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[L’intervista che segue è tradotta dall’inglese. Viene pubblicata in due parti perché così è apparso il testo originale, la settimana scorsa, sul blog ufficiale del professor Henry Jenkins. Jenkins è tra i massimi esperti americani di popular culture(*). E’ direttore del Comparative Media Studies Program al Massachussets Institute of Technology, nonché autore di testi molto importanti sul modo in cui i fans ricombinano e riutilizzano la cultura che amano, trasformandola in qualcosa di nuovo e inaspettato, si tratti di cartoons o videogames, di serie televisive o fumetti. Tra i suoi libri vanno citati Textual Poachers: Television Fans and Participatory Culture (1992), From Barbie to Mortal Kombat: Gender and Computer Games (2000), Fans, Bloggers and Gamers: Exploring Participatory Culture (2006) e il fondamentale, monumentale Convergence Culture: Where Old and New Media Collide (2006).
Dopo aver letto quest’ultimo (**), su suggerimento di WM2 (entusiasta quanto me) mi sono messo in contatto con Jenkins, che raramente ha scritto di popular culture europea. Gli ho spiegato un po’ di cose e spedito materiale. Metodico, il prof ha seguito link, salvato testi, approfondito, rimuginato per una quindicina di giorni, poi ci ha spedito alcune domande, a cui abbiamo risposto in due. La cosa che più lo incuriosiva della nostra – e non soltanto nostra – prassi era il superamento della barriera che separa "avanguardia" e "popolare", cosa che nella fan culture americana si verifica più di rado.
Il blog di Jenkins è a metà tra un quaderno di appunti e un tavolo pieno di provette, alambicchi, serpentine, bacinelle piene di liquidi fumiganti. Dentro quel caos prendono forma i discorsi che finiranno sui prossimi libri.
L’intervista, come dicevo, è apparsa in due puntate qualche giorno fa. Credevamo di aver detto cose che suonavano risapute, qui da noi, almeno alle orecchie di chi conosce il nostro percorso, e invece pare di no. Quando racconti qualcosa da capo, soprattutto se lo fai dopo tanto tempo e dopo aver maturato un certo distacco, finisce che getti nuova luce sugli eventi. Infatti, tra gli amici che hanno letto l’intervista, diverse persone ci hanno chiesto se/dove/quando avremmo messo in rete la versione italiana… che però non esisteva.
Adesso esiste.
In questa prima parte si parla nello specifico di Luther Blissett, nella prossima si affrontano anche questioni più generali. WM1]
All’incirca un mese fa ho ricevuto un’e-mail appassionata, quasi la lettera di un fan, a proposito di Convergence Culture. Il mittente si firmava "Wu Ming 1". Dato che io mi chiamo Henry Jenkins III e ho un figlio che si chiama Henry Jenkins IV, l’accostamento nome + numero non mi ha lasciato perplesso. Ad affascinarmi è stata invece la descrizione delle somiglianze tra il mondo che ho descritto nel libro e "le cose che abbiamo fatto e teorizzato per più di dodici anni, benché con un taglio più attivistico/radicale (autorialità multipla, narrazioni transmediali, creazioni di mondi, giochi con le identità, guerriglia-giochi di ruolo, collisione tra vecchi e nuovi media, pratiche orientate al copyleft, beffe mediatiche etc.)"
Viene fuori che Wu Ming 1 è stato uno degli esponenti di punta del movimento Luther Blissett ed è ora parte di un collettivo di scrittura che ha pubblicato romanzi scritti in gruppo come Q e 54.
