massimogardella.jpgdi Massimo Gardella

[E’ da poco uscita per Coniglio Editore, l’antologia frecciabr.gif Pronti per Einaudi (€ 14), una miscellanea di racconti di autori che non hanno mai pubblicato per la storica casa editrice torinese. Tra gli scrittori antologizzati, c’è Massimo Gardella, membro del gruppo pop Yellow Capra (un consiglio: ascoltateli) e autore che seguiamo da tempo su Carmilla , intravvedendone un luminoso futuro editoriale. MG ci concede il permesso di riprodurre il racconto pubblicato nell’antologia: del che lo ringraziamo. gg]

Il cartellone è alto tre metri e lungo il doppio. Si staglia con la sua cornice di metallo e chiazze di ruggine color tetano sul cielo di una bianchezza abbacinante, un’unica immensa cupola che abbraccia quasi due terzi del campo visivo. Non ho mai visto un cielo così fisico e dilatato, sembra che si estenda anche nello spazio matematicamente infinito. Grande come l’immagine votiva di un leader maximo, monito perenne ai passanti, un bimbo dai denti irregolari sorride dal cartellone, sotto di lui cubitale il memento NO SEX WITH CHILDREN.

Guardo a destra. Dalla casupola doganale di Poi Pet al confine tra Thailandia e Cambogia escono a mazzi gli altri membri del gruppo partito molte ore prima da Khaosan Road, Bangkok, su un pullman Mercedes istoriato sulle fiancate da demenziali decorazioni rubate alla Sirenetta versione Disney. Interni viola a drappi tipo funebre, aria condizionata a singhiozzo come il motore ma sedili accettabili. Mi passa accanto un giapponese con cui ho scambiato qualche parola durante la pausa di sosta con libagioni al wok nell’ex Siam del Risiko. Non parla molto bene inglese ma ride spesso. Viaggia da solo come me, beve birra con moderazione e fuma a catena tremende Marlboro verdi al mentolo. Dopo di lui sfila un irlandese che fa il giro del mondo; figlio unico, ha lavorato parecchio per mettere da parte il denaro necessario, si è licenziato, ha salutato gli amici e seppellito suo padre, il giorno dopo è salito sul primo aereo. Si chiama Brian. Ha realizzato il suo progetto di vita. Guardo a sinistra. Sotto il ponte di metallo che unisce i due Paesi scorre un fiume artificiale di monnezza. Una discarica all’aria aperta. Un gruppo di bambini gioca tra i rifiuti, uno dei più piccoli è seduto a cavalcioni di un cane macilento. Guardo il bambino che se na va in giro come un Don Chisciotte delle favelas arcionato al suo Ronzinante, un cane-zombie. Sollevo lo sguardo sul cartellone, qui il problema NO SEX WITH CHILDREN dev’essere serio, come le mine nelle risaie e in gran parte del territorio. Pare che in alcune zone della Cambogia i soccorsi umanitari utilizzino elefanti e serpenti come “guide”, perché in grado di trovare un percorso sicuro. In media si calcola che ancora oggi circa trenta persone al mese finiscano mutilate o dilaniate dalle mine mentre sono al lavoro nei campi. Oppure per il morso di un serpente. Chiedetelo a tre persone diverse e otterrete tre statistiche diverse, nessuna comunque confortante. Porto d’istinto una mano allo zaino per essere siouro di avere cone me l’attrezzatura, l’ho messa in fondo ben protetta. Il mio costume speciale. Aspetto che l’ultimo dei miei compagni di viaggio mi superi di qualche passo, accendo l’ennesima sigaretta e li seguo verso i soldati alla barriera cambogiana. C’è un’umidità che ti schiaccia, oltre al fatto che di norma ho una sudorazione accelerata. La mia t-shirt è zuppa, come se mi avessero gettato di peso in una piscina. Lo zaino pesa e questo caldo tattile lo rende ancora più grave. Pigio col pollice all’altezza del cuore sull’adesivo arancione che i cosiddetti tour operator hanno consegnato a ognuno di noi per distinguerci dagli altri gruppi, le mandrie dell’avventura a poco prezzo. Premo forte perché aderisca al tessuto. Davanti alla stazione di confine si