di Lucio Angelini

[In realtà, questa “fiaba sui simboli di una fiaba” di Lucio Angelini sarà suddivisa in tre parti. La quarta sarà rappresentata da una postfazione al racconto-saggio di Angelini scritta da Tiziano Scarpa.]

SilviaMenuzzi2.jpgUna volta c’era l’abitudine di iniziare le fiabe con la formula “C’era una volta”. A dire il vero l’usanza resiste ancora oggi, ma un po’ perché sono fatto a modo mio, un po’ perché sono convinto che, di tanto in tanto, introdurre un cambiamento nei cliché narrativi non guasti, vorrei iniziare la mia fiaba invertendo i due termini: “Una volta c’era”.
Ebbene, amici lettori, dovete sapere che UNA VOLTA C’ERA un principe poverissimo. “Ma come?”, obietterete subito voi. “Se era poverissimo che razza di principe era?”

Il fatto è, tesorucci, che un conto sono i titoli nobiliari, un conto i patrimoni. I titoli nobiliari, infatti, tendono a restare sempre uguali a se stessi. I patrimoni, invece, ad assecondare le cosiddette “alterne vicende” (l’andamento di certe guerre, l’esito di certi investimenti eccetera), contraendosi, espandendosi o tracollando di conseguenza. Vi basti sapere, in ogni caso, che il nostro principino conduceva una vita tutt’altro che principinesca. Non solo era poverissimo e abitava in un’autentica catapecchia, anziché nel solito stucchevole, meraviglioso castello, ma era anche piuttosto bruttarello, discretamente traccagnotto e non poco stortignaccolo. Ciò nonostante, a volte desiderava che sua madre lo ammirasse come il più grande degli eroi e che suo padre, invece, potesse semplicemente scomparire. Ma era un’idea che gli ingenerava ansia perché… che cosa sarebbe stato della sua famiglia senza la figura del padre? (Spettava al padre, infatti, nelle sue fanciullesche aspettative, prendersene cura.) E che cosa sarebbe stato di lui, soprattutto, se suo padre avesse scoperto che ne desiderava segretamente l’eliminazione? Come minimo, avrebbe potuto perpetrare una qualche tremenda vendetta… ed era forse proprio per questo che al nostro principino, gran divoratore di fiabe, ne piaceva in particolare una in cui una donna, debitamente avvenente e desiderabile, era tenuta prigioniera da un drago malvagio. Nella sua interpretazione, infatti, tale donna meravigliosa (che gli ricordava, evidentemente, sua madre) non coabitava di sua libera volontà con una figura maschile tanto malvagia (che gli ricordava, evidentemente, suo padre). Se avesse potuto, anzi, avrebbe preferito di gran lunga stare con un giovane eroe innocente come lui.
Fosse come fosse, nel drago (o gigante o mostro o altro) il nostro principino tendeva a proiettare le proprie ansie irrisolte, per godere alla fine come un matto nel vederlo ucciso. “Voi bambini”, gli aveva rivelato un giorno sua nonna, a cui era spuntata una tardiva (anche se giovanilmente divorante) passione per la psicanalisi, “avete un estremo bisogno di nutrirvi di immagini simboliche, che sappiano tranquillizzarvi e assicurarvi una felice soluzione dei vostri problemi. E non avete tutti i torti. Quando un genitore amorevole, per esempio, vi si presenta all’improvviso con pretese che a voi sembrano del tutto irragionevoli e minacciose, il mondo prima amico vi diventa di colpo un incubo irto di pericoli. Per fortuna, poi, vi basta ascoltare una fiaba che subito tornate a guardare con fiducia al futuro.”
“Perché le fiabe hanno questo potere, nonna?”, le aveva chiesto il principino.
“Proprio perché le fiabe, caro il mio discendente, prospettano efficaci soluzioni simboliche ai tumulti che avete dentro, senza tuttavia spaventarvi con riferimenti troppo vicini a voi nel tempo e nello spazio.”
