di Alessandro Morera

Diariodiunoscandalo.jpgIn periodo un nel quale sembra che la scuola in Italia sia completamente esplosa tra professoressine disegnate dai quotidiani come le figure del pecoreccio all’italiana anni ’70 e ragazzi precocemente cresciuti nel seguire le orme dei personaggi dello spettacolo televisivo e del gossip italiota, sarebbe appropriato andare al cinema per vedere un film come Notes on a scandale — Diario di uno scandalo del regista inglese Richard Eyre, già direttore del ‘Royal National Theatre’ dal 1988 al 1997: uno dei più bravi cineasti a mantenere sullo schermo la tensione attoriale tipica del teatro e nello stesso tempo capace di raccontare con efficace linearità dei bellissimi adattamenti letterari, infondendo alla struttura narrativa un crescendo drammatico tipico dell’arte cinematografica. Un regista praticamente sottovalutato in Italia (nonostante il suo esordio nella regia cinematografica risalga al 1983 con il bellissimo The Plughman’s lunch – L’ambizione di James Penfield).

Diario di uno scandalo, tratto dal romanzo di Zoe Heller La donna dello scandalo, mantiene l’impianto narrativo originale, quello cioè del racconto attraverso il diario di un’anziana insegnante conformista, Barbara. In realtà un’acida e subdola lesbica repressa, la quale incontra nella sua scuola una collega progressista, bella e affascinante, Sheba, sposata a un uomo più anziano di lei e madre di due figli di cui uno portatore di handicap. Barbara scoprirà una storia di sesso della giovane collega con un giovane allievo, per di più proveniente da una famiglia proletaria irlandese. Una scoperta che le servirà per iniziare a tessere la sua tela intorno alla bella collega, che verrà portata inconsapevolmente nel baratro della disperazione per la passione saffica repressa di Barbara.
Al di là della storia raccontata, il film trova i suoi punti di forza nella recitazione magistrale di Judy Dench e di Cate Blanchett, una recitazione cosi espressivamente forte da ricordare per l’appunto quella proveniente dal palcoscenico (solo l’Academy degli Oscar sarebbe riuscita a non dare almeno un Oscar a una delle due attrici del film, cosa inevitabilmente accaduta, seppur entrambe fossero candidate). Richard Eyre però è altrettanto efficace nel supportare le due prime attrici attraverso una regia sobria ed esplorativa dell’ambiente nel quale la vicenda si svolge: un’Inghilterra grigia e cupa, dove i conflitti tra conformismo e progresso, alta borghesia e proletariato, apparenza ed essenza sono sempre ben tangibili, seppur mai invadenti.
Lo stesso accade ai personaggi di contorno, ben caratterizzati psicologicamente, ma mai predominanti sulle due protagoniste assolute di questo racconto che ha le cadenza del thriller psicologico. Ottima sceneggiatura di Patrick Marber (a dispetto di quella inconcludente che realizzò per Closer di Mike Nichols), arricchita da una fotografia magistrale di Chris Menges (ma questa è una caratteristica, oltre che di uno dei migliori direttori della fotografia contemporanei, anche tipizzante tutta la New British Renaissance in auge dalla fine degli anni ’80) e accompagnata dalla splendida musica di Philipp Glass.