è formata la fila. Mi sistemo sotto la tettoia di plastica ondulata blu semitrasparente con lo zaino tra i piedi e osservo la scena. Ci sono tre sportelli con altrettanti funzionari, impassibili stoici nello svolgimento delle loro mansioni. Un giovanotto thai col berretto da baseball e i modi spicci tiene d’occhio il gruppo, controlla la presenza dell’adesivo arancione e poi consegna a tutti il modulo di richiesta per entrare in Cambogia, da presentare ai funzionari insieme al passaporto e al visto d’ingresso. Due miei connazionali parlano della Juventus. Di fianco a loro tre ragazze dividono una penna a sfera e si dànno da fare sul modulo per compilarlo correttamente. Chiedo gentilmente se mi possono prestare la penna una volta finito. Sono cambogiane, studiano a Bangkok e stanno tornando a Seam Reap dalle famiglie, chi per vacanza e chi per aiutare in casa. Una di loro parla un inglese da CNN. Tocca a me. Il funzionario ha un’età indefinibile, capelli a spazzola e divisa senza pieghe aderente alla pelle come un rigor mortis. Non mi degna di uno sguardo. Mi chiede deciso di guardare verso una web-cam appiccicata con una ventosa al vetro dello sportello. Eseguo l’ordine e intanto gli passo il modulo con passaporto e visto nella fessura apposita. Trascorrono un paio di minuti. Il funzionario è una statua di gesso corrotta. Il mio visto d’ingresso l’ho comprato questa mattina a Bangkok dal tour operator, pagando 1200 baht. Ho consegnato il passaporto che mi è stato restituito di nascosto qui al confine, nella piazzola di sosta dei bus, passato sotto banco come una bustina di droga. Il funzionario imprime due timbri sul modulo e sul visto con gesti meccanici da catena di montaggio, TUMP! TUMP!, me li dà indietro senza dire una parola. Avanti il prossimo. Raccolgo lo zaino e m’incammino. Passo accanto a una teoria di cambogiani che uno dopo l’altro attendono di essere ammessi in patria, trainano a mano pesanti carretti ricolmi di noci di cocco d’un verde lucido e brillante. Qualche decina di metri più avanti una monumentale porta a tre archi con le fattezze della città sacra di Angkor Wat e il cartello KINGDOM OF CAMBODIA, senza welcome prima. Appena entrati nel regno l’asfalto diventa polveroso sterrato, ed è così che rimarrà durante tutta la mia permanenza. Il piazzale di accoglienza di Poi Pet sembra la Versilia anni ’50, tutti in motorino. Anche tre o quattro persone sistemate con un equilibrio e una precisione da fare invidia al Tetris e al cubo magico di Rubik. Il cielo si è aperto, è una lastra azzurra e vibrante di pigmenti naturali striata da qualche nuvola sottile dall’aria gentile. Un clacson vicino. È arrivato il minibus del gruppo. Credevo peggio, è abbastanza moderno. Il cambogiano che fa da contatto per il viadico, con noi fin dalla partenza, chiama tutti a raccolta e fa salire uno alla volta la comitiva spossata. Quando arrivo io mi tiene indietro con una mano e dice qualcosa nella sua lingua. Non capisco. Prima parlava inglese. Mi indica il petto. L’adesivo arancione si è staccato per l’umidità e il sudore. Cazzo. Gli altri, tutti occidentali, mi fissano come se fosse la prima volta che mi vedono. Dico al tizio che ho fatto il viaggio con loro, cristo, come fa a non riconoscermi? Niente da fare. Sono uno sconosciuto. Vuole altri soldi? La cambogiana che mi ha prestato la penna a sfera fa da interprete. Il tizio continua a scuotere la testa. Il minibus parte senza di me. Anche la cambogiana è rimasta a terra, dice che non devo preoccuparmi, è tutto a posto. Si avvicina a un giovanotto in motorino fermo a guardarci a pochi passi e fa un cenno con la testa nella mia direzione. Lui guarda. Forse gli sta dicendo: Questo coglione ce lo spenniamo fifty-fifty, portalo da qualche parte e dàgli una botta in testa, poi ci vediamo al solito posto. La ragazza torna e dice che il