque e Norman Mailer (Il nudo e il morto); il suo stile è asciutto, privo di fronzoli letterari (da giovane aveva scritto per il «New York Evening Journal» e copriva la cronaca nera sul «New York Evening Graphic») e non esita a mettere in luce le ombre interne dei marines, come il dilagante razzismo nei confronti dei soldati di colore (in Normandia erano assegnati alla guardia di depositi e mezzi ma i loro fucili erano senza munizioni: gli ufficiali bianchi non consideravano neanche la possibilità che un nero potesse essere armed and dangerous). Le figure del Sergente e del suo döppelganger Schröder entrano subito nella leggenda, così come i Quattro Cavalieri e le numerose comparse (come il grande Weirdo, un rimpiazzo della Squadra che decide di morire per evitare il combattimento, si concentra e smette di respirare; il suo cameo è una pagina epocale).
Il grande Uno Rosso è un bellissmo romanzo che flirta con la morte ed è allo stesso tempo un inno alla vita, all’umanità. Fuller non ha bisogno di perdersi nella retorica dei sentimenti, è molto spiccio e va subito al punto, senza peli sulla lingua. In poche righe riesce a entrare nello spirito di personaggi secondari, che magari compaiono solo per meno di una pagina, per offrire più punti di osservazione (ad esempio la querelle degli ufficiali francesi durante lo sbarco in Nord Africa, oppure il sergente della fanteria tedesca che ordina ai suoi soldati di non sparare ai berberi perché ama i loro cavalli e poi viene maciullato dagli zoccoli degli animali sotto shock per le esplosioni).
Un’edizione francese del libro ha una prefazione di Martin Scorsese. Su Fuller è stata da poco ristamapata A Third Face, una biografia ufficiale, e il film è uscito in versione director’s cut su dvd (con oltre un’ora di montato extra).