di Tito Pulsinelli

Botero.jpg[Un mio breve aggiornamento in appendice.] (V.E.)

La ferrea alleanza tra la Colombia e gli Stati Uniti rappresenta l’unità di intenti tra il primo produttore mondiale di cocaina e il primo Paese importatore, nel nome dei superiori interessi comuni fondati sulla narco-economia. Se la militarizzazione non ottiene la diminuzione della produzione la colpa è degli altri Paesi che non fanno abbastanza per chiudere le infinite “vie di transito” della cocaina. Se i governi di Washington non riescono a frenare il numero crescente dei consumatori endogeni, la colpa è sempre e comunque degli “altri”.

Il bilancio annuale della Colombia destina un incredibile 5,5% alle spese militari, ma la cocaina seguita a essere il prodotto di punta delle esportazioni, e l’economia criminale mafiosa sovrasta quella legale. I fondi addizionali provenienti dagli Stati Uniti, non riescono a incidere significativamente nella guerra “anti-droga”. Eppure sono copiosi, e collocano il paese sudamericano inmediatamente alle spalle dell’Iraq e di Israele, cioè tra i beneficiati di tutto rispetto.

I portavoce ufficiali dei due governi ultimamente scaricano la responsabilità di questi insuccessi sulle “narco-guerrillas”: sono loro che coltivano, raffinano, contrabbandano, e poi lavano i denari in posti che non vengono mai identificati. I narcos si sono dissolti nel nulla, estinti, apparterebbero all’epoca romantica e lontana dei “cartel” capitanati dal mitico Pablo Escobar. E’ credibile?

La Colombia si avvia al compleanno numero sessanta della guerriglia che ora si denomina FARC, senza aver trovato la formula per porre fine a una guerra civile sorta e alimentata dalle ceneri di Gaitan, leader popolare che stava spezzando il monopolio del potere dei conservatori e dei liberali.
L’alternanza di questo bipartismo, garanzia degli interessi dell’oligarchia e delle élites blindate, dall’ombra armò la mano dei sicari che fulminarono Gaitan e la speranza della plebe, tuttora relegata ai margini di una società chiusa e inamovibile. Sessant’anni che si aggiungono al secolo di sangue immortalato da García Marquez.

La scia di lutti, distruzioni ed esodi non è riuscita a imporre l’evidenza che non esiste soluzione militare alla guerra civile. La morte di ogni guerrigliero costa 5 miliardi di pesos all’erario publico (1), con il risultato di rafforzare la catena della vendetta e dell’odio atavico. Questo è il concime che alimenta l’approvazione dei bilanci straordinari e dei fondi speciali, che configurano il ciclo economico della guerra interna, indispensabile ai settori militari e paramilitari per scalare posizioni nell’ermetica gerarchia colombiana.

La strategia militare del governo di Bogotà – la “sicurezza democratica” – si è abbattuta senza pietà nelle zone rurali contro i civili, svuotandole di due milioni di abitanti che si sono riversati nelle periferie urbane e oltrefrontiera. Gli sfollati hanno lasciato alle spalle sei milioni e mezzo di ettari di terre, che ora appartengono ai pretoriani militari o paramilitari, cioè alle due componenti che hanno caratterizzato la non-originale formula repressiva.
Tuttavia, questa combinazione di forze si dimostra inadeguata a conseguire l’obiettivo principale: non è possibile eliminare militarmente le guerriglie.

Inoltre, la pacificazione patrocinata dal Presidente Uribe si è risolta con una sorta di generoso indulto generalizzato concesso alle bande dei paramilitari: massimo otto anni di carcere per qualsiasi tipo di crimine perpetrato. Sulle proprietà illegalmente acquisite, sulle cariche politiche dal livello comunale al regionale, fino al senato o all’entourage intimo di Uribe, deve calare la coltre dell’oblio. Non sono previste riparizioni e risarcimenti alle famiglie dei massacrati.
Uribe non è incline ad applicare lo stesso metro di valutazione, né a inclinarsi a un’analoga comprensione, con l’opposizione armata di sinistra. I paramilitari continuano come una componente indispensabile alla stabilità del regime.

L’endemico conflitto sociale non risparmia nessun segmento della società, è strutturale, attraversa i tempi e gli spazi della socialità quotidiana. Il manicheismo non aiuta a dare una risposta che sia utile a rendere più vivibile e umana l’esistenza.
Il difetto, evidentemente, sta nel manico, cioè in un Paese che si è adagiato e convive con la dualità dei poteri: due economie, vari eserciti, Stato arcaico con ridotta sovranità e un anti-Stato con basi regionali.
La Colombia è come la pelle del leopardo, ed è comune dire che a sud, l’Ecuador confina con la FARC.
La pace sarebbe innazitutto il transito delle istituzioni verso la modernità.