suo amico mi porterà alla stazione degli autobus. Ma non è questa? Domando. No, risponde, questa è di facciata. Anche gli altri sono andati lì. Scopro così che le linee nazionali costano troppo per la maggior parte dei tour operator che fanno affari con i backpackers, soprattutto quelli a cui mi sono consegnato anch’io, così si mettono d’accordo con trasportatori privati molto al di sotto del low-cost. Il suo amico batte una mano sul sellino dello scooter. Lo raggiungo, prendo posto e lui parte sgasando tipo scippo. Si lancia a razzo ma la sua guida è sorprendentemente gentile, evita con annoiata abitudine le buche e le pozzanghere disseminate lungo il percorso. Dopo qualche minuto ci fermiamo davanti a isole rettangolari e sottili pilastri cilindrici che sostengono una tettoia, tutto rigorosamente in cemento. Geometria elementare e pura. Quattro file di sedie di plastica rossa sono collocate nella sezione centrale delle piattaforme di attesa. Una decina di cambogiani, tutti uomini di mezza età in pantaloni di lino neri e camicia bianca a manica corta mi guarda sorridendo senza interrompere la conversazione. Di fianco alla struttura sono parcheggati tre catorci che devono risalire alla fine degli anni Sessanta. Vedo i miei compagni di viaggio sparpagliati nello spiazzo. Il cambogiano di prima mi guarda e dice: Climb up, climb up! facendo il mulinello del parcheggiatore con la mano. Vaffanculo. Il bus è un rottame che procede quasi per inerzia, mi ricorda il sommergibile rosa di Operazione Sottoveste. È già piena la barca di Caronte. Una coppia di bistecconi americani, lui pingue e ingombrante, lei dal dolce sguardo assente dei bovini, mi fissa spazientita. Trovo posto in fondo, ancora di fianco al giapponese. Mi saluta con aria amichevole inclinando leggermente la testa. Dietro di noi, sul mucchio di zaini dei viaggiatori, si è sdraiato un cambogiano mai visto prima che durante il percorso ha: dormito e russato sugli effetti personali dei passeggeri, palpato il giapponese, cercato di palpare me, rumoreggiato nel sonno un paio di volte, scroccato tre sigarette (due a me, una al jap), commentato a voce alta sul grosso seno di una belga assopita contro il finestrino cercando invano la nostra complicità, assistito alle due soste necessarie per sistemare qualcosa sotto il bus, aiutato a dirigere le manovre dell’autista per attraversare diversi ponti di legno molto instabili per evitare la strada alternativa segnalata dal cartello DANGER MINES! con teschio da pirata annesso. All’imbrunire ci fermiamo a cenare nel mezzo del niente, in una sorta di cascina nella vasta piana di risaie. La luce del sole si spegne diffondendosi come il riflesso di una candela sulla superficie levigata di un anello, dorata e calda, eppur morente. Il paesaggio è ombra. Quando gli occhi si abituano, prima di gettarmi nel bagno di neon dentro il locale e prendere un piatto di chicken noodles mi accorgo di alcune luci disseminate in quell’oceano nero: fasci azzurri che mi fanno venire in mente le spade laser di Guerre stellari, come se la Cambogia fosse il rifugio segreto e reale dei Cavalieri Jedi, un non-luogo della mente, un viaggio su Giove senza passare per lo spazio. Sono le luci nelle case dei contadini, isolate l’una dall’altra. Quando arriviamo a Seam Reap è notte fonda. Dopo ore di strada accidentata senza ammortizzatori e tenebre avvolgenti a perdita d’occhio le prime avvisaglie di civiltà, a parte le spade laser e qualche fuocherello sulla soglia delle capanne che di tanto in tanto appaiono dal nulla, sono le luci del modesto aeroporto e dei primi B&B e hotel. Alcuni sono sontuose e pacchiane riproduzioni bollywoodiane di architettura asiatica e Khmer, pseudo pagode, dragoni sinuosi e altrettanto ridicoli, superfici ricoperte da mosaici di minuscoli tasselli smaltati dai colori accesi, nella mente dei