“Alludi per caso alla formula ‘C’era una volta in un lontano paese’, nonna?”
“Sì, ma non per caso. Tua nonna, amore, non parla mai a caso, bensì a ragion veduta. Anche se una fiaba, dicevo, prende le mosse da una situazione realistica, poi in genere si sviluppa per vicende fantastiche che non hanno più nulla a che fare con persone e luoghi reali, ma alludono a condizioni essenzialmente mentali, ed è proprio grazie a questa indeterminatezza spazio-temporale che essa riesce ad assicurare l’auspicato effetto rasserenatorio.”
“In che senso, nonna?”
“Nel senso che, leggendo una fiaba, un bambino può proiettare tranquillamente la figura del padre in un personaggio malvagio (un drago, un gigante, e via dicendo) o la figura della madre in una strega o matrigna, o in quel che vuoi tu, senza sentirsene in colpa. Uccidere un drago o punire una strega cattiva sono eventi situati in epoche e terre talmente lontane che voi bambini, identificandovi nell’eroe che ristabilisce la giustizia, non avete bisogno di confonderle con la vostra particolare realtà. E il compito delle fiabe, ripeto, è appunto questo: tradurre in FORME comprensibili e liberatorie le vostre ansie INFORMI.”
“Quali ansie informi, nonna, di preciso?”
“Che ne so?… il vostro bisogno di essere amati, per dirne una; la paura di essere abbandonati, per dirne un’altra; e poi ancora la vostra angoscia di separazione, la paura di non essere considerati, i vostri tentativi di restare aggrappati ai genitori anche quando venga il momento di affrontare il mondo da soli, eccetera eccetera.”
“Non pensavo che dentro noi bambini ci fossero delle ansie tanto complicate, nonna!”
“Eppure dovresti sapere molto bene che il mestiere di bambino non è dei più facili.”
“In effetti… ”
“Nell’età in cui le fiabe sono maggiormente significative per voi, il vostro principale problema è appunto quello di mettere un po’ d’ordine nel gran caos della vostra mente, affinché possiate capirvi meglio.”
“Puoi essere più precisa, nonna?”
“Alludo al caos che vi deriva dal dover vivere in un marasma di sentimenti contraddittori, tra perfetti grovigli di amore e odio, desiderio e paura, obbedienza e ribellione. Mediante le sue immagini semplici e dirette e i suoi personaggi o totalmente buoni o totalmente cattivi, la fiaba vi aiuta a scindere ogni contraddizione in opposti, consentendovi così di operare una sorta di strutturazione bipolare del mondo. Capisci quello che voglio dire?”
“Sì, nonna. Che il male e il bene sono perfettamente divisi. I personaggi delle fiabe sono tutti o perfettamente buoni o perfettamente cattivi.”
“Infatti. Solo lentamente un bambino arriva ad accettare l’idea che la personalità umana possa contenere anche aspetti di natura dubbia. Non per niente si dice che un bambino conosca per ‘qualità intere’. A seconda dei momenti vede il mondo o come totalmente paradisiaco o come totalmente infernale, per cui adora proiettare nei personaggi negativi tutti quegli aspetti allarmanti che non riesce ad accettare come parti di sé.”
“E che però restano comunque dentro di lui, vero?”
“Certo, ma il processo gli permette di controllare le sue contraddizioni e di conservare, per esempio, una madre interiore dall’infinita bontà anche quando la madre vera non gli appaia più infinitamente buona. Così non resta distrutto dal giudicare cattiva sua madre. Le fiabe, insomma, sanno parlare direttamente al suo inconscio e sdrammatizzargli le tensioni più preoccupanti.”
“Inconscio, hai detto, nonna? Che roba è?”
“Una sorta di cassaforte della nostra mente in cui sono ammassati impulsi, angosce, desideri repressi, tracce di esperienze di cui non si è più consapevoli, ma che in qualche modo continuano a condizionare i nostri comportamenti.”
