di Anarcoreta

africa4.jpg[Carmilla presenta un racconto in tre puntate che combina etnografia e narrativa. La narrativa sta diventando una tecnica molto efficace per riflettere in chiave antropologica sul potere, l’alterità, la disuguaglianza e le strategie di resistenza degli individui, da ogni lato del pianeta]. A.P.

Verso le sette della sera le nostre strade si separano. Siamo entrambi pronti per i saluti. Gideon chiede e ottiene soldi: Give me money to get a car. Lo osservo attraversare la strada. Ci si saluta rumorosamente; prima lui, poi io, gridiamo: Strength oh! Forza! Mi volto e guardo avanti, inizio a camminare verso il mio alloggio. Passa un taxi collettivo davanti a me. Gideon gli grida dietro per fermarlo, lo rincorre e mi sorpassa, il furgone si arresta. Un momento di sosta, Gideon confabula con chi c’è dentro – nascosto alla mia vista dalla sagoma del mezzo — e il minibus riparte mentre Gideon che non lo ha preso, ora sorridente, cammina in direzione opposta alla mia. Di nuovo a voce alta: Strength oh! E’ l’ultima volta che l’ho visto.


Ero partito per una capitale africana la mattina del giorno prima. Mi avevano pagato il viaggio per andare a presentare un mio studio ad una conferenza. Cadeva proprio in un momento buono, prima dell’inizio dell’autunno, dei corsi, del lavoro, del freddo. Avevo in programma di staccare dall’Italia e godermi quei giorni all’università e poi il mare africano – fatto di palme, spiaggia bianca e oceano – che era lì, proprio dietro l’angolo, a qualche ora utilizzando il trasporto locale. Le premesse erano quelle che ti farebbe dire, Chi può essere più fortunato? Eppure la pancia era stretta, bloccata: mandava inequivocabili segnali di tensione, che in diversi forse non avrebbero neanche colto o avrebbero classificato come un volgare mal di pancia, magari associandolo — con i soliti pregiudizi — al pranzo, mangiato alla mensa della casa dello studente, primo pasto in Africa. Quel pomeriggio, giorno prima della conferenza e momento in cui questo racconto inizia e si esaurisce, ruttavo in continuazione ma si sa che non sempre la causa del male è lì dove appare; la tensione – era evidente – stava nelle difficoltà che ormai avevo imparato ad individuare: nella preparazione di una presentazione orale che inquieta perché — anche qui erroneamente — spesso si deduce la serietà del lavoro di ricerca dalla qualità e dalla brillantezza dell’esposizione; e dal rapporto con i colleghi che sembrano mantenere standard di contegno, vestiario, cortesia, compostezza, profondità nelle discussioni a cui – a volte – faccio difficoltà ad adeguarmi.

Gideon l’avevo visto — in verità – per la prima volta la mattina camminando verso la sede dell’università e della conferenza. Era apparso nella forma di un saluto sorridente dall’altra parte della strada. Capello corto ma non cortissimo, di quelli che non lasciano apparire la lucidità della pelle cranica; non altissimo ma coriaceo; sorrisi continui, abbigliamento sportivo; giovane in una fascia che rimaneva però — allora – indeterminata. Trasmetteva — come tanti altri ragazzi – una voglia di conoscere lo straniero, il turista, il viaggiatore, una voglia che può concretizzarsi in qualche chiacchera, nello scambio di indirizzi o anche in una amicizia, magari non eterna ma che duri lo spazio della permanenza — quella del turista — perché Gideon lì ci abita. Mi racconta che aiuta gli studenti perché non ha — anche in questo non solo, anzi direi in ottima compagnia — i soldi per pagare le tasse dell’università e quindi sta lì e cerca di andare avanti con i lavoretti che gli capitano per le mani e per le tasche. Il pomeriggio quando il sole batte caldo — uscito con il portatile per stampare l’intervento che avrei presentato il giorno dopo — ci rincontriamo e scambiamo qualche altra parola: mentre mi chiede a quale chiesa sono devoto, lo prendo in disparte e gli domando se sa come procurarsi della marijuana che cercavo come compagna in questo viaggio. Non ci sono problemi, la vendeva anche lui ma ora non ne ha; devo stare rilassato; si trova tutto, relax your body. Ha paura che io abbia paura, in realtà – glielo dico – sono tranquillo, passo più tardi.