Approfondendo la conoscenza del movimento Luther Blissett e della Wu Ming Foundation, più scavavo e più trovavo il tutto affascinante. Da tempo questi gruppi sperimentano varie forme di convergenza dal basso con finalità artistiche e politiche. Finora hanno avuto un maggiore impatto in Europa che negli Stati Uniti. Ecco una parte di quel che Wikipedia ha da dire su di loro:
Luther Blissett è un nome multi-uso, una "reputazione aperta" adottata informalmente e condivisa da centinaia di artisti e attivisti sociali in tutta Europa, fin dall’estate 1994 […] Per ragioni che rimangono ignote, il nome fu preso in prestito a un calciatore inglese degli anni Ottanta, di origine afro-caraibica. In Italia, tra il 1994 e il 1999, il cosiddetto "Luther Blissett Project" (una rete organizzata all’interno della comunità aperta che condivideva l’identità di "Luther Blissett") divenne un fenomeno estremamente popolare e riuscì a creare una leggenda, la reputazione di un eroe popolare. Questo Robin Hood dell’era dell’informazione intraprese una guerriglia contro l’industria culturale, lanciò eterodosse campagne di solidarietà a vittime di censura e repressione e – soprattutto – organizzò elaborate beffe mediatiche come forma d’arte, rivendicandone sempre la paternità e spiegando quali punti deboli aveva sfruttato per spacciare una notizia falsa. Blissett era attivo anche in altri paesi, specialmente in Spagna e Germania. Il dicembre 1999 segnò l’epoca del Piano Quinquennale del LBP. Tutti i "veterani" commisero un "Seppuku" simbolico. La fine del LBP non ha implicato la fine del nome, che continua a riemergere nel dibattito culturale ed è ancora una firma molto popolare sul web.
Wu Ming 1 mi ha inoltrato questo link a Youtube, dove si parla del movimento e dei suoi rapporti col calciatore britannico. C’è anche un’apparizione di quest’ultimo, il "vero" Luther Blissett, primo nero a segnare un gol per una squadra inglese. Blissett legge brani di prosa piuttosto sperimentale da uno dei romanzi del gruppo.
Questo è il sito ufficiale del collettivo.
Il successivo scambio di mail su temi come la fan fiction e gli ARG [Alternate Reality Games, N.d.R.] mi ha intrigato: questo movimento europeo d’avanguardia è anche pienamente dentro la popular culture. Ho chiesto a Wu 1 (adesso lo chiamo per nome e numero) se voleva rispondere ad alcune domande per i lettori del mio blog. Pubblicherò questa lunga intervista con Wu Ming 1 e Wu Ming 2 in due puntate.
HJ3: A proposito di Luther Blissett, hai parlato di “mitopoiesi di base”, spiegando le analogie con la fan fiction e le differenze tra voi e il movimento del "Culture Jamming". Qual è a tuo dire il valore della mitopoiesi di base?
WM1. Benché vi sia la tendenza a usare la parola "mito" come sinonimo elegante di "bugia", preferirei attenermi a una definizione più precisa. Per dirla in modo semplice, i miti sono storie che tengono le comunità unite e vive. Non potremmo interagire gli uni con gli altri senza i legami che creiamo scambiandoci storie, e i miti sono le storie col più alto valore simbolico, storie che ci parlano di misteri, misteri come il percorso che abbiamo fatto fin qui, i modi in cui riusciamo ad andare d’accordo e l’aspetto del futuro che ci attende.
I miti non sono balzani residui di un passato antico: continuano a cambiare forma e adattarsi ai contesti, e appartengono sempre al presente, ci parlano di noi qui e adesso. Anche le persone più razionali riconoscono il potere dei miti nelle loro vite. Come fece notare una volta Joseph Campbell, se osservi un professore che gioca a bowling, lo vedrai "agitarsi e contorcersi dopo che la boccia ha lasciato la mano, per guidarla verso i birilli", evidente tentativo di richiamare poteri soprannaturali, gli stessi che troviamo nei miti e nei racconti folklorici popolati da demoni, streghe, maghi, divinità etc.