“E chi li ha rinchiusi là dentro, nonna?”
“Noi stessi, perché ci spaventavano o ci facevano sentire in colpa. Ma le fiabe, caro mio, offrono a voi bambini la possibilità di elaborare in modo fantastico le vostre segrete paure, facendovi apparire risolvibili i compiti che vi trovate costretti ad affrontare. Sarà capitato anche a te, immagino, di desiderare segretamente, che ne so?, di prevalere su un genitore! D’altronde, se ti venisse esplicitamente detto che potresti riuscirci, ciò ti ingenererebbe ansia.”
“E perché mai, nonna?”
“Perché, in tal caso, non potresti più sentirti adeguatamente protetto da una persona così sprovveduta. Ma dal momento che il gigante in cui magari lo proietti è un personaggio fantastico, ecco che puoi tranquillamente immaginare di poterlo sconfiggere, senza per questo rinunciare a sentirti difeso dagli adulti.”
“Nonna, ma io non mi sento quasi mai protetto dai miei genitori. Il babbo è uno sbruffone che ci fa vivere in povertà, mentre secondo me dovrebbe sforzarsi di apparire un po’ più all’altezza del suo ruolo.”
“Sappi che la povertà e la ricchezza, piccolino, sono condizioni molto relative. La vera ricchezza è tutta interiore, credi a me.”
“In che senso, nonna?”
“Nel senso che chi ha imparato ad apprezzare la bellezza, la natura, i sentimenti veri… ”
“Sì, certo”, la interruppe il principino, “ma si è mai visto un principe che non possegga nemmeno uno straccio di mantello, né azzurro né di alcun altro colore, da buttarsi sulle spalle la domenica?”
“Sai perfettamente che i ragazzi di oggi vestono casual anche nei giorni festivi”, ridacchiò sua nonna.
“Non fosse che io sono il figlio del re, il principe ereditario!”, protestò il principino.
“E che cos’ha mai un principe ereditario di diverso dagli altri suoi coetanei? Non siete forse tutti quanti ugualmente insicuri e pieni di dubbi?”
“Riguardo a che cosa, nonna?”
“Riguardo a come dobbiate essere, o meglio, a COME CHI… dobbiate essere, A CHI vi convenga assomigliare in rapporto alle tre fondamentali posizioni umane, di padre, madre e figlio. Non c’è bambino, in altre parole, che, a un certo punto del proprio sviluppo, non cominci a domandarsi se debba continuare in eterno a fare il piccolo che è sempre stato, o non piuttosto sforzarsi di diventare come la sua mamma o come il suo papà. Naturalmente questo stato di confusione mentale gli scatena una tremenda battaglia interiore.”
“Quante battaglie, nonna!”
“Purtroppo. ‘Se davvero voglio svilupparmi’, vi dite a volte senza nemmeno rendervene conto, ‘un giorno o l’altro mi toccherà cercare di sottrarmi a questa maledetta esistenza triadica e lottare per diventare qualcosa di diverso dall’uno o dall’altro dei miei genitori, come dal puro e semplice figlio che sono stato fino a oggi, accudito e accontentato in tutto’. Ma perché questo diventi possibile, caro il mio piccolino, (e cerca di ficcartelo bene in testa!) dovete prima liberarvi del potere che i vostri genitori hanno su di voi, ma soprattutto (impresa assai più ardua!) del potere che voi stessi avete conferito loro a motivo della vostra ansia e del vostro bisogno di dipendenza. Solo così potrete finalmente diventare padroni del vostro destino!”
“Insomma è necessario che l’autorità dei nostri genitori, almeno per un po’, diminuisca, vero, nonna?”
“Certo, tesoro. Ogni figlio, per un certo tempo, deve poter vedere i propri genitori, fossero anche i migliori del mondo, come un patrigno e una matrigna frustranti ed esigentissimi, perché ciò costituisce una tappa inevitabile della sua evoluzione. Ecco perché, mentre per un bambino molto piccolo i genitori sono degli esseri onnipotenti, per il figlio adolescente non rappresentano più nulla finché egli non abbia conseguito la maturità (dopodiché i genitori buoni ricompaiono, eh eh, soppiantando definitivamente quelli cattivi).”

* * *

Era vero. Da un lato il principino sentiva di volere perfettamente bene ai suoi genitori, dall’altro gli capitava spesso anche di detestarli, con tutte le loro richieste, le loro manie, i loro tic, le loro meschinità. Provava anche lui, insomma, quei famosi “sentimenti ambivalenti” a cui sua nonna faceva continuamente riferimento e che gli ingeneravano i più disparati interrogativi: se i suoi genitori fossero davvero delle potenze benevole; se esistesse qualche altra potenza benevola oltre loro; se ci fosse qualche speranza per lui anche se a volte si comportava male; chi o che cosa lo proiettasse nelle avversità; chi o che cosa potesse impedire che gli capitassero dei guai; se potesse ottenere l’amore esclusivo e incondizionato prima dell’uno e poi anche dell’altro genitore; se vi fosse qualche possibilità di eliminare quell’intruso di suo fratello (nato per secondo, e subito divenuto oggetto di attenzioni decisamente esagerate, rispetto a quelle un tempo riservate a lui) e mille altre ancora.
Spesso, inoltre, il nostro principino sospettava che i suoi genitori (o almeno uno dei due) non fossero quelli veri, ma solo persone che millantavano di esserlo e allora si aspettava che un giorno o l’altro i genitori sostituiti potessero ricomparire ed elevarlo alla nobile condizione che gli competeva, per farlo vivere, alla fine, soddisfatto e felice.
Sua nonna, naturalmente, gli spiegava che tali fantasie erano solo salutari, in quanto gli permettevano di dare sfogo alla sua collera segreta senza per questo fargli avvertire alcun senso di colpa. E in effetti a lui piacevano un sacco le fiabe in cui un genitore vero era affiancato da un patrigno o da una matrigna…
“Sai che stanotte”, confidò un giorno a sua nonna, “ho sognato che il babbo era morto?”
“Naturalmente l’hai fatto morire tu” sbadigliò la vecchia. “Almeno in sogno. Ma non preoccuparti, sono le classiche fantasie edipiche.”
“Edipiche?”, si stupì il principe. “E che significa?”
“ ‘Edipico’, tesoro, non è un termine difficile: viene da Edipo, il protagonista di un mito greco.”
“E che cosa fa di tanto interessante questo Edipo nel mito greco?”
“Diventa re uccidendo suo padre e sposando sua madre, la quale, ahilei!, si uccide.”
“Accidenti, che destino!”
“Purtroppo i protagonisti dei miti non hanno scelta: per quanto cerchino di sottrarsi al proprio destino, restano comunque condannati a subirlo fino in fondo. Il destino, nei miti, prevale su tutto. Nelle fiabe, invece, le difficoltà edipiche vengono integrate in processi di sviluppo. Come dire che se nel mito greco Edipo finisce per sposare sua madre (una donna molto più vecchia di lui), gli eroi delle fiabe trasferiscono in un partner non edipico, ovvero della loro stessa età, il loro primitivo attaccamento a un genitore. E voi bambini avete maledettamente bisogno di sapere che il destino NON è qualcosa di ineluttabile, bensì di plasmabile. Ecco perché le fiabe vi si confanno a meraviglia. Il loro messaggio di fondo, infatti, è che una lotta coraggiosa e tenace consente la conquista di una vita migliore.”
“Vuoi dire che non c’è niente di male a sognare di uccidere il proprio padre o di sposare la propria madre?”