Ci rivediamo quando il sole è basso, nello stesso posto, sotto uno di quelli enormi dormitori per studenti che ricordano — come forma – quelli di stampo stalinista se non fosse che qui quasi non si vede la facciata di cemento per il traffico di persone, per la quantità di oggetti che sporgono da ogni dove e in particolare dai lunghi balconi a ringhiera esterni che percorrono ogni piano. Ci muoviamo lasciandoci alle spalle il palazzone, la strada, l’università. All’inizio non capisco bene: pensavo avesse il necessario appresso e si trattava di trovare un posto dove lo scambio tra soldi e maria potesse avvenire lontano da occhi indiscreti. Invece ci inoltriamo in una zona disabitata e senza strade, costellata da piccoli appezzamenti coltivati, alternati a boscaglia non altissima ma densa, con quest’ultima che — man mano che camminiamo sulla sabbia rossastra dei sentieri — si infittisce tra alti cespugli e alberelli. Non devo aver paura quando sono con lui, mi dice, stiamo andando al ghetto.

Tracciare il significato delle parole è già difficile quando si seguono solo le tracce ufficiali, quelle dei dizionari; se uno si intestardisce, poi, a volere ricostruire i percorsi informali si deve rassegnare al fatto che le parole in questo loro continuo — ma mai identico — manifestarsi assumono toni, significati, riferimenti, sfumature che sono semplicemente incontrollabili. Insomma, il ghetto di cui scrivo non ha case, non ci abitano ebrei — né la loro presenza appare in nessun modo significativa, anche se non si può affermare con certezza che non ce ne siano in assoluto perché esistono comunità ebraiche anche se poi si dovrebbe puntualizzare che la liturgia e anche alcuni dei precetti religiosi fondamentali degli ebrei di questa parte dell’Africa sono ben diversi da quelli riscontrabili in Palestina. La parola ghetto ha mantenuto, in questo viaggio tra bocche e orecchie che l’ha portata fino a lì, il riferimento alla reclusione; reclusione però che in questo ghetto è volontaria mentre nel ghetto – quello degli ebrei – era imposta così come: quest’ultima derivazione della parola nei quartieri urbani degli afroamericani mi appare la più probabile. Reclusione, eppure nel ghetto si entra e si esce liberamente, esiste un reticolo di sentieri che tagliano la vegetazione e collegano i punti di incontro. Questo è un ghetto di reclusione della libertà ed in particolare la libertà di comprare e consumare pubblicamente la maria e i suoi derivati. Sono i paradossi della segregazione: in questo caso — e in molte altre situazioni in cui c’è chi vieta, decreta e punisce — nascondersi diventa necessario per sfuggire alla repressione e praticare quindi la libertà. Seguendo Gideon nel labirinto di camminamenti, ad un tratto, in un angolo dove la macchia è più fitta, si arriva a uno spiazzo dove diversi percorsi convergono. Lì c’è un capannello di gente — precisiamo tutti uomini, se qualcuno avesse avuto qualche dubbio a riguardo – il cuore del ghetto.