Inoltre, i miti hanno un’altra funzione importante: sono in grado di incitare chi subisce a restituire colpo su colpo, grazie al fatto che le storie di ingiustizia e ribellione, di repressione e resistenza, sono tramandate da una generazione all’altra. Per esempio, Martin Luther King e Malcolm X sono entrambi, al contempo, figure storiche e mitologiche: sono i nostri cari martiri, coloro che hanno osato alzarsi in piedi e dire la verità, e per questo hanno pagato caro. D’altro canto, i miti convincono le persone a sopportare la loro situazione nella remota speranza di un regolamento di conti, come nel mito del Giudizio Universale, quando gli ultimi saranno i primi, o nel mito della rivoluzione, quando i poveri prenderanno il potere e divoreranno i ricchi.
Nella prima metà degli anni Novanta l’identità collettiva "Luther Blissett" fu creata e adottata da una rete informale di persone (artisti, attivisti, hackers) interessate a usare il potere dei miti e andare oltre la "controinformazione" e l’agit-prop. A Bologna, la mia cerchia di amici convideva un’ossessione per l’eterno ritorno di figure archetipiche, come eroi popolari e tricksters. Trascorrevamo le giornate esplorando la cultura pop, studiando il linguaggio degli zapatisti messicani, raccogliendo storie di beffe mediatiche e guerriglia comunicativa dagli anni Venti ai giorni nostri (storie del dadaismo berlinese, serate futuriste etc.). Guardavamo e riguardavamo un particolare film, Colpo secco [Slapshot] di George Roy Hill, protagonista Paul Newman nei panni del giocatore di hockey Reggie Dunlop. Ci piaceva molto, Reggie Dunlop, era il trickster perfetto, l’Anansi delle leggende africane, il Coyote delle leggende nativo-americane, Ulisse che manipola la mente del ciclope.
Perché non costruire il nostro "Reggie Dunlop", il "trickster dai mille volti", un golem fatto col fango di tre fiumi (la tradizione agit-prop, il folklore, e la cultura pop)? Perchè non far partire un gioco di ruolo completamente nuovo, usando tutti i media disponibili al momento, per diffondere la leggenda di un nuovo eroe popolare, alimentato dall’intelligenza collettiva? (Tra l’altro, avevamo letto Pierre Lévy; il padre di WM4 aveva una piccola casa editrice e aveva appena pubblicato una traduzione di Les technologies de l’intelligence; è stato il primo editore italiano di Lévy, e anche noi abbiamo incontrato il tizio a Bologna, un paio di volte).
Grazie alle reti di BBS tipo FidoNet, al network dell’arte postale e alla scena nazionale dei centri sociali occupati, eravamo in contatto con molte persone in Italia e all’estero. Facemmo girare la voce e accadde tutto molto rapidamente. Già pochi mesi dopo , centinaia di persone usavano il nome "Luther Blissett" e il nuovo golem riceveva l’attenzione di giornalisti perplessi.
E’ vero, c’era un elemento di "rottura", un’attitudine allo scontro, qualcosa che ci rendeva cugini dei "culture jammers", dei "subvertisers", di teorici come il Critical Art Ensemble etc., ma c’era una differenza importante [tra noi e loro]. L’agitazione modello Adbusters va bene, per carità: sabotare la propaganda commerciale è probabilmente una fase necessaria da attraversare. Fare parodie della pubblicità, criticare il consumismo… Sono certamente buone azioni. Tuttavia, Luther Blissett aveva anche una spinta più positiva: lo scopo principale era creare una comunità intorno al mito di Blissett. Le beffe, le provocazioni e il sabotaggio dei media erano più i mezzi per diffondere il mito che le finalità ultime del progetto. L’aspetto più importante della nostra prassi non era il sabotaggio, ma il modo in cui il sabotaggio aumentava la statura mitologica di Blissett.
Fu una sollevazione sorprendente, tante persone che scrivevano, agivano, si esibivano usando lo stesso pseudonimo, coordinando in qualche modo il proprio impegno senza la necessità di conoscersi, mandandosi messaggi in bottiglia. Era una comunità aperta e informale. Le false notizie e le truffe ai media servivano a rendere leggendaria la nostra presenza nel paesaggio mediale, affinché sempre più persone si unissero a noi e adottassero il nome. Il "culture jamming" era solo una parte secondaria del progetto. Ciò che importava di più era l’esplorazione pratica di una mitologia interattiva e dal basso.
HJ3: Wikipedia descrive il movimento come una “reputazione aperta”, con riferimento al fatto che il nome "Luther Blissett" era liberamente appropriabile e utilizzabile da centinaia di diversi partecipanti [al progetto]. Potete spiegare quest’idea di "reputazione aperta" e cosa ci dice sulla natura dell’autorialità nella cultura contemporanea?
WM2. "Reputazione aperta" significa che i diversi partecipanti al gioco del "nome multiplo" non erano frammenti di uno schizofrenico conflitto di personalità, bensì tante sfaccettature di una sola identità. Ogni volta che usavi il nome "Luther Blissett", facevi molto più che aderire a un progetto: diventavi Luther Blissett, eri Luther Blissett.
Sul pianeta Tlon, il mondo immaginario inventato da Jorge Luis Borges, "raramente i libri vengano firmati, poiché la nozione di plagio non esiste. Si è deciso che tutte le opere sono di uno stesso autore, atemporale e anonimo". Non a caso, secondo una delle scuole filosofiche di Tlon, "Tutti coloro che ripetono un verso di William Shakespeare sono William Shakespeare.”
Penso che Luther Blissett sia stato un esperimento di filosofia pratica. Luther ha affrontato la credenza nell’Autore come individuo geniale raccontando una favoletta morale su come funziona davvero la creatività. Noi crediamo che qualunque autore sia un autore collettivo.
Diversi anni fa, il mondo della letteratura venne a sapere che Raymond Carver non era veramente Raymond Carver. Le stesure provvisorie dei testi di Carver erano molto più lunghe delle versioni andate in stampa. Tutte le parti eccedenti erano tagliate dal suo editor, Gordon Lish. I finali alla Carver erano in realtà i finali di Lish.
Ho una domanda da fare: che sarebbe accaduto se il signor Lish, anziché il suo editor, fosse stato semplicemente un amico di Carver? Immaginiamo che Gordon Lish fosse un impiegato delle poste e abitasse di fronte a casa di Carver. Una sera Carver suona alla sua porta e gli dice: "Andiamo al bar a farci una birra, mi serve la tua opinione su una storia che sto scrivendo". Carver legge il racconto a Lish, e quest’ultimo commenta: "E’ buono, ma si trascina troppo a lungo. Perché non tagli l’ultimo capoverso? Il finale sarebbe più incisivo, non trovi?". Carver va a casa e segue il consiglio di Lish. Noi lettori non verremo mai a sapere di questa conversazione. Non succede niente di strano. Carver è sempre Carver, e noi parleremo dei finali alla Carver, non alla Lish.
Adesso pongo altre domande: a quanti autori capita di parlare con impiegati delle poste? Quanti libri sono il risultato di conversazioni tra autori e impiegati delle poste? Quante volte un autore prende un’idea da una persona con cui ha parlato? E potrebbe fare altrimenti? Può chiudersi nella torre d’avorio al fine di salvare "la propria voce"? In quel caso, fatta eccezione per un diario della sua prigionia, non avrebbe nulla di cui scrivere.
I narratori devono bagnarsi le mani nel mare delle storie, e accettare il fatto di essere solo riduttori di complessità, "filtri" tra la mitosfera e il popolo. Al di fuori di questo non vi è alcuna "originalità", puoi essere "originale" solo nel modo in cui filtri e rielabori quel che ricevi dalla tua comunità.