“Non nella ‘fase edipica’. E non c’è bambino che non l’attraversi. Si chiama, appunto, ‘complesso di Edipo’ il vostro normale desiderio di sbarazzarvi di uno dei due genitori per avere l’altro in modo esclusivo, con conseguente senso di colpa e timore di mutilazione.”
“E come fa un bambino ad accorgersi di stare vivendo la fase edipica?”
“Non se ne accorge. È una sorta di battaglia che si svolge dentro di lui a sua insaputa, anche se lo fa star male. Tutto quello che avverte è una duplice sensazione: da un lato quella di essere stato spodestato dal genitore del suo stesso sesso nell’affetto dell’altro genitore, mentre quest’ultimo avrebbe preferito di gran lunga lui come partner matrimoniale, dall’altro il timore che l’usurpatore, ancora molto potente, possa intuire i suoi pensieri e perpetrare una terribile vendetta.”
“Insomma la sensazione di non saper bene che pesci pigliare.”
“Appunto. E il complesso di Edipo, mio caro, non è un problema di poco conto, ma il problema CENTRALE di tutta l’infanzia, a meno che un bambino non rimanga fissato a uno stadio ancora più remoto.”
“E le bambine? Sognano anch’esse di sposare la propria madre?”
“Le bambine, naturalmente, sognano di diventare le compagne esclusive del loro papà, soppiantando la mamma.”
“E come si fa a uscire indenni dalle difficoltà edipiche, nonna?”
“Stringendo una forte e attiva alleanza con il genitore del proprio sesso, in modo che, mediante l’identificazione e l’apprendimento cosciente da lui, si possa maturare regolarmente fino all’età adulta. Le fiabe insegnano che usurpare il posto di una persona solo perché lo si desidera intensamente comporta regolarmente la distruzione dell’usurpatore. Meglio accettare il proprio posto di figlio che intestardirsi a pretendere quello di genitore, per desiderabile che la sostituzione possa apparire. Ma la lezione resta valida anche per tutte le altre fasi della vita: l’unico modo per entrare in possesso di ciò che ci spetta è cercare di conseguirlo mediante il nostro operato.”
“Quante complicazioni, nonna!”, sospirò il principino, allontanandosi pensieroso.

* * *

Nelle fiabe, gli aveva detto sua nonna, un bambino proietta in personaggi distinti gli aspetti contrastanti di un suo stesso genitore: quello scettico (che lo sottovaluta) e quello che lo incoraggia (e prevale). Ed era vero che i suoi genitori gli apparivano molto diversi a seconda dei momenti. Quando non riusciva a far bene una certa operazione, per esempio, suo padre poteva dirgli: “Sei proprio un buono a nulla!”, o: “Non combinerai mai niente di buono nella vita!”. E allora lui sentiva di detestarlo. Altre volte, invece, si complimentava con lui: “Bravo il mio ometto!”, gli diceva. “Sei quasi intelligente come il tuo papà!”. E allora lui sentiva di volergli profondamente bene.
Un giorno, mentre sua madre allattava il fratellino di pochi mesi, il principe sentì di detestarlo al punto da volerlo quasi uccidere.
Corse impaurito dalla nonna, che stava leggendo “L’interpretazione dei sogni”, e gemette:
“Ahi, nonna, come si stava bene in braccio alla mamma, un tempo! Che sicurezza! Che tepore!”.
“Hai ragione”, ammise la vecchia, togliendosi gli occhiali. “La prima esperienza conscia di una persona è proprio l’assunzione di cibo. Per i bambini la madre che avviluppa l’infante fra le braccia rappresenta la fonte di ogni cibo, con cui vivere in una specie di simbiosi. E quale bambino non desidera un’esistenza completamente simbiotica con la madre?”
“Quale, nonna?”
“Nessuno. Per un bambino il seno della madre, all’inizio, è tutto. ‘In principio erat mamma’, potremmo dire alla latina.”
“Nel senso che di mamma ce n’è una sola?”