Mi ricorda un bar che avevo frequentato, lontano dai clamori della capitale. Mi ci aveva portato un amico, anche in quella occasione alla ricerca di chi vendeva maria. Qui non c’erano – a differenza degli altri bar – le bevande con le bollicine, i cui profitti vanno in buona parte a dei ricchi occidentali; non c’erano le, pur apprezzate, bevande reclamizzate; non c’erano le bevande industriali locali e neanche la birra. A differenza degli altri bar, questo non aveva pretese estetiche: una baracca con quattro panche e un bancone dietro al quale erano allineate bottiglie di distillati locali, bevande dal forte impatto e dai prezzi contenuti. Questo lo si poteva apprezzare sia da un assaggio che osservando gli avventori, diversi dei quali erano in quella fase in cui l’alcol fa vacillare prima le barriere inibitorie nella conversazione, e poi le gambe. Questo bar, come il ghetto, era frequentato dagli emarginati, da chi ha passioni che la società non approva e che stigmatizza in un caso — e mi riferisco alla maria — rendendola illegale e nell’altro — il bar — con il pettegolezzo e la diffamazione del posto e dei suoi clienti, senza farsi tante domande sul perché e il per come c’è questo bisogno di evadere dal quotidiano, anche se pensandoci appena un pochino o conoscendo anche superficialmente gli avventori dell’uno o dell’altro posto, qualche ipotesi plausibile riusciremo a formularla. Ma non sono cose che ha senso stare qui a raccontare. Chi c’è stato, ha visto e sentito; chi non ha avuto la voglia – o forse il coraggio – di fermarsi nei posti di cui si sta parlando, almeno qualche volta nella vita, non ha neanche cominciato a conoscere le persone che li frequentano, e non sono cose che può riferire un terzo senza trasformare vite in parole pietose, e c’è — a volte – tutta la differenza del mondo tra l’esperienza e la sua rappresentazione. Insomma si rischia di non rendere un buon servizio agli uni — a quelli le cui vite si raccontano, che magari non ci si riconoscerebbero (ammesso che avessero le competenze e l’occasione di leggere o di sentire leggere ciò che è scritto in una lingua a loro comprensibile) — e agli altri – che leggerebbero quelle vite senza avere le necessarie e indispensabili conoscenze del contesto, delle cause e dei percorsi che portano le persone a fare le scelte che fanno.

Non che sia un frequentatore abituale di questi posti. Ci sono rischi di complicazioni. Complicazioni con la polizia e complicazioni per la messa a rischio della propria reputazione, e quella dell’antropologo sembra che debba rimanere sufficientemente pulita per poter andare dalla parrucchiera come dall’impiegato, dall’elettricista come dal capovillaggio, dal meccanico come dalla commerciante, dalla panettiera come dal contadino senza che immediatamente venga in testa a chi ha davanti, “Ah, questo è il bianco che frequenta gli ubriaconi e i drogati!”. Eppure in questi posti c’è un’umanità che meriterebbe, anch’essa, di essere raccontata. Ho trovato — sia nel bar che, come vedremo, nel ghetto – persone che — proprio perché lì giocavano inequivocabilmente a casa loro mentre io ero ospite — persone che, dicevo, riuscivano a superare le barriere abitualmente poste nella relazione tra il bianco – a cui si deve comunque dire di sì ed essere gentili – e il nero senza arte né parte che deve obbedire e, se qualcosa non gli torna, lo tenesse per sé. In questi posti — quando la gente è alterata — lo status non conta, le relazioni si giocano per quelle che sono e per come si riesce a portarle avanti. Vengono meno le barriere protettive, viene meno quella patina e quella corazza attaccata alla pelle del bianco, del ricco, del viaggiatore. E senza la patina protettiva ci si espone a ciò che gli avventori del bar e del ghetto — e molti altri — sentono ma spesso non dicono; ci si espone agli umori della gente, ai loro pensieri inespressi, alle loro richieste insistenti, a modi bruschi, a mani callose e aliti pesanti. Quanti antropologi, quanti viaggiatori rinunciano a frequentare luoghi e persone che mettono in discussione le loro barriere protettive e quanto questo influenza la nostra percezione di un paese, della gente?

(Fine della parte 1/3. Continua)