Ne consegue che le storie appartengono a tutti, la proprietà privata della cultura pop è una contraddizione in termini. Le storie dovrebbero essere libere di circolare, fertilizzare i cervelli, ed estendere la reputazione aperta di ciascun autore. E’ il motivo per cui i nostri libri, intesi come oggetti materiali e contenitori di storie, hanno un prezzo – così possiamo campare di scrittura – mentre come storie immateriali possono essere liberamente riprodotte, in un’economia basata sull’abbondanza anziché sulla penuria. Non può esserci un limite massimo alla quantità di storie, il serbatoio può riempirsi all’infinito.
HJ3: Mi viene la tentazione di descrivere il movimento Luther Blissett come un fandom senza un testo originario di riferimento. Come avete fatto a creare una comunità intorno a Luther Blissett ? E quali sono le analogie e le differenze tra Luther Blissett e la fan culture comunemente intesa?
WM1. In un certo senso, dato che ciascuna azione compiuta da chicchessia usando lo pseudonimo finiva per espandere e potenziare la reputazione eroica di Luther Blissett, si può dire che ogni azione era "fan fiction". La fan fiction scava a fondo in un testo o insieme di testi (una serie televisiva, un film e i suoi sequel etc.) con l’intento di espandere le vite dei personaggi e migliorare l’esperienza dei fans. E’ quello che abbiamo sempre fatto.
Nel contesto del Luther Blissett Project, abbiamo persino prodotto fan fiction vera e propria, esplicita, in particolare fan fiction su Star Trek. Ad esempio, un’intervista al capitano Jean-Luc Picard su alcune assurdità architettoniche a Bologna. I riferimenti al fandom e alla fan culture erano all’ordine del giorno: eravamo appassionati di fantascienza e narrativa di genere (e mio fratello è un “Trekkie” di lungo corso).
Alla fine del 1995 pubblicammo un libro intitolato Mind Invaders, il cui primo capitolo era in gran parte dedicato all’analisi del linguaggio mitopoietico dei Tamariani, che appaiono in una celebre puntata di Star Trek – The Next Generation, hai presente, frasi come "Shaka, quando caddero le mura" oppure "Sokath, i suoi occhi non più coperti". Il linguaggio tamariano ci fornì un modo di incorporare la tradizione nel nostro agire. Sovente abbiamo definito il Luther Blissett Project una situazione tipo "Picard e Dathon su El-Adrel" (cioè persone lavoravano insieme per un fine comune, senza nemmeno conoscersi tra loro). Trasmettemmo addirittura tutta la puntata (solo l’audio, è chiaro) durante "Radio Blissett", il nostro programma su un’emittente locale.
Quando hai messo in piedi una situazione in cui tutti possono essere l’eroe mascherato, non è difficile creare una comunità intorno al concetto. Si forma un circolo virtuoso: se un’intera comunità si assume la responsabilità di ciò che fa o dice il singolo membro (pensa alla scena di Spartacus di Kubrick in cui ogni schiavo catturato grida: "Io sono Spartaco!"), quest’ultimo si sentirà circondato di calore e complicità, e sarà spinto a fare del proprio meglio per il progetto.
HJ3: Molte delle beffe più riuscite ad opera di Luther Blissett hanno avuto come vittime i media tradizionali (produttori televisivi, e soprattutto giornalisti della carta stampata). Secondo voi questo cosa ci dice sui rapporti instabili tra il potere dei media di base e il potere dei media verticali e commerciali?
WM1. Tra il 1994 e il 1999, per la stampa italiana, "Luther Blissett" (il cui esordio coincise con l’esplosione del web) divenne quasi un sinonimo di "attivismo su Internet" e "cultura di rete". I giornalisti tradizionali si sentivano al contempo affascinati e minacciati da tutto il fenomeno dei "nuovi media", cresceva così in fretta e loro erano totalmente impreparati, incapaci di comprendere. Non avevano proprio le parole per descrivere una tendenza sociale così complessa (nientemeno che un passaggio epocale da sistemi di comunicazione verticali a sistemi di reti orizzontali e media personalizzati!)
