di Lucio Angelini

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Il titolo dell’ultimo libro di Aldo Busi Bisogna avere i coglioni per prenderlo nel culo, Mondadori editore, è meglio spiegato a p. 15:

“Di definitivo direi queste due cosette: la prima, nemmeno inedita e qui ribadita a uso degli immemori, che gli eterosessuali si prendono il piacere dove e come DEVONO e gli omosessuali dove e come e con chi CREDONO… [cut]…; la seconda, che mentre per prenderlo nel culo DI NASCOSTO basta avere un buco del culo, per prenderlo nel culo IN PUBBLICO e dirlo bisogna avere i coglioni – anche a costo, per ritorsione sociale, di non prenderlo più nemmeno in privato”. [Mie le evidenziazioni in maiuscolo]

E’ un libro di “prove d’esilio” (vagabondaggi, incontri, meditazioni) a Nizza, (“Che ci faccio a Nizza? Se solo lo sapessi!”, p. 26), Frignano, Firenze, New York (dove il pittore campano Primo Inchinato lo invita per fargli un ritratto a olio, salvo poi tenerselo), Capri, Napoli (anche sotterranea), Trapani, Marettimo, Mykonos, Itaca (qui Busi cita l’Independent Traveller’s Greek Island Hopping 2003: “… nessun sito archeologico di una qualche importanza e poco e niente da offrire a parte il mito… è tollerabile trascorrervi un giorno o due, anche se c’è ben poco da fare, eccetto camminare su e giù per le colline… non c’è da meravigliarsi che Ulisse abbia pensato bene di girarci attorno dieci anni prima di decidersi a rimetterci piede… la fontana di Aretusa è una splendida scusa per tenersi in esercizio con una piacevole marcia fra i clivi, ma portatevi dell’acqua perché è secca come un baccalà sotto sale”), Dublino, Galway, Salonicco, Città del Capo + Soweto, ISOLA DI S. ELENA, Venezia, Montréal (“Sei in Canada. Perché continui ancora a viaggiare non lo so”, p. 265), Quebec City, Toronto, Buenos Aires…

All’isola di S. Elena approdiamo con Busi a p. 235:

“Infine eccomi qui, sto per togliermi il capriccio più pesante da adempiere e buttarmi alle spalle l’istante subito dopo, nella mia vita di curiosone di buona volontà non ne ricordo uno altrettanto autolesionistico: mettere piede sui luoghi dell’esilio per eccellenza, aderire allo spettro Napoleone e patire con l’uomo Bonaparte, nient’altro. Mi piacerebbe ricostruirne nel mio sistema nervoso l’identità segreta nella sua coriacea determinazione al comando e nella sua resistenza al dolore fisico e alle privazioni materiali e affettive sin da bambino, cercare in una settimana di incamerare sin dalle fasce l’angoscia del colosso caduto stillata in sei anni di esilio dall’etichetta di corte, sei anni lunghi come l’infernale limbo di sessanta o seicento, fare mio quel senso di impotenza in sovrappiù che sfugge a uno scrittore riuscito e che è invece appannaggio esclusivo dello scrittore fallito diventato, faute de mieux, criminale di successo planetario tipo Napoleone o Hitler o Stalin o Mussolini o Mao Tse-tung e tante altre sanguisughe simili, i velleitari scribacchini trionfanti che si sono dati alla politica e al militarismo e alla fama… alla cosiddetta gloria… a ogni prezzo, altrui, quelli che si sono fatti pifferai magici delle folle reiette per mettere a ferro e fuoco il mondo reo di non averli compresi e osannati e consacrati quali geni della letteratura come erano sicuri di essere sin dalla penna stilografica ricevuta per la Comunione; dopo aver conosciuto il senso di abbandono sentimentale e di solitudine civile dello scrittore per cause innocenti e dovute o almeno incruente e nell’ottica dell’umanità in divenire che non reclama vittime qui e subito, voglio calarmi anche nell’inguaribile stizza del tiranno sanguinario armato di buone intenzioni e di sei milioni di cadaveri… uno share astronomico all’epoca… da immolarne in un quindicennio di autoesaltazione, sì, voglio calarmi nell’ipocondria di uno storico ometto col pelo sullo stomaco una volta ricondotto alla ragione mai contemplata e più terribile: la ragione altrui, quella di chi lo scalza e gli subentra e, confinandolo in una prigione più o meno grande e più o meno all’aria aperta, di fatto lo traduce tout court, dal Tutto al Niente, come da una lingua viva a una morta; voglio sapere che gusto ha mordere la polvere alla fine della traiettoria di ‘sta gloria, che pareva scolpita nel marmo e nella luce eterni, di un povero diavolo assurto a Messia del Bastone e della Carota ideali per le umane bestie da cannone e da arma bianca votate, grazie a un sacco di frottole irredentiste e di promesse di benessere mantenute solo dai bottini dati con la libertà di saccheggiare i vinti, a fare da concime ai sogni di grandezza del loro Redentore del momento; imbevermi, voglio, della tignosa megalomania frustrata dall’ex potente in Terra e in Cielo, se con lui e tutti gli idioti sulla scia del suo divino destino, mesmerizzarmi nell’ipocrita logorio psichico del vincitore-che-fu che solo da vinto si compiace della vanità di ogni cosa, tanto dell’impresa di conquista come dell’immoblismo per rinuncia e rassegnazione…[cut]… eh sì, come vorrei calcare le orme ciancicate dall’inane pesteggiamento del Grande Piccoletto sopraffatto da un rovescio di fortuna, mimetizzarmi nella sua reiterazione degli stessi gesti e degli stessi pensieri sulla divinità avuta e persa e di come sarebbe andata se invece di fare così avesse deliberato cosà nella strategia del mappale di una battaglia con attacco a sorpresa, ah, se invece di mettere a capo di uno squadrone quel consumato generale traditore vigliacco incapace che a Waterloo batté in ritirata avesse messo un semplice caporale dalla fantasiosa e incosciente irruenza all’ultimo sangue, un improvvisato stratega senza arte né parte, coraggioso e fedele anche solo per la precisa ambizione di un avanzamento di grado! Mi ammaliano i pensieri, le risoluzioni tardive che sedimentano nel sangue dell’ex vincitore che suppura restando in circolo goccia dopo goccia, con comodo crudele: voglio perimetrare e fare mia la forza che gli veniva meno giorno dopo giorno in quegli infinitesimali spostamenti nei cinque metri tra letto, sofà e tinozza d’acqua calda con leggio in cui da ultimo trascorreva ormai anche dodici ore al giorno in un ammollo che però, se attutisce appena gli spasimi insopportabili del fegato in putrefazione, non arriva a annegare la coscienza del gatto che fa la fine del topo, perché lui doveva pur rendersi conto di non essere più Napoleone ma il guitto in disgrazia che si ostina a recitarne la parte…”

Trascrivo, ora, il Post Scriptum delle pagine 244-245:

“Come si sa, Napoleone non raggiungeva il metro e sessanta di altezza, ma essere piccoletto non era il suo solo difetto, difetto oggettivo almeno per lui, visto quanto se ne tormentava e quanto amava troni e pedane e plantari e destrieri e ogni illusoria prospettiva di superiorità: ne aveva un altro, a parte la sua megalomania furibonda e la perdita di capelli, che spiega gli amanti delle due mogli e la solerte indifferenza sessuale delle altre nei suoi confronti – un amplesso dell’imperatore non comportava altro che girarsi mussolinianamente more ferarum i secondi necessari a una sua eiaculazione precoce -, non godeva nemmeno della Legge di Compensazione (cazzo, ecco quello che gli manca ai tiranni e ai fanatici religiosi, sono tutti uguali ‘sti potenti, dicono che non hanno tempo ma invece non hanno cazzo!). Mentre il medico corso Antonmarchi ne sistemò le spoglie dopo l’autopsia, il medico inglese Henry non poté non sorprendersi nel constatare quanto mirabilmente minuscolo fosse il sesso dell’imperatore e, per togliersi dall’impaccio – e, secondo me, per non tradire la segreta soddisfazione dell’anonimo sicofante che si sente vendicato dall’ultima bassezza nascosta del Glorioso Unto del Signore venuta inesorabilmente alla luce a portare le spiegazioni richieste e mai date, a renderne intelligibile la causa profonda, meschinella, di spicciola umanità, che presiede ogni disegno di totalizzante e coercitivo culto della personalità – ne stese il referto in latino: ‘Partes viriles exiguitatis insignis, sicut pueri’ – era un piccolo che ce l’aveva piccolo, ‘come un bambino’, voilà, da grande come da bambino. E, al di là della sua propria agiografia, Napoleone Bonaparte aveva pur tentato da giovane, ma non sapeva scrivere: scrittore fallito, che gli restava se non diventare un Papa o un Imperatore o, salma imbalsamata traslata da un secolo all’altro, un impresario televisivo alla testa di una nazione con una masnada incensante di ventriloqui decollati?”

Durante il soggiorno a Montréal, Busi appunta le seguenti considerazioni (pp. 272-73):

“Il movimