murakami.jpgdi Stefania Viti

Figura, secondo il New
York Times
, tra i dieci libri
più belli del 2005. Umibe
no Kafuka
(Kafka sulla
spiaggia
), il romanzo di
Haruki Murakami che
uscirà per Einaudi nella
traduzione di Giorgio Amitrano, ha raggiunto
un traguardo raro per un giapponese.
Possibile, però, se parliamo di
Murakami. Da Tokyo Blues-Norwegian
Wood
, Feltrinelli, che vent’anni fa lo lanciò
sulla scena internazionale, a Tutti i
figli di Dio danzano
e Dance Dance
Dance
, Einaudi, scritto durante il soggiorno
in Italia, i suoi libri sono ormai
classici da milioni di copie in tutto il
mondo. Scrittore visionario e surreale,
amatissimo dai ragazzi, è accompagnato
dalla fama di uomo schivo, misterioso,
allergico a interviste e mondanità.
E lui appare dal nulla, nella piccola
stanza piena di libri nello studio di Aoyama,
nel cuore di Tokyo. Haruki Murakami,
classe 1949, è un uomo piccolo.
Semplicissimo, in felpa e jeans blu.


Sembra uno dei protagonisti dei suoi romanzi,
storie sospese tra il sogno e la
realtà; isole immaginarie, in cui simbolo
e metafora diventano gli antidoti per la
sopravvivenza a un mondo troppo crudele,
reinventato dallo scrittore in un
universo parallelo dove tutto è possibile.
Anche parlare con i gatti, come fa Nakata,
uno dei protagonisti di Umibe no
Kafuka
. Libro a doppia trama, racconta
la storia di Kafka, un ragazzo di Tokyo
che fugge nel sud del Giappone in cerca
della madre, ma anche quella di Nakata,
un tipo “non troppo sveglio”, rimasto
psicologicamente menomato da uno
strano episodio avvenuto durante l’occupazione
americana.

murakami2.jpgUmibe no Kafuka è una storia di destini
e coincidenze, un libro che pone
molte domande ma che poi dà poche
risposte…

«Non è importante scoprire se i miei
protagonisti trovano o meno quello che
cercano, se Kafka trova la madre o no.
Quello che a me interessa è il processo
della ricerca, che ti fa incontrare persone
che ti aiutano, anche senza motivo.
Come capita a Kafka, come capita nella
vita. Ricerca significa anche speranza».

E anche ricordo, memoria…

«Sì, è uno dei punti fondamentali dei
miei romanzi. Se non ci fossero i ricordi,
la vita sarebbe disadorna. Sono i ricordi,
anche spiacevoli, a riscaldare la nostra
vita. Scrivere, per me, è aprire i cassetti
della memoria, dove ho riposto tante cose.
Mi sono accorto che i lettori tengono
chiusi quei cassetti, oppure, se provano
ad aprirli, non riescono a farlo bene. Io
so come fare, e, in un certo senso, li
apro anche per loro».

Il titolo lascia un po’ disorientati: infatti
Kakfa fa pensare allo scrittore… Perché
lo ha scelto?

«È venuto fuori in maniera casuale, durante
una conversazione. Kafka, comunque,
è uno dei miei scrittori preferiti
e metterlo in relazione con il mare mi
sembrava piuttosto originale. Il titolo di
un romanzo è molto importante: è la
prima cosa che legge il lettore, la prima
con cui posso colpirlo».

Kafka va in palestra, lei è un maratoneta.
Che rapporto esiste tra sport e
letteratura, tra il corpo e la scrittura?

«È un rapporto molto stretto. Scrivo tutti
i giorni dalle quattro fino alle dieci di
mattina. Durante la stesura di un romanzo
non mi fermo nemmeno nel fine-settimana, e anche per
un anno intero. È come
fare una maratona. Infatti,
in questo periodo, sto scrivendo
un saggio, una sorta
di riflessione personale
sul rapporto tra salute fisica
e mentale. Molti pensano
che scrivere non significhi
impegnarsi fisicamente,
ma non è così. È
un lavoro che richiede
molte energie e regolarità,
come lo sport. Di solito si
pensa che l’immaginazione
venga favorita da una vita sregolata:
per me, invece, è l’opposto».

Quanta parte di lei c’è in quello che
scrive? Come nascono i protagonisti
dei suoi libri?

«Una parte di me si sovrappone a loro,
però io sono un’altra persona. In un certo
senso sono quello che sarei io se mi
trovassi nei loro panni. Non mi devo
sforzare per crearli: li aspetto e loro arrivano.
Eseguo una sorta di rito: una doccia,
un tè, mi rilasso e aspetto».

Lei è un appassionato di musica. Ha
gestito un jazz club, il Peter Cat, e i
suoi libri sono accompagnati da vere e
proprie colonne sonore, pagine dedicate
a pezzi e autori…

«Ascolto tantissima musica. Ho iniziato
a scrivere all’improvviso, senza possedere
una tecnica. Mi sono chiesto come
avrei potuto fare e ho capito che per me
scrivere è seguire la mia musica interiore.
Il ritmo appartiene anche alla scrittura:
se non c’è, il lettore non ti segue».
Uno dei personaggi del libro parla coi
gatti. Lei li ama molto…

«Sono stato con loro sempre, fin da piccolo.
I gatti sono un po’ individualisti, e
a me piace questo lato. Quand’ero giovane,
e non avevo molti soldi, anzi ne
avevo talmente pochi da non potermi
permettere una stufa a gas, erano i gatti
che mi tenevano caldo quando andavo
a dormire. Ne avevamo tre e entravano
nel futon con me e mia moglie. Riscaldano
un sacco. Si può fare
persino a meno del riscaldamento».

Ci può raccontare la storia
di come ha iniziato a scrivere.
Ormai è quasi una
leggenda…

«Ho iniziato tardi, a 29 anni.
Ho sempre letto molto,
ma non avevo mai pensato
di scrivere. Poi, un giorno,
mentre guardavo una partita
di baseball, ho sentito
qualcosa investirmi dall’alto,
scendere su di me. È
stata un’epifania… Mi rendo
conto di dire una cosa
strana, ma mi sono sentito
così. È la cosa più bella
che mi sia successa in tutta
la vita: da allora non ho
più smesso di scrivere.
Non ho mai avuto il blocco
dello scrittore, non ho mai
sentito di non poterlo fare.
Semplicemente, scrivere
mi rende felice».

Ha vissuto in Italia e adesso
abita negli Stati Uniti.
Ma perché ha lasciato il
Giappone, il suo Paese?

«Mi sento e mi sono sempre sentito un
outsider, qui. Per questo vent’anni fa mi
sono trasferito all’estero, proprio in Italia.
La società giapponese è rigida, fondata
su modelli di comportamento predefiniti.
Se si seguono le regole, tutto va
bene, altrimenti si viene presi in giro. A
me è capitato. Io volevo sentirmi libero
di vivere la mia vita senza costrizioni, di
scrivere quello che mi pareva quando
mi pareva».

Che cosa legge? Quali sono i suoi autori
preferiti?

«Adoro Dostoevskij e Kafka, naturalmente.
Sono loro gli autori della mia formazione.
Adesso leggo gli scrittori che
traduco, Carver, Fitzgerald. Adoro la letteratura
americana contemporanea, tradurre
per me è un hobby: mi piace e
non mi affatica. Quando non scrivo romanzi,
traduco. E viceversa. Leggo una
frase in inglese e inizio a chiedermi come
potrei renderla altrettanto bella in
giapponese: è come risolvere un’equazione
matematica».

Nonostante prenda le distanze dalla
società giapponese, ne ha trascritto i
dolori in Underground (Einaudi), il saggio
che raccoglie le testimonianze delle
vittime dell’attentato alla metropolitana
di Tokyo, del 1995, opera della
setta Aum Shinri-kyo…

«Quell’esperienza mi ha cambiato molto.
Fino a quel momento non mi ero mai
interessato alla vita dei salaryman, degli
impiegati che tutti i giorni prendono il
treno alla stessa ora, lavorano fino a tardi,
tornano a casa e il giorno dopo iniziano
da capo. Non mi riconoscevo in
quel conformismo. Ascoltare le testimonianze
delle vittime mi ha però avvicinato
a loro. Penso veramente di aver fatto
bene a scrivere quel libro».