“No, sciocchino, che cos’hai capito? In latino ‘mamma’ significa ‘mammella’. E di mammelle, se mi permetti, noi donne ne abbiamo due. Comunque hai ragione: il seno della madre, all’inizio, è tutto quello che un bambino chiede alla vita e si aspetta di ricevere. Solo che… ”
“Solo che?”
“Solo che, nel momento in cui ha fame e viene allattato, può vivere questa esperienza in modi diversi, nella sua fantasia.”
“Per esempio?”
“Per esempio, se il seno gli viene offerto prontamente, è probabile che egli si figuri di assumere in sé, ovvero di introiettare psichicamente, un seno-oggetto buono, avvertendo di conseguenza anche se stesso come buono. E poiché questo gli dà sicurezza, non può che influenzare positivamente i successivi rapporti con l’oggetto. Se il seno, invece, gli viene offerto con ritardo, lasciandolo a lungo affamato, è probabile che si senta indotto a mobilitare impulsi aggressivi, a fantasticare un seno-oggetto cattivo e ad avvertire anche se stesso come cattivo.”
“Be’, ma allora le madri dovrebbero stare molto attente a non far aspettare un bambino, quando ha fame.”
“Sicuro! Il rapporto con il mondo comincia e si sviluppa proprio all’insegna delle fantasie inconsce che caratterizzano l’attività psichica in quella fase. Solo più tardi arriva il momento dello svezzamento.”
“Svezzamento?”
“Già. O divezzamento. Il passaggio da un’alimentazione esclusivamente lattea a una mista, come recitano i trattati di pediatria. Ma non spaventarti, lo svezzamento è solo il momento in cui la madre esercita il potere della privazione orale e pretende che il bambino impari ad arrangiarsi con ciò che il mondo esterno ha da offrirgli. La complicazione sta tutta nel fatto che per un bambino l’espulsione dal paradiso della prima infanzia (o ‘rinuncia alla dipendenza orale’) è accettabile soltanto se può guardare con realistica fiducia a ciò che il suo corpo e i suoi organi potranno fare per lui.”
“E dove prende questa fiducia, nonna?”
“Dagli incoraggiamenti che ha ricevuto e, perché no?, anche dalle fiabe. Un bambino, sconvolto dal fatto che la madre non lo serva più senza far domande, ma avanzi delle richieste, immagina che quando lo allattava e creava un mondo di beatitudine orale lo facesse solo per ingannarlo, un po’ come la strega di Hänsel e Gretel, per intenderci. Che lo allattasse per allettarlo, se mi consenti un gioco di parole.”
“Adoro quella fiaba, nonna!”
“Lo so bene. Mi è toccato raccontartela un sacco di volte! In Hänsel e Gretel, però, la casa di marzapane (una casa, attento!, che si può pappare) rappresenta a un tempo la regressione all’avidità orale e l’irresistibile tentazione di assecondarla. Ma se un bambino restasse perpetuamente immerso in un’esistenza basata sulle soddisfazioni più primitive, non potrebbe mai diventare un individuo autonomo. E così, a un certo punto, sua madre deve assolutamente smettere di allattarlo, se vuole favorirne lo sviluppo: come dire che i desideri incorporativi, se protratti eccessivamente a lungo e non sublimati, possono diventare terribilmente distruttivi.”
“Povero bambino!”
“Lo so, lo so. La speranza del bambino sarebbe quella di continuare a ‘ricevere’ in eterno, ma con l’aumento delle sue capacità i genitori devono sforzarsi di apparirgli sempre meno disposti a prodigarsi per lui, anche se questo ‘spossesso del regno della prima infanzia’ è la più grave delusione della sua giovane vita. Ecco perché, acquistando consapevolezza delle ‘limitazioni’ dei suoi genitori, il bambino tende a ricavare soddisfazioni a livello fantastico: fantasie oltre il presente, che gli rendano tollerabili le frustrazioni della realtà.”