progettisti ciò che si aspetta un turista occidentale. Il bus non si ferma, qualcuno comincia a chiedersi dove ci stanno portando. Attraversiamo un incrocio da cui abbiamo il primo squarcio di Seam Reap by night, bancarelle e venditori di spiedini di tutti i tipi, anatre, polli, maiale, forse qualche cane, o è solo una specialità cinese? In Cambogia i ragni sono considerati una pietanza prelibata, ma non ne vedo infilzati a rosolare. Il bus si ferma in una strada anonima, semibuia e deserta. Scendiamo tutti, concluse le operazioni di scarico senza troppo clamore i tour operator risalgono e partono. All’improvviso si materializzano quattro ragazzini con relativi tuk-tuk: minicab a tre ruote su motoretta a propulsione gas, bombe ambulanti. Noto la presenza di un quinto tuk-tuk, isolato dagli altri e illuminato dalla luce di un lampione alla penombra di una fronda. Il driver se ne sta seduto in sella, mi accorgo del lumino rosso della sua sigaretta. Mentre i miei compagni di viaggio fanno a botte per reclamare la prelazione su uno qualunque dei minicab faccio qualche passo in direzione del tuk-tuk appartato, ben attento a non farmi notare troppo. L’uomo continua a spipazzare e non mostra alcuna reazione. Arrivo a un metro da lui e lo saluto, risponde con un cenno di assenso. È libero? M’informo. Annuisce ancora e si volta di tre quarti, toglie un telo di cerata verde dai sedili della vettura coperta e mi indica di salire. Monto in carrozza gettando lo zaino ai miei piedi e il tizio parte senza chiedermi niente. Gli domando se conosce qualche posto abbastanza cheap e tranquillo. Annuisce. Sento la stanchezza pompare nelle ossa, riempirmi come un secondo corpo. Si chiama Heng, pronunciato Hein con la “h” aspirata, o qualcosa di simile. Ha 46 anni, padre di sei figli. Vengo a sapere che per dieci dollari posso prenotarlo in esclusiva come driver per tre giorni. A me ne basta uno, quanto fa? Cinque dollari. Prima voglio vedere dove andiamo, se il posto mi piace l’affare è fatto. Annuisce. Insiste senza invadenza aggiungendo che conosce molto bene l’area archeologica di Angkor e che in tre giorni si può visitare la maggior parte del sito, anche se il suo suggerimento è prendere il pass da cinque giorni per i templi più nascosti nella giungla. Ci sono le mine? Annuisce. I cartelli segnalano i sentieri pericolosi e le risaie da bonificare, precisa per tranquillizzarmi. Mine nella giungla, tra le rovine di un’antica civiltà, dove la natura ha ripreso possesso della Storia umana e gli alberi abbracciano con i loro rami muscolosi la roccia di vestigia millenarie. Ci penserò, gli dico. Una decina di minuti più tardi Heng si ferma di fronte a un edificio avvolto nel verde di cui non è semplice riconoscere l’impianto. Un uomo esce dalla hall e mi viene incontro, Heng gesticola col pollice verso di me e parla. L’uomo mi sorride e torna dentro, lo seguo fino al banco della reception. Ha una camera singola con matrimoniale e bagno per otto dollari a notte, quanto desidero rimanere? Pago per tre notti avvisandolo che in caso decidessi di restare ancora lo avviserò con un giorno d’anticipo. È d’accordo. La stanza è nell’edificio dirimpetto al B&B, punta gli occhi al cielo e dice che sul loro terrazzino si servono i pasti, funge da bar e sala comune per gli ospiti, gli dispiace ma non fanno servizio lavanderia anche se — indica l’altro lato della strada — ce n’è una nei paraggi. Raccoglie la chiave da dietro il banco e l’appoggia sul legno scheggiato. Uscendo confermo a Heng la prenotazione per tre giorni, anche se me ne basta uno, mi chiede a che ora voglio partire l’indomani. Il suo consiglio è di muoversi presto. Alle nove? Annuisce. Appena entro nella stanza mi accerto della non-presenza di creature indesiderate, ragni e mostri striscianti, confortato dalla vista di piccoli gechi gialli sulle