di Mauro Gervasini

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Due riflessioni sulle polemiche successive all’uscita del nuovo film di Mel Gibson, Apocalypto. La prima riguarda l’ipocrisia di chi ha invocato la censura. Come è stato fatto notare, una società che sciorina nei Tg di prima serata le fasi di un’impiccagione o mostra senza problemi uomini e donne che lavano ettolitri di sangue da strade martoriate da autobombe e kamikaze, dovrebbe solo tacere per pudore. Oltretutto la violenza del film di Gibson, senz’altro compiaciuta, è contestualizzata in un intreccio narrativo che impedisce di subirla passivamente. Lo strazio di un corpo distrattamente visto tra un bicchiere di vino e una forchettata di pasta davanti al piccolo schermo fa parte di un flusso di immagini alle quali è facile assuefarsi, mentre il sacrificio umano di un personaggio cinematografico nei confronti del quale è maturata una certa empatia costringe a elaborare anche la brutalità (della) messa in scena.

Questa è la differenza sostanziale tra la rappresentazione della violenza e la sua meccanica riproduzione, che ha sempre un che di osceno. La censura, insomma, è strumento anacronistico, ipocrita e sostanzialmente inutile. Che oltretutto costringe a fare ampio uso delle forbici, con grave danno per l’integrità delle opere.
Se un film viene vietato anche solo ai minori di 14 anni, infatti, gli è precluso il passaggio in Tv se non a tarda ora; per evitare questo gli stessi produttori o distributori tagliano le scene più forti, senza troppo preoccuparsi della loro effettiva importanza. Se un film ha il marchio di uno studio americano o di un grosso produttore, poi, i censori avranno un occhio di riguardo perché la pressione psicologica che subiscono è simile a quella degli arbitri nei confronti dei club calcistici di maggior peso.
Così a rimetterci sono i pesci piccoli e gli operatori indipendenti. Infine, caratteristica esclusiva della censura italiana è la sua pruriginosa attenzione ai contentui sessuali. Come dice Tinto Brass, nel nostro paese anche solo per un paio di tette in primo piano si rischia il divieto ai minori, mentre squartamenti o decapitazioni sono sempre classificati “per tutti”.

Seconda riflessione. Sostentere che la censura di Apocalypto sia inutile e ipocrita non significa difenderlo. L’opera è infatti piuttosto debole a partire dalle premesse. La decadenza della civiltà Maya è un pretesto sviluppato in una manciata di minuti, quando la storia è invece quella di un semplice “escape movie” di avventura con il protagonista, Zampa di Giaguaro, che per due ore fugge inseguito dai cattivi in scenari selvaggi.
Il cinema di Gibson è di forte impatto quindi assai efficace da un punto di vista spettacolare, ma è anche subdolo perché fa del metodo di messa in scena la propria ideologia. L’estetica del massacro, insistita e portata alle estreme conseguenze, è lo strumento di Gibson per inchiodare lo spettatore allo schermo e per costringerlo, emozionandosi, ad aderire totalmente al contenuto del film. Il martirio (di William Wallace, Gesù Cristo, e quello “invocato” di Zampa di Giaguaro) è un momento catartico prima di tutto per chi guarda; la consapevolezza di dove stiano il Bene e il Male (notare quanto nei suoi film non ci siano sfumature) arriva dopo una serie infinita di pugni nello stomaco e scene sconvolgenti che non possono non convincere della ineluttabilità delle conclusioni.
In Apocalypto una civiltà indigena, che definiremmo mitica per il sublime e ideale rapporto con la natura, viene minacciata da un’altra che venera falsi dèi e fa della crudeltà un sistema di valori. Si badi che questa comunità di malvagi ha caratteristiche sia premoderne (la barbarie primitiva) che postmoderne (il disprezzo per l’ambiente, il materialismo). Una terza civiltà, quella dei conquistadores bianchi, quindi moderna, subentra nel finale con motivazioni evidentemente salvifiche, in spregio a qualunque consolidata ricotruzione storica.
Questo è lo schema ideologico del film di Gibson, che si potrebbe anche vedere come una semplice avventura se appunto la sua insistita crudezza non ti costringesse a invocare l’”arrivano i nostri” per non giungere in agonia ai titoli di coda.