“Credi che mi sia abbandonato anch’io a fantasie del genere, nonna?”
“Certo, tesoro. La fantasia accompagna in modo costante le nostre esperienze di realtà, interagendo assiduamente con esse.”
“Che buffa idea quella di mangiare una casa di marzapane, però!”
“Non fosse che, come ti ho detto, la casa di marzapane rappresenta la madre. E Hänsel e Gretel, non potendo mangiare la madre, devono accontentarsi di mangiarne la rappresentazione simbolica.”
“La strega della fiaba, però, vuole mangiare i bambini veri, i bambini in carne e ossa, e c’è una bella differenza, nonna, se permetti!”
“La differenza più importante sta nel fatto che il mangiare dei simboli, anziché la cosa reale, non comporta rischi. Interiorizzata, però, la necessità dell’azione intelligente e dell’industriosità (o capacità di ricavare qualcosa di buono anche dai materiali meno promettenti), i due bambini, come ricorderai, sono pronti a tornare a vivere felicemente con i loro genitori.”
“Ricordo anche, nonna, che Hänsel e Gretel portano in dono un ricco bottino di perle e di pietre preziose, quando tornano a casa.”
“A significare che se, come bambini dipendenti, erano stati un peso per i loro genitori, al loro ritorno, invece, ne diventano il sostegno. La morale della storia, insomma, è una sorta di monito contro la regressione.”
“Vuoi dire che bisogna trovare a tutti i costi la forza di dire addio all’infanzia, nonna?”
“Certo.”
“Ma quando termina questa benedetta infanzia, di preciso?”
“Quando la fiducia in un’inesauribile e magica riserva di nutrimento si dimostra, appunto, una fantasia lontana dalla realtà.”
“Come fai a sapere tutte queste cose difficili, tu?”
“Ho letto, ho studiato, ho osservato, ho riflettuto… Alla fine della fiaba, ti dicevo, Hänsel e Gretel riconoscono i pericoli del ritorno alla fase della dipendenza e della passività. Capiscono che, per sopravvivere, occorre sviluppare l’iniziativa e progettare l’azione, integrando il cosiddetto ‘principio di piacere’ con il ‘principio di realtà’.”
“Come sarebbe a dire, nonna?”
“Il ‘principio di piacere’ è la nostra tendenza a ottenere il soddisfacimento immediato dei nostri bisogni, senza alcuna preoccupazione per le conseguenze future. Il ‘principio di realtà’, invece, quello che ci porta a pazientare, ad accettare molte frustrazioni per ottenere ricompense veramente durevoli più avanti nel tempo. Ma se vogliamo conseguire l’integrazione della personalità, piccolino, dobbiamo prima imparare a disciplinare i nostri desideri istintivi. Ti basti sapere che, per aver agito in base al puro principio di piacere, Cappuccetto Rosso regredisce a una forma d’esistenza addirittura prenatale, quella in cui il grembo materno le aveva offerto sicurezza da tutti i pericoli. Così viene proiettata nella tenebra del bosco interiore (la pancia del lupo), ove si prepara ad accogliere una luce nuova, ovvero una migliore comprensione delle proprie esperienze emotive, unita alla percezione dei pericoli insiti nell’assecondare i desideri edipici.”
“Riassumendo, nonna, potremmo dire che le fiabe non sono affatto campate in aria, ma hanno molto a che fare con i nostri problemi reali, vero?”
“Verissimo. Sono, infatti, la traduzione in forme narrative dei vostri più importanti conflitti.”
“Però non sarebbe affatto brutto se la realtà fossero le fiabe e le fiabe la realtà…”
“Che vuoi dire?”
“Che, se così fosse, la vita reale sarebbe molto più semplice, no? Da una parte i buoni, dall’altra i cattivi, senza possibilità di equivoci. E con la vittoria dei Buoni sempre assicurata. Allora sì che varrebbe davvero la pena di vivere da buoni!”

(CONTINUA)