pareti. Buffi animaletti. In Thailandia ne ho visto uno grosso come un ratto di fogna. Gli esemplari più cresciuti emettono un verso particolare, prima una specie di gargarismo-sirena a intensità crescente, come le trottole meccaniche quando si caricano a chiave per variare la durata delle rotazioni, quindi rilasciano un richiamo che stranamente ha una carica empatica con lo stato d’animo tipicamente umano. Sono creature malinconiche i gechi. Il letto è di legno, materasso compreso, spazioso quel che basta. Il bagno è decoroso, senza acqua calda. Poche ore di sonno sudato, pensieri e immagini si affastellano senza senso apparente. Sono in un mercato popolare coperto, vedo in soggettiva ma è come se fosse una sequenza girata in pellicola, in qualche modo filtrata. Odori pungenti di spezie e cibi misti al cuoio dei ciabattini e alla puzza degle merci avariate o delle interiora di animali macellati in situ. Questa è la corsia del pesce. Nei catini sul pavimento si agitano agonizzanti anguille nere e lucide. Una vecchia sdentata è seduta per terra avvolta in un mantello anch’esso nero, i capelli bianchi le ricadono sulle spalle in modo disordinato. Parla, anzi blatera come se annunciasse una profezia, un mantra-macumba. Un’anguilla tenta e ottiene la fuga dal catino, la vecchia l’afferra decisa con una mano e con l’altra impugna un machete. L’anguilla si dibatte, si è formata una piccola pozza d’acqua sotto il suo ventre liscio. La vecchia abbassa con forza il machete e trancia in due l’anguilla che dalle convulsioni sembra avere sentito tutto. Il male assoluto. Cerco di contrastarlo con immagini rassicuranti per tornare coi piedi per terra e chiudere finalmente gli occhi. Li riapro al suono di una specie di mantra catatonico riprodotto da altoparlanti che gracchiano e fischiano. Un trapezio di luce attraversa la stanza incidendo sulla mia attrezzatura, il mio costume speciale, che prima di coricarmi ho prelevato dallo zaino e apposggiato sul tavolino di legno da rigattiere. Il mantra si alterna a canti collettivi, preghiere forse, e frenetiche melodie di archi orientali. Mi alzo, faccio la doccia e dispiego il costume speciale sul letto disfatto; prima indosso i pantaloncini di raso azzurro, dopo un secondo di riflessione piego di nuovo la canottiera e la ripongo nello zainetto, la infilerò dopo. Prendo a caso una maglietta pulita, metto i pantaloncini khaki, le scarpe, raccolgo lo zainetto, mi accerto di non avere dimenticato nulla ed esco accompagnato dal mantra. Guardo l’ora: nove in punto. Il tuk-tuk è parcheggiato all’ombra davanti al B&B. Heng mi vede e subito rimuove il telo di cerata verde. Appena salgo estrae una carta della zona archeologica, con precisi gesti della mano espone il suo programma di visita per i tre giorni, indicando sulla carta i templi più interesanti. Quelli nella giungla? Mi fissa. Spiega che per quelli aveva pensato all’ultimo giorno, sono due e per arrivarci in tuk-tuk al più lontano bisogna attraversare una zona di risaie, ci si mette più di un’ora e mezza. Scelgo di invertire i suoi piani. Voglio visitare il tempio più lontano per primo, se riuscirò a vederlo significa che rimarrò qui. Heng mi squadra in pensoso silenzio poi chiede altri tre dollari, non ho capito perché, forse perché ho alterato il suo programma. Gliene darò cinque, ma dobbiamo andare subito al tempio più lontano. Mi godo la brezza della corsa, lo sciame di scooter e l’anarchia al volante. Nei pochi secondi di una pausa semaforo ci fermiamo davanti a due bar affollatissimi da cui provengono urla e fischi; un cambogiano piuttosto in là con gli anni, dall’andatura malferma e occhiali da sole, gira tra gli astanti con un bastone appeso al braccio tenendo in mano mazzette di banconote, di tanto in tanto si ferma a raccogliere scommesse. Due schermi televisivi appesi al soffitto trasmettono