di Franco Pezzini

CaptainKronos.jpg[Franco Pezzini, che ci auguriamo seguiti a collaborare con Carmilla, è autore di due splendidi libri che riguardano da vicino questo sito, indovinate perché: Cercando Carmilla. La leggenda della donna vampira, ed. Ananke, 2000; e Le vampire. Crimini e misfatti delle succhiasangue da Carmilla a Van Helsing, co-autrice Arianna Conti, ed. Castelvecchi, 2005.] (V.E.)

Che ogni mese un ricco flusso di horror approdi ai negozi di video è un fatto indiscutibile, e permette anche ai più distratti di sospettare quale peso simbolico assuma un tale linguaggio nell’immaginario d’occidente. Se poi non mancano pellicole di eccellente livello, anche le cosiddette “minori” richiedono caute virgolette a fronte di contenuti spesso degni di nota.

A volte poi un’uscita può recare vera emozione ai cultori: ed è questo il caso, per esempio, di Capitan Kronos cacciatore di vampiri diretto da Brian Clemens, tra le ultime (1974) e più sconosciute pellicole della leggendaria casa Hammer e che ora appare in Italia grazie alla Passworld. Ho parlato di pellicola sconosciuta, ma l’aggettivo richiede qualche precisazione: benché noto come titolo, Captain Kronos Vampire Hunter è un film in genere maltrattato dalle monografie, confinato negli interstizi tra paragrafi su altri migliori (o semplicemente meglio inquadrabili) e liquidato frettolosamente quasi nulla ne restasse da dire. E in effetti non figura tra le opere più brillanti della scuderia britannica: eppure merita la visione, anzitutto per la storia del genere. Certo non può vantare la presenza dei più noti mattatori della casa, anche se offre quella scintillante di Caroline Munro, icona del fantastico anni Settanta e volto noto anche al pubblico Hammer; ma proprio la relativa novità degli interpreti permette di collocare Captain Kronos in quel gruppo di pellicole-pilota girate o almeno programmate (il cosiddetto unfilmed Hammer, limbo fascinoso e inafferrabile che strappa rimpianti ai cultori) con cui si tentò originalmente d’innovare la produzione. Se infatti il tradizionalismo in filoni, ruoli, visi rappresentò un elemento di forza della “fabbrica dei mostri” — al punto che Peter Cushing ne avvicinava i film a certe scatole di cioccolatini dove sai di trovare questo o quel tipo, e così continui a comprarle — tuttavia la storia della Hammer è anche quella di una continua esplorazione delle possibilità del gotico, che condusse allo sviluppo del pantheon (o pandemonium) più articolato e miticamente ricco dell’intera storia del cinema horror. Così, proprio il tentativo di sfuggire alle pastoie della tradizionale vicenda di vampiri dovette indurre la produzione a spingersi oltre Twins of Evil (Le figlie di Dracula) nella direzione dell’horror in costume, lasciando però perdere le streghe e virando vagamente sul cappa e spada. Fu la crisi finanziaria a impedire che Captain Kronos “figliasse” un nuovo ciclo, ed è un peccato — tanto più che il film rappresenta l’unico tentativo su grande schermo di attingere (sia pure con libertà) a quelle storiche epopee di ammazzavampiri itineranti del XVIII secolo che a tutt’oggi costituirebbero un suggestivo terreno per sviluppi fantastici.
In ogni caso, nonostante i suoi limiti, il boccone è ghiotto: misteriosi incappucciati e furiosi duelli, fanciulle alla gogna da liberare, nobildonne anziane dal volto di maschera oppure giovani e sospette androgine, statue ingombranti di morti, mesmerizzazioni e fulminanti necrosi vampiriche. Lo sfondo geografico mantiene il fascino dei consueti Hammer, tra borghi funestati da lutti arcani, boschi e castelli di pervertiti aristocratici; e l’ex-capitano imperiale Kronos, belloccio e maschio ma senza eccessi ormonali, lo attraversa a cavallo in compagnia di un bizzarro esperto in carriola, combatte, amoreggia e riparte a cose fatte verso nuove avventure. La sceneggiatura, non trascinante, riesce però a tener desta l’attenzione con la sua originalità, tra vampiri che non succhiano il sangue ma la giovinezza, nuove tecniche per individuarli — seppellendo rospi morti che riprendono vita — oppure per distruggerli, scontri con spade benedette e rivelazioni (relativamente) impreviste. Senza togliere eccessive sorprese agli spettatori, basti dire che la vampira responsabile della mattanza proviene direttamente dalla famiglia Karnstein della nostra Carmilla…