Com’è andata quando si è trovato di
fronte i terroristi e il loro leader, Shoko
Asahara?

«Ho intervistato i membri della Aum
Shinri-kyo perché volevo capire il motivo
di quel gesto. Mi sono ritrovato a parlare
con degli studenti, degli intellettuali capaci
di discutere in modo approfondito
molti problemi. Però, per quei ragazzi
tutto si ferma alla testa. Le vittime, invece,
mi hanno aperto il loro cuore. Le
persone che hanno aderito a quella setta
si sentivano insoddisfatte, e hanno
abbracciato le idee del loro leader pensando
che se si univano a lui sarebbero
diventati più forti. È lo stesso processo
sul quale si basa oggi ogni fondamentalismo.
Dopo l’11 settembre è il problema
più grosso che la società contemporanea
si trovi ad affrontare. Prima esistevano
due blocchi opposti, il comunismo
e il capitalismo. Dopo la caduta del
muro di Berlino, tutti abbiamo pensato
che il mondo avrebbe conosciuto un
periodo di pace, e invece sono cresciuti
sentimenti di odio razziale. Io ho iniziato
a essere famoso proprio in quel periodo.
Penso che forse, in tutto questo caos in
cui il mondo si è venuto a trovare, i miei
libri siano stati una strada alternativa a
questa confusione».

In Giappone esiste la pena di morte e
Shoko Asahara vi è stato condannato.
Cosa ne pensa?

«Sono contrario. Alcuni credono che ripagare
una morte con un’altra morte sia
il modo più semplice e veloce per dimenticare
il dolore. Ma è sbagliato.
Piuttosto dovremmo riflettere sul perché
si sia potuto arrivare a tanto. Ho seguito
il processo e mi sono fatto l’idea che
questi criminali, nonostante tutto, non
siano persone malvagie. Chiunque, anche
la persona più pacifica, se finisse
nella trappola del fondamentalismo potrebbe
fare cose che non avrebbe mai
pensato di fare».

In Giappone tra i manga più venduti ci
sono quelli di Ko Bunyu contro la Corea
o la Cina, e tra i giovani si sta diffondendo
il neonazionalismo…

«È una cosa molto pericolosa e Koizumi
in questo ha una grossa responsabilità.
Continua a fare le visite allo Yasukuni
Jinja (il tempio del milite ignoto giapponese
che raccoglie anche le spoglie di
14 criminali di guerra, ndr)… Ero negli
Stati Uniti quando ho letto dei manga
razzisti e mi sono arrabbiato. I miei libri
sono molto letti anche in Corea e in Cina.
Viceversa i drama coreani sono molto
popolari in Giappone. Apparteniamo
tutti alla stessa area culturale, quella
asiatica. Mi chiedo perché ci sia bisogno
di fare azioni che ci dividono, anziché
unirci. I giapponesi devono ancora
fare i conti col passato e riconoscere i
propri errori. È fondamentale».

Che rapporto ha con i suoi lettori?

«Buono, infatti quando posso apro il sito
e rispondo direttamente alle mail. Per
uno scrittore credo sia necessario confrontarsi
con i propri lettori. Per me è
anche un modo per stare in contatto col
mondo esterno».

Non è una vita semplice, specialmente
in Giappone…

«No, infatti. In Giappone se non si fa vita
sociale si è tagliati fuori. Se rifiuto gli inviti,
poi mi danno dell’arrogante. Ma per
me il tempo è una cosa importante, e voglio
utilizzare il mio per scrivere. Non è
che ogni tanto non mi piaccia divertirmi,
ma quando rifiuto poi la gente mi odia. E
questo mi dispiace…».

[fonte D-Repubblica]