un incontro di thai boxe, primo piano su un combattente pestato a sangue, il pubblico si divide in incitatori e detrattori, esplode un boato. Quando ripartiamo ci supera un gallonato in divisa blu alla guida di una specie di Scarabeo, ancorata alla maniglia destra del manubrio, stretta sotto le sue dita cicciose, penzola una candida oca morta. Guardo l’uomo in faccia, soffermandomi sul revolver che fa bella mostra di sé dalla fondina sulla cintola, assomiglia a Saddam in versione orientale, baffoni neri e occhiali a goccia con lenti oscurate. Ricambia lo sguardo senza battere ciglio. Seam Reap sfreccia tutto intorno a noi, panetterie con specialità francesi e banchi di cambio, chioschi e mercatini stradali. Mi assopisco cullato dal ritmo meccanico del tuk-tuk, i suoni si amplificano prima che chiuda gli occhi. Odore di tabacco in una stanza buia. Bianco improvviso. Heng mi guarda a trenta centimetri dal volto, tra le labbra una Alain Delon già a metà. Hey mistèr, dice una vocina. Una bambina in compagnia di un cane nero mi porge una bottiglia d’acqua gelata. Mi guardo in giro. È la piazzola di sosta davanti al tempio, da qui si vede spuntare solo una torre di pietra a pigna dalle cime degli alberi. Ci sono tavolacci di legno per il ristoro, fornelli a gas e tutto il necessario per cucinare. Un militare in uniforme verde oliva dorme su un’amaca, il mitra appoggiato all’albero, da una radio mono a transistor appesa sopra di lui proviene un pezzo rock surf in cambogiano. Hey mistèr, la bambina mi chiama quasi spingendomi contro la bottiglia di plastica. Uan dolàr, scandisce. Le allungo un dollaro e svito il tappo blu. Heng spalanca le braccia verso il tempio e ne dice il nome, non capisco. Faccio di sì con la testa mentre bevo. È il più lontano? Annuisce. E le mine? Punta il dito alle mie spalle. Mi volto. Dopo una trentina di metri la strada sbuca dalla giungla e diventa un rettilineo rialzato su una distesa sconfinata di verdi rigogliose risaie. Scendo dal tuk-tuk e raccolgo la zainetto. Heng si avvicina parlando più a bassa voce, conosce un tizio che per mille dollari ti fa lanciare una granata contro una mucca. Con cinquecento spari con l’AK-47. Scuoto la testa, non hai capito, rispondo. Gli dico di aspettarmi qui e di non allarmarsi se non mi vede tornare, significa che me la son fatta a piedi. Sono più di trenta chilometri, mi fa notare. Alzo le spalle, mi piace correre, rispondo. Annuisce. Cammino verso le risaie, la bambina e il cane nero mi seguono per qualche metro poi desistono e cercano altri turisti. Gli alberi terminano, davanti a me, a destra e sinistra, le risaie. Procedo per un centinaio di metri lungo lo sterrato, con gli occhi a terra per non calpestare qualcosa di vivo e potenzialmente ostile. Mi fermo al cartello DANGER MINES! lasciando cadere lo zainetto ai miei piedi. Sfilo i bermuda khaki, prendo dallo zaino la canottiera e la indosso dopo essermi tolto la t-shirt. Ora sono pronto nel mio costume speciale. Infilo nei pantaloncini di raso la canottiera bianca con il numero di gara 73, il mio anno di nascita, stampato a ferro su petto e schiena. Chiudo lo zainetto e lo rimetto in spalla, guardando fisso davanti a me. È così che ricordo la Cambogia, divisa in tre fasce orizzontali: in alto il cielo bianco-blu-nero che occupa metà dell’immagine, al centro il mare verde ondulato delle risaie e i radi colli che si stagliano all’orizzonte nella foschia, sparuti zuccotti sfumati, mentre in basso trionfano i rossi di terra sabbia e polvere. Guardo la risaia appoggiando una mano sul cartello DANGER MINES! Annuisco. Sospiro e mi lancio in avanti con uno scatto. Affondo il piede nell’acqua e lo sento sprofondare nella melma sottostante, che cede morbida. Sollevo l’altra gamba per il massimo equilibrio di slancio desiderando di lievitare a mezz’aria. Continuo a correre.