Avevano le parole per descrivere Blissett, però, come si potrebbe dire che lo Sceriffo di Nottingham aveva le parole per descrivere Robin Hood. Luther Blissett era… una persona, nel senso che era una figura antropomorfa, incarnava – letteralmente -quel che stava accadendo un po’ ovunque. A casa mia ho una pila di articoli di giornale alta più di venti centimetri; se li sfogli, troverai ogni sorta di definizione di Luther Blissett: “terrorista culturale”, “bandito dell’informazione”, “pirata informatico”, “guerrigliero digitale”…
Nel biennio 1996-97 l’Italia e l’Europa furono investite da una marea di panico morale e paranoia di massa sul tema della pedofilia. All’improvviso, Internet era descritta come un luogo malvagio, più pericoloso di qualunque altro posto, il bosco in cui violentatori di bambini facevano capolino da dietro gli alberi, in attesa di Cappuccetto Rosso. Non importava che in Italia il 91% delle violenze sui minori avvenisse in famiglia e non avesse niente a che fare coi computer: Internet era il nuovo demonio per il popolino. I tradizionali "mediatori" avevano il pretesto per sfogare la propria ansia contro Internet, e calunniare chi aveva osato fare a meno di loro.
Fu a quel punto che il Luther Blissett Project iniziò a organizzare complesse beffe mediatiche su argomenti morbosi come la pedofilia, Internet e le violenze rituali sataniche. Intendevamo dimostrare che quel genere di notizie sensazionalistiche era preso e mandato in stampa senza alcuna verifica. Alcuni diffusori di panico hanno fatto figure davvero barbine, a causa nostra. Alcuni di loro, incolleriti, dissero che depistando la stampa noi stavamo proteggendo i pedofili veri. Una logica interessante: se i pedofili non ci sono li inventi, e se qualcuno dimostra che li hai inventati, lo accusi di difendere quegli stessi pedofili… che non esistono!
In un contesto particolare, Luther Blissett condusse una controinchiesta dal basso su un caso giudiziario a Bologna, dove un gruppo di metallari chiamati i "Bambini di Satana" era diventato il capro espiatorio adatto alle esigenze delle autorità. Furono arrestati durante una malconcepita operazione contro presunte violenze rituali. Nessuna prova, nessuna testimonianza affidabile, niente di niente. Chiaramente, i media li calunniarono selvaggiamente, almeno all’inizio, e si scrisse diffusamente di "siti web segreti per pedofili" e altre cose del genere. Luther Blissett, grazie ad alcuni colpi ben pianificati, riuscì a instillare nell’opinione pubblica ragionevoli dubbi sulla solidità dell’impianto accusatorio. Alla fine furono assolti e risarciti dallo stato per aver subito diciotto mesi di ingiusta detenzione.
[La vicenda è raccontata nei dettagli nel libro di Antonella Beccaria Processo al diavolo. I delitti mai commessi da Marco Dimitri, Stampa Alternativa 2006, N.d.R.]
Gradualmente il panico morale diminuì e Luther Blissett passò ad altre tattiche e bersagli (ad esempio il mondo dell’arte "alta", o la Santa Sede), quattro di noi si concentrarono sull’operazione "Dien Bien Q", e l’intero network si preparò alla fine del Piano Quinquennale di Blissett.
Ripensando a quei giorni, ho capito che Luther Blissett fu un pioniere della collisione tra vecchi e nuovi media, in una fase in cui i confini tra vecchio e nuovo erano più netti di quanto siano adesso, e in cui vi erano meno intersezioni: solo pochi giornali avevano un’edizione on line, i giornalisti non avevano i loro blog, e il file sharing era ancora lungi dal divenire un fenomeno di massa.
HJ3: Come operava il movimento Luther Blissett per colmare il divario tra mondo on line e realtà materiale, prendendo ciò che era frutto di immaginazione e facendogli avere conseguenze nel mondo reale?
