(considerazioni agitate di un sessantottino non pentito)

di Serge Quadruppani (trad. di Maruzza Loria)

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Nel marzo 2006, il movimento detto “anti CPE” (anti-contratto per il primo impiego, n.d.t.) ha sollevato una buona parte della gioventù francese, e dietro a essa, della popolazione, contro un progetto di legge che aggrava la precarietà dei giovani. Nei dintorni della Sorbona, in mezzo alla folla dei giovani e meno giovani che andavano e venivano a seconda delle cariche poliziesche, che discutevano e cantavano e gridavano e che stavano sviluppando quella tattica la cui efficacia si rivelerà nelle settimane successive, la tattica “a stormi di passeri“, mi ritornavano in testa alcune scene del film di Philippe Garrel Les amants réguliers. Mi dicevo allora che era questa la cifra del grande cinema: quando le immagini che si sono viste alcuni mesi prima, vi ritornano all’improvviso e mostrano la loro influenza sulla vita stessa.

Accanto a delle immagini di violenza alle quali gli organi di disinformazione sensazionalisti tipo CNN si sono consacrati in modo esclusivo, abbiamo visti, sentiti, letti i media del mondo intero rimasticare a sazietà, una volta di più, uno stereotipo tanto vero e appassionante quasi quanto le fantasie sulle ballerine del Moulin Rouge, quello dei “Francesi ridicolmente attaccati alla loro passata grandezza, ripiegati sulle loro piccole paure provinciali, sulla loro mentalità di funzionari e che rifiutano di adattarsi alla modernità e alla mondalizzazione”. In occasione del referendum sulla costituzione europea, questo discorso era stato spacciato dai media nazionali e dai loro esperti con una unanimità nord-coreana. Abbiamo visto il seguito.

