di Annalisa Melandri

ingrid-betancourt.jpgMeno male che Ingrid Betancourt è un po’ francese, meno male che è elegante e che è pure bella.
“Liberiamo il nostro cuore” come ci consiglia di fare Francesco Merlo sulle pagine de La Repubblica, e guardiamo il video di You Tube che la riprende nella selva, depressa, con il capo chino, smagrita e pallida, sorvegliata dai suoi carcerieri.
E’ quella che ognuno di noi, pur senza aver visto il video, ha immaginato fosse in tutti questi anni la condizione di Ingrid Betancourt, e quella degli altri prigionieri nelle mani dei guerriglieri.
Meno male che Ingrid invece, caro Merlo, da bella che era è diventata pallida ed emaciata, meno male che aveva le catene ai polsi, meno male che ha inviato una lettera struggente alla madre.
Meno male infine, che Ingrid Betancourt sia prigioniera delle FARC. Meno male che esista e sia viva, perchè solo questo dà una speranza di vita a tutti gli altri prigionieri.

Mi chiedo cosa ne sarebbe degli altri se per un fortunato evento fosse liberata solo lei.
Parliamoci chiaro, il mondo guarda alla Colombia perchè in Colombia in mezzo alla selva c’è Ingrid Betancourt, incatenata e sofferente. Il mondo guarda e ipocritamente si stupisce di trovarla trascurata e con lo sguardo spento, vestita solo di una “rozza tunica” come se nei tanti e lunghi giorni dell’oblio, in cui spesso la Colombia sprofonda nella sua condizione di “paese democratico moderno in lotta con un problema di terrorismo interno”, la Betancourt fosse in vacanza. Ogni tanto i riflettori si accendono su una barbarie che dura da mezzo secolo perpetrata sistematicamente contro un popolo che sopporta con dignità anche l’insopportabile. I riflettori si accendono e ci si ricorda degli ostaggi e diventa evidente l’incapacità del governo colombiano di trattare, mediare, salvare. Un governo accecato da logiche di potere per le quali trattare vuol dire essere sconfitti. Vuol dire riconoscere che nel paese c’è una forza antagonista che chiede, sicuramente con metodi sbagliati (ma probabilmente gli unici, vista la violenza istituzionale ben più cruenta), di essere riconosciuta come voce in capitolo in una storia che da sempre è la storia degli esclusi contro le oligarchie, dei contadini contro i latifondisti, degli indigeni contro le multinazionali che saccheggiano il territorio.
Il mondo guarda alla Colombia non perché è il paese dove muoiono ammazzati più sindacalisti che in qualsiasi altra parte del mondo, non perché è il paese dove fare il giornalista rappresenta il mestiere più rischioso o dove la presenza militare degli Stati Uniti (addestramento, armi e presenza umana) è pari a dieci volte quella di ogni altro paese latinoamericano. Il mondo guarda alla Colombia per la sorte di Ingrid Betancourt.
Perché ci sono i suoi figli che appaiono in televisione, perché c’è la madre che rilascia interviste a mezzo mondo, perchè c’è Sarkozy che riceve Chávez.
Perché c’è una sua lettera, manipolata ad arte come solo la propaganda governativa colombiana sa fare in questi casi, che ha scosso giustamente gli animi, ma che per mostrare “la gratuità della sofferenza inflitta a una donna” da “guerriglieri marxisti con le bombe esplosive nelle tasche e le bombe ideologiche nella testa”, come ricorda Merlo nel suo lungo quanto insulso articolo, è stata data alla stampa contro la volontà della famiglia che ha protestato definendo l’arbitrarietà del gesto una “violazione dell’intimità”. In questo caso riusciamo a comprendere appieno la gratuità della sofferenza inflitta a una madre.

La lettera.
Troppo facile iniziare a leggere e fermarsi a metà della lunga lettera. La prima parte è quella che racconta la vita pratica di Ingrid, le privazioni, i particolari crudeli di una prigionia ingiusta, l’amore per i figli, le speranze, i dettagli che hanno fatto sì che le parole di Ingrid Betancourt, accompagnate dalle immagini del video, generassero tanta indignazione toccando le corde più sensibili del nostro animo, ma anche quelle più impressionabili da quel gusto sottile e morboso che abbiamo per le tragedie altrui, così che sembra inaccettabile che alla Betancourt le FARC non permettano di avere un dizionario enciclopedico, ma non sorprende invece che nel cuore della foresta colombiana lei riesca a sentire tutti i giorni i messaggi della mamma e dei figli via radio.
La stessa morbosità che fa sì che si legga a metà la lettera e non si colgano invece passaggi ben più importanti, quasi tutti condensati nell’ ultima parte, quelli scritti da Ingrid Betancourt non madre, né figlia o moglie, ma donna politica, che lotta anche incatenata perchè la Colombia non sfugga all’occhio miope di tutto il mondo.
“Per un lungo periodo, siamo stati come i lebbrosi che rovinano la festa. Noi, i sequestrati non siamo un tema politicamente corretto. Suona meglio dire che bisogna affrontare con fermezza la guerriglia, anche se dovesse costare il sacrificio di vite umane”.
Un’accusa pesante al presidente Uribe, che si evince ancor di più nella versione originale della lettera, perchè questa, dopo aver subito la manipolazione della propaganda uribista, incorre in Italia anche in quella de La Repubblica (dove, sebbene in incipit si legga “questa è la lettera scritta come prova… etc etc, da nessuna parte specifica che non è la versione integrale).
Ebbene Ingrid in spagnolo scrive: “suena mejor decir que hay un ser fuerte frente a la guerrilla, aún si se sacrifican algunas vidas humanas. Ante eso el silencio” che suona molto diversamente da quel “bisogna affrontare con fermezza la guerriglia” come da traduzione di Antonella Cesarini per La Repubblica. Ingrid vuole proprio dire: c’è un uomo forte, un potere forte di fronte alla guerriglia, anche se si sacrificano alcune vite umane e di fronte a questo solo il silenzio. E’ una condanna esplicita alle soluzioni militaristiche di Uribe, forse un riferimento alla morte degli 11 deputati di qualche mese fa. Non nomina il nome di Uribe invano La Repubblica, preferisce tergiversare, anche con una traduzione.
Segue Ingrid scrivendo degli Stati Uniti, della “loro grandezza” e di Lincoln: “Cuando Lincoln defendió el derecho, a la vida, y a la libertad de los esclavos negros de América, también se enfrentò con muchas Floridas y Prateras. Muchos intereses económicos y políticos que consideraban eran superiores a la vida y a la libertad de un puñado de negros”. Il riferimento ai sequestrati, alla loro situazione e alle trattative per lo scambio umanitario è evidente, ma ha un curioso modo di proporre la traduzione La Repubblica: “Quando Lincoln ha difeso il diritto alla vita e alla libertà degli schiavi neri in America, egli ha anche affrontato molti interessi economici e politici considerati superiori alla vita e alla libertà di un pugno di neri”.
Florida y Praderas non sono spariti casualmente a mio avviso dalla traduzione di questo passaggio della lettera di Ingrid Betancourt.
Florida y Pradera rappresentano il NO di Uribe a ogni tentativo di iniziare un dialogo con le FARC, di fatto il NO alla smilitarizzazione di questi territori ha permesso che le trattative per lo scambio umanitario non venissero nemmeno iniziate. Come si poteva inserire una chiara accusa di Ingrid Betancourt a Uribe nel contesto di due pagine volte a mostrarla soltanto come bellissima nel suo dolore e depressa e affranta vittima della ferocia marxista delle FARC?
Ma Lincoln “ganó” scrive Ingrid, “vinse e rimase impresso nell’immaginario collettivo della nazione la priorità della vita dell’essere umano su qualsiasi altro interesse”. Lincoln non è Uribe però.
Tra i ringraziamenti che fa Ingrid Betancourt particolari parole di stima e affetto sono per Chávez e per Piedad Cordóba, per il loro “interessamento per una causa che è la nostra e che risalta così poco perchè il dolore degli altri, quando non fa parte delle statistiche, non interessa a nessuno”. Simbolico e carico forse di significato politico quel “Gracias Presidente” con il quale saluta Hugo Chávez.
Ovviamente dei passaggi su Chávez la Repubblica propone soltanto una banalissima riga, ovviamente la meno significativa: “A Piedad e a Chávez, tutto, tutto il mio affetto e la mia ammirazione. Le nostre vite sono lì, nel loro cuore, che so essere grande e generoso”.
Sono importanti anche le parole rivolte all’ex candidato presidenziale impegnato nelle trattative per un accordo umanitario Álvaro Leyva : “E’ stato vicino ad ottenere qualche risultato ma forze che stanno contro la libertà di questa manciata di dimenticati sono come un uragano che tutto vuole demolire. Non importa. La sua intelligenza, la sua nobiltà e la sua costanza, hanno fatto riflettere molti qui che più che della libertà di alcuni poveri pazzi condannati nella selva, si tratta di prendere coscienza di quello che significa la dignità dell’essere umano”.
Ancora una volta parole dure contro la politica, contro il governo, contro Uribe che rappresenta quei poteri che non vogliono la sua liberazione e quella degli altri e che, volendo cogliere un senso , di più ampio respiro nelle parole di Ingrid, sono quei poteri che calpestano la dignità del popolo colombiano.
Grande e bellissima Ingrid Betancourt, hai fatto sentire la tua voce di condanna anche da dove ti trovi, peccato che da pochi sia stata recepita.
E intanto la famiglia Betancourt protesta contro il governo colombiano per la lettera data contro la loro volontà alla stampa, ma soprattutto protesta per la cessazione delle mediazioni di Chávez, nelle capacità del quale, a livello mondiale, si riponevano grandi speranze,
“Se la sua mediazione fosse continuata, molto probabilmente entro la fine dell’anno o al massimo al principio del 2008 avremmo avuto i nostri cari liberi” dice il marito di Ingrid Betancourt, Juan Carlos Lecompte in una recentissima intervista rilasciata a El Clarín, e aggiunge: “ma il problema è Uribe, sono 5 anni e mezzo che dimostrano la mancanza di volontà politica per giungere a un accordo… Se è per Uribe, i prigionieri possono anche morire”.
Certo, Uribe non è Lincoln e lo dice anche la bellissima Ingrid Betancourt dalla selva.