WM2. L’immaginazione ha conseguenze nel mondo reale se raggiunge i cervelli di altre persone. I media erano usati da Luther Blissett come veicolo privilegiato per ottenere questo. Al livello più banale, da molto tempo TV e giornali hanno rimpiazzato Aristotele come fonte di "verità". D’altro canto, per fortuna, molte persone sono capaci di pensiero critico, e una falsa notizia può avere un maggiore impatto se viene svelata e spiegata, anziché restarsene nascosta sotto il grande ammasso di informazioni.
Farò due esempi: all’inizio del 1994, prima ancora che Luther Blissett iniziasse la sua carriera, alcuni di noi coniarono lo slogan: "Decidi tu lo scoop di domani", e misero la cosa in pratica nelle strade. I giornali locali sono molto penetrabili, e il loro punto più debole è la rubrica delle "Lettere al direttore". Iniziammo a spedire lettere ai quotidiani di Bologna, fingendoci cittadini inorriditi che avevano trovato viscere di animali su panchine, parabrezza, altalene e segnali stradali. Nel giro di due settimane, la notizia passò dalle lettere agli articoli, i titoli si fecero più grandi, e i giornalisti trovarono un nome al nuovo fenomeno: "orrorismo". Critici d’arte e sociologi furono intervistati sul significato della provocazione. Poi qualcuno lasciò davvero un grosso cuore di bue appeso a un albero, sconvolgendo i passanti. L’emulazione fu la sola vera conseguenza nel mondo reale… fatta eccezione per le lezioni che avevamo tratto dalla beffa, preludio a cose più grandi.
Due anni dopo, riempimmo uno zainetto coi presunti resti di una cerimonia satanica (candele nere, due tibie umane e un teschio), poi lo piazzammo nel deposito bagagli della stazione di Bologna. Mandammo una lettera anonima, con allegato lo scontrino, a un cronista particolarmente dedito a diffondere panico morale, con un comunicato che annunciava l’arrivo in città di una nuova pattuglia anti-satanisti. La storia era che "noi", i vigilantes, avevamo aggredito i satanisti nel ben mezzo di una messa nera, li avevamo picchiati e costretti alla fuga, poi avevamo preso quella roba per spedirla al cronista come prova della nostra presenza a Bologna.
Come ha detto WM1, questo faceva parte della nostra campagna di controinformazione sul caso dei "Bambini di Satana". Siccome però era un’estata calda, quel cronista era in vacanza. Tornò al lavoro dopo tre settimane, trovò la nostra lettera, pagò un mese di tasse di deposito (circa 300.000 lire), vide il teschio e l’altra roba, e la storia finì in prima pagina, sotto un titolo cubitale. Il tizio non sapeva che noi avevamo già rivendicato la beffa e spiegato le nostre motivazioni sulle pagine di una rivista locale. La "rivendicazione preventiva" suonava così: "Questo tizio troverà uno zainetto pieno di merda e ci scriverà sopra un pezzo sensazionalistico. Dopo tutte le balle che ha messo in giro, adesso raccoglie quel che ha seminato. Noi abbiamo inventato una storia, ma lui ne ha inventate molte di più”.
La "conseguenza nel mondo reale" fu che le cose cambiarono: il tizio non scrisse più dei "Bambini di Satana", gli altri due quotidiani di Bologna cominciarono a mettere in discussione le accuse. Fu come un corso intensivo di educazione mediatica impartito alla città. Fino a quel momento, usando gli strumenti delle controinchieste tradizionali, non avevamo ottenuto risultati. L’effetto "omeopatico" di una singola bugia curò il male meglio delle medicine mediatiche solitamente prescritte all’opinione pubblica.
*Sui motivi per cui l’espressione italiana “cultura popolare” non traduce in modo adeguato l’inglese “popular culture”, vedere qui.
**Aggiornamento autunno 2007: il libro Convergence Culture di Henry Jenkins è uscito in italiano per le edizioni Apogeo, col titolo Cultura convergente, prefazione di Wu Ming leggibile qui [N.d.R.].
L’intervista prosegue QUI.