Uno dei segni della crisi terminale nella quale è entrata la social-democrazia, dovunque sia esistita, è stato d’accettare e di riprendere per conto proprio un colpo di mano semantico della neolingua neoliberista. Questa capitolazione segna la rinuncia alla sua funzione storica che era d’imporre dei compromessi tra lavoro e capitale, conosciuti sotto il nome di “riforma”. Perché questo termine designa ormai, nel gergo dominante, le misure di regressione sociale e di distruzione dei diritti. Ciascuno sa che il diritto è sempre il risultato d’un rapporto di forza, un compromesso firmato tra passioni e interessi contraddittori. Riformare, significa ormai, mondialmente, strappare tutti i trattati di pace firmati dai salariati nel corso di 150 anni di lotte animate dalla classe operaia, per il semplice motivo che la classe operaia (ma non gli operai) è scomparsa. Riformare, significa trarre la morale da questa sparizione e rinviare ciascuno, lavoratore immateriale o operaio di fabbrica (ne esistono ancora), alla solitudine dell’individuo-impresa, in altre parole alla schiavitù della precarizzazione generalizzata. Adesso, dal 1995, con il grande sciopero dei trasporti che aveva fatto retrocedere il governo Juppé, i rappresentanti della modernità capitalista si lamentano che la Francia sia “irriformabile”.
Un giorno bisognerà proprio tentare di capire l’intoppo che inceppa l’ingranaggio nella società francese, e che si traduce in tali evidenti e reiterate resistenze alla ristrutturazione capitalista. Dalla scomparsa di Mitterrand, che manifestò una specie di genio nell’arte di conquistare il potere e mantenerlo, i politici francesi si disputano con i loro omologhi italiani il titolo di classe dirigente più mediocre d’Europa. Forse bisogna scorgervi una delle ragioni secondarie della particolarità francese: è mancata alla testa dello Stato una Thatcher che schiacciasse i movimenti popolari. Ma non possiamo fermarci qua. L’intoppo è davanti ai nostri occhi, non ha smesso d’essere presente nel diniego permanente degli opinionisti stipendiati così come dei responsabili sindacali, gli uni e gli altri accaniti ad arginare il fiume lungo il suo corso ripetendo a più non posso che “non era il Maggio 68”, “non eravamo nel 68”.
L’intoppo è che l’offensiva del Maggio 68, che ha sconvolto la vita di milioni di persone per parecchi mesi e che ha fatto loro credere che un altro mondo era possibile, questa offensiva perseguita almeno per parecchi anni sotto altre forme e su tutti i terreni, dalle fabbriche alle relazioni intime, non è stata schiacciata. Il ritorno alla normalità insieme al flusso di automobili di giugno non è stato seguito da una repressione, da un annientamento degli individui e dei legami sovversivi tessuti, e da una rimozione della memoria. Fenomeni che abbiamo visto all’opera, tra l’altro, in Inghilterra dopo la repressione dello sciopero dei minatori nel 1984 a opera di Margaret Thatcher, e in Italia dove l’oro della contestazione, della secessione di una larga parte della classe operaia e della gioventù, fu trasformata in piombo dal terrorismo e dall’anti-terrorismo. Prima dall’incongruenza del leninismo armato e in seguito e soprattutto dall’incarcerazione di una porzione importante di una generazione; dall’operazione catto-stalinista di fabbricazione del pentitismo, e dalla manomissione della sinistra istituzionale sulla memoria. Malgrado lo spettacolo deplorevole dato dalla riconversione dei capetti maoisti e trotskisti in consiglieri del principe capitalista, nessun fenomeno di questa ampiezza ha avuto luogo in Francia.
Bisognerà, un giorno o l’altro, spiegare un po’ di più questo dettaglio francese, ma per ora tratteniamoci sull’importanza del controllo della violenza, di un rapporto nuovo con essa. Certi autori hanno creduto di dimostrare la mancanza di serietà del 68 per l’esiguo numero di morti. Mi sembra al contrario che fu una delle particolarità più forti e nuove del movimento, mostrare che si poteva sovvertire il mondo senza necessariamente giocare alla guerra. Una forma di saper ribellarsi collettiva è nata nella ricognizione e nella padronanza di un aspetto essenziale di tutti i movimenti sociali: la loro teatralità. Le barricate del Quartiere Latino includevano una ruolo da mimo: non eravamo né nel 1848, né nel 1871 e gli insorti sapevano benissimo che, se rischiavano di essere caricati di botte, non sarebbero stati fucilati nelle fosse di Vincennes. E pure, nel fatto di ammucchiare dei selci e di tirarli sugli sbirri, c’era qualcosa di sovversivo che non aveva più nulla di militare. E’ proprio questa teatralità che Garrel fa vedere e sentire, ed è forse per questo che il suo film costituisce una delle migliori rappresentazioni dello spirito del 68.
Attraverso queste riconquiste della strada e dei luoghi occupati, necessariamente effimeri, si trattava non essenzialmente di distruggere (anche se la distruzione, in particolare delle vetrine dei negozi, faceva parte per forza del processo) ma di costruire un nuovo spazio dove la parola, l’incontro, il sogno e la creazione potevano liberarsi. Tra due cariche di celerini, si parla molto, ne Les amants réguliers. C’è tutta l’arte di Garrel d’aver saputo far sentire che questa parola era fatta “della materia stessa di cui sono fatti i sogni” (1). Tra l’oppio dei rampolli ricchi e certe resistenze delle corazze caratteriali alla libertà sessuale, il sogno per questi amanti diventa talvolta brutto ma ci mostra comunque la sua crudele necessità.
Oggi, nell’ora in cui dei fanatismi speculari (petrolieri-evangelici contro petrolieri-islamici) s’inventano, da Kabul a Mogadiscio passando per Bagdad e Gaza, tutte le condizioni per l’espansione sull’intero pianeta di un incubo senza fine, il pragmatismo, sebbene di sinistra, si rivela ogni giorno più inoperante nella sua adorazione del “reale”. Rimpiazzare il sogno, nella sua versione ragionata : l’utopia, al centro della politica, diventa ogni giorno più ragionevole, ogni giorno più necessario. E’ più che mai ora di ripartire dal 68.

(1) La magia del bianco e nero c’entra parecchio: proprio come nei ricordi televisivi dell’epoca, ancora poco colorati, le più belle immagini che ci sono giunte sfuggono all’artificio del “reale” inventato da coloranti chimici, questo “reale” oggi sovramoltiplicato dall’immagine digitale, e che non ha granché a vedere con la realtà vissuta.