Ma l’immagine del cacciatore — anzi, della cacciatrice — torna in altro horror fresco di distrubuzione. Molto diverso: e non solo per provenienza (americana), datazione (molto più recente, del 2005), ambientazione (contemporanea) e dignità di “culto” (impossibile il confronto con un film Hammer). Proposto in Italia da Jubal e Millennium Storm, Headhunter di Paul Tarantino non pretende di vantare un’elevata qualità cinematografica, ma risulta divertente, veloce e — ciò che qui interessa — sedimenta motivi forti di mitologia contemporanea.
Il protagonista Ben si è affidato faustianamente alla bella “cacciatrice di teste” Sarah per trovare un nuovo impiego, e finisce a lavorare nottetempo in un palazzo di uffici deserti; e lo spettatore che ancora rimugina sulla scena iniziale — in cui un ignoto bruto decapitava la partner incinta con un’accetta — scopre presto che il thriller lascia posto alla ghost story. Dove l’onesto genere e il sottotesto ironico della sceneggiatura nulla tolgono a un sapore d’inquietudine: il tipo (sempre lo stesso) che in ascensore offre le spalle a Ben senza mostrare il volto, l’assurdo comportamento della fotocopiatrice, le apparizioni di colleghi in realtà inafferrabili guardano in fondo alla risacca onirica di chiunque di noi e ci sono troppo vicini perché possiamo perdere il piacere di un brivido concordato. L’aria desolata di quei corridoi e uffici nella notte (sempre gli stessi, causa budget esiguo) forse richiamano la sera in cui siamo usciti tardi e non tutte le luci erano accese, e ci siamo soffermati a ricordare colleghi scomparsi o frustrazioni limacciose, magari aggressive, rimaste a impregnare gli scaffali. Ma — colpo di scena — dopo che i fantasmi si sono manifestati il film cambia ancora sottogenere, virando sul satanico con tanto di ricerca di una talismanica testa mozza (bruttissima) e nascita di una specie d’anticristo (ancora più brutto): una macedonia che per frenesia di assemblaggio ricorda quasi i vecchi all monsters e strizza l’occhio allo spettatore anche attraverso la qualità casereccia degli effetti speciali.
Eppure il teatro — perché è tale, nell’essenzialità delle scene — risulta meno candido di quanto sembri. La bella cacciatrice di teste è in fondo l’ultima evoluzione delle antiche Giuditta e Salomè, eroine del sadismo per secoli d’immaginario sessista: e nell’icona della decollata-decollatrice Sarah, la figura del maschio-vittima scherma e in qualche modo “giustifica” fantasie speculari sulla decapitazione di Medusa e di ogni femminile allarmante. Non a caso, nelle ultime scene, Ben-Perseo si confronta con ben due donne-mostro decapitate, già entrambe sue amanti — ed entrambe inquietantemente incinte, come nelle antiche storie sulla Dea madre di mostri.
E tuttavia c’è una novità: lo sfondo esemplare dell’apologo non è più l’epos o la storia religiosa ma il mondo del lavoro. Lì si muovono prigionieri come spettri incarogniti coloro che non hanno saputo superare la prova della Guardiana della Soglia; e i loro ammonimenti a Ben risultano non solo rabbiosi ma incompleti, visto che non lo avvisano delle conseguenze apocalittiche che recherà il ritrovamento della testa perduta. Il mondo del lavoro appare insomma come nuovo regno dei morti dove il protagonista deve scendere (o, salire in ascensore, fa lo stesso), ma senza alcun ramo d’oro per difendersi; come terra estrema, dei mostri, dove l’eroe deve compiere la sua impresa-obbligazione contrattuale, ma con conseguenze del tutto impreviste. E se l’assunzione è un patto demoniaco, la vita in ufficio una convivenza con fantasmi astiosi, e l’espletamento della mansione affidata salva la testa ma attira guai non meno gravi — e prepara l’avvento del Male — l’ironia non può che svelare un retrogusto amaro.
Sarebbe ovviamente eccessivo presumere da una fantasia come questa qualche messaggio troppo profondo, o dimenticare che la realtà dei “cacciatori di teste” di un mondo del lavoro dinamico e aggressivo come quello USA è abbastanza distante dalla nostra; come sarebbe assurdo assumere la favola nera quale chiave interpretativa di tutto il mondo del lavoro. Ma quei fantasmi nel palazzo deserto richiamano, è inevitabile notarlo, certe anime morte di derive d’azienda che abbiamo conosciuto — gente che ha visto smontare il proprio lavoro per idiozia o malafede dei vertici, vittime di mobbing o feroci ristrutturazioni, lavoratori che hanno perso l’identità (come “l’uomo”, il fantasma senza nome che parla a Ben) e altri reduci dell’orrore aziendale. E l’emersione di film beffardi come Headhunter o il più recente (2006) Severance – Tagli al personale di Christopher Smith suscita almeno qualche riflessione su un disagio e relative strategie di resistenza — non ultima quella del linguaggio fantastico. A nome di Sarah, insomma, buon lavoro.