La vicenda della liberazione delle due prigioniere, decretata unilateralmente dalla FARC, riapre uno spiraglio alla speranza e scatena una feroce polemica, che attinge direttamente ai veleni della guerra psicologica. Nel palazzo di governo di Bogotà si annidano — senza eccezione – solo falchi, che fanno fatica a simulare interesse per soluzioni negoziate. Sono costretti a far buon viso a cattivo gioco, ma sperano poi tornare presto a brandire apertamente l’ascia di guerra.
Per ora, le difficoltà giudiziarie del regime uribista, organicamente coinvolto con i paramilitari, e la crescente mobilitazione trasversale dei colombiani stanchi di guerra, hanno obbligato i falchi a questo passo indietro.

La mobilitazione rispecchia una contrapposizione tra due schieramenti sociali, dove si fronteggiano il passato e il futuro, e due progetti-Paese. I falchi rappresentano la continuità del sistema di potere neo-coloniale dell’oligarchia, narco-economia, militari – arresi al vassallaggio a Washington – cui è storicamente indispensabile la guerra interna.
Dall’altro lato, si profila la confluenza degli esclusi permanenti: le periferie, i contadini, operai, indigeni, ma anche parti della classe media e i settori produttivi esterni e opposti alla narco-economia.
Questo fronte che si sta schierando è la novità dirompente, non appare come forza transitoria, ma si attesta come un protagonista con cui i politici e la diplomazia dovranno fare i conti.

La liberazione dei prigionieri è il primo passo indispensabile tra due forze che si combattono con le armi. Altri ne dovranno seguire, innovativi e lontani dalla ripetizione di vecchie formule. E’ impensabile proporre la smobilitazione e il reinserimento sociale dei guerriglieri, non foss’altro perchè qualche decennio addietro quelli che vi si avventurarono furono scientificamente annichiliti.
E’ ancor fresco nella memoria il ritorno alla vita civile e politica di insorti che formaro il partito Unidad Patriotica: passarono direttamente dalla lotta politica pacifica alla quiete dei cimiteri.

In un conflitto, quando nessuno dei contendenti riesce a soggiogare l’altro, la soluzione più conveniente a entrambi è l’accordo politico. Se gli uni non riescono a conquistare il Palazzo d’Inverno e agli altri è impossibile polverizzare “il terrorismo”, è evidente che si impone l’abbandono dell’intransigenza. La guerra medievale dell’assedio permanente ai castelli è la più stolta e onerosa, soprattutto per i civili.
L’anacronismo colombiano fa sopravvivere le eccezioni quando la via guerrigliera alla conquista del potere politico è stata accantonata su scala coninentale, e quando la “guerra di bassa intensità” e la “terra bruciata” si sono dimostrate inefficaci in Guatemala, in Salvador e in Nicaragua.

Sono maturati nuovi tempi, di cui le élites bogotane non sembrano avvedersi. Tempi in cui le coalizioni politiche e sociali mantenute ai margini sono pervenute al governo a Caracas, La Paz, Quito, Managua, Buenos Aires e Brasilia. Con la via elettorale e con lo strumento della Costituente che riscrive il nuovo patto sociale e le regole del nuovo Paese.
Ma loro sono ferocemente ostili a ogni cambiamento, e sono convinti di evitarli — come da tradizione – con la guerra interna permanente e le sovvenzioni imperiali. Del resto, sanno che Washington ha sempre creduto che in America latina, per evitare le rivoluzioni, bisogna stroncare sul nascere ogni riformismo.
Ultimamente, anche l’Unione Europea sembra appattirsi su questa lunghezza d’onda.

In Venezuela vivono quasi cinque milioni di colombiani e discendenti, e vi approdano tutti gli sfollati che non vogliono trovarsi più nel fuoco incrociato tra esercito, guerriglia e paramilitari. Inoltre è l’acquirente maggiore delle esportazioni colombiane.
Ha tutto il diritto e i titoli per pronunciarsi e adoperarsi per la fine delle ostilità nel vicino Paese, perché è il primo a pagarne le conseguenze, in vari modi. Con ragione ripete all’infinito che la pace in Colombia è la pace del Venezuela.
Il riconoscimento come “forza belligerante” alle guerriglie fa a pugni con la maniacale visione “antiterrorista” di Bush, ma è il gradino obbligato per arrivare all’applicazione della Convenzione di Ginevra. In questo modo, le parti in conflitto sarebbero obbligate a liberare tutti i prigionieri civili, e successivamente scambiarsi i rispettivi ostaggi militari. E’ la strada che venne percorsa in Centroamerica.

Sono del tutto fuori luogo, pertanto, le accuse al Venezuela di fiancheggiamento dei “narco-guerriglieri” inmediatamente disseminate dal comandante del fronte-sud del Pentagono durante la sua visita in Colombia. E’ lì che si annidano i principali nemici della pacificazione e della rinascita colombiana.
Stanno costruendo tre basi militari a ridosso della frontiera venezuelana, più che mai preziose dopo che l’Ecuador di Rafael Correa ha notificato che chiuderà la base di Manta.
E’ opportuno domandarsi perchè occultano il bilancio negativo del Plan Colombia e perchè il fiume di dollari investito per fini militari non ha sconfitto la FARC nè l’ELN, e neppure ha frenato l’esportazione di cocaina. Impotenza verso le bande dei “narcos” e impossibiltà di eliminare la più antica guerriglia del continente.
E’ singolare come le guerre in Afganistan e in Colombia non riescano a mettere il guinzaglio ai produttori di droga. Dopo l’evaporazione del petro-dollaro, la botta secca alle sue due maggiori banche, è in bilico l’egemonia finanziaria degli Stati Uniti, perciò il narco-dollaro lungi dall’essere un surrogato, diventa una leva potente per la captazione di capitali da biancheggiare.

Per ultimo, la geopolitica imperiale ha sempre manovrato per evitare che il blocco sudamericano gli contendesse il monopolio della bi-oceanità, cioè il vantaggio strategico di affacciarsi sul Pacifico e sull’Atlantico. A impedirlo non è stata solo la cordigliera delle Ande, ma l’intervento sistematico per evitare la confederazione sudamericana, per disintegrare la federazione centro-americana e per dissolvere la Grancolombia sognata da Bolivar.
Attualmente, la coperazione tra il Venezuela e la Colombia determinerebbe la conformazione di uno spazio bi-oceanico, con economie complemetari, che potrebbe facilmente arrivare ai cento milioni di abitanti. Una grande area che al nord del Sudamerica bilancerebbe la massa del gigante brasiliano, cioè un contrappeso di equilibrio positivo per il blocco sudamericano in gestazione.

(1) Parole della senatrice colombiana Piedad Cordoba.

Nota di V.E.:

[I più recenti sviluppi hanno visto il presidente Uribe – colui che visitò tranquillamente una cittadina mentre, nello stadio della stessa, i paramilitari giocavano a calcio con la testa di un guerrigliero decapitato – fare una proposta generosa: le FARC (Forze Armate Rivoluzionarie Colombiane) dovrebbero consentire di lasciarsi circondare dall’esercito in determinate aree, e lì avverrebbero trattative internazionali per la liberazione dei sequestrati.
Si ricordi che Uribe ha dovuto accettare le dimissioni di diversi ministri, accusati dai tribunali di connivenza con i paramilitari.
Le FARC – nate negli anni Cinquanta come gruppo armato liberale – sono una formazione guerrigliera quasi fuori dal tempo, con codici di comportamento spietati e prassi contrarie ai diritti umani, quali i sequestri di ostaggi prolungati per anni. Spesso, nelle zone che controllano, hanno addirittura combattuto movimenti di riscatto sociale, sindacali, civici e contadini, contrari al loro dogma.
Tuttavia una spiegazione alla loro chiusura esiste. Quando le FARC scelsero di partecipare alla vita politica con il nome di Unione Patriottica, 3000 dei loro militanti, usciti dalla clandestinità per partecipare alle elezioni e nominati a cariche pubbliche, furono assassinati.
Le FARC tornarono dunque nella selva, prima di fare la fine di un altro gruppo guerrigliero – l’M19 – convertitosi alla legalità e subito fatto oggetto di un massacro sistematico. Sono pochissimi gli ex militanti dell’M19 ancora in vita.
Ciò ha reso le FARC sicuramente “cattive” e sgradevoli, però, forse, il “terrorismo” non è tutto dalla loro parte.
Per conoscere le FARC dall’interno, è utile vedere il lungo documentario di Frank Piasecki Poulsen, un regista del collettivo di Lars Von Trier, La guerrillera – Guerrilla Girl. Storia di una ragazza colombiana che, finita all’università nelle liste nere per le sue idee di sinistra, decide di raggiungere le FARC. Il documentario è reperibile su YouTube suddiviso in sette parti. La prima è qui; di lì è facile trovare le altre.
Su YouTube manca però la settima parte, censurata forse perché, in chiusura, mostrava combattimenti reali. La si trova qua e in vari altri siti.
L’altro movimento di guerriglia colombiano è l’ELN, Esercito di Liberazione Nazionale, fondato dal sacerdote cattolico Camilo Torres. Più flessibile delle FARC, ha intavolato in Cuba trattative di pace con il governo della Colombia, attualmente in fase di stallo. Un video sull’ELN puramente propagandistico, però efficace, è qui.
Solo la paranoia statunitense e il servilismo europeo possono fare classificare le FARC e l’ELN come terroristi del tipo di Al Qaeda. Si tratta di reazioni a una situazione sociale intollerabile, a volte – anzi, spesso – sanguinose e crudeli, ma di cui andrebbero individuate origini e motivazioni. Sempre che si voglia arrivare davvero a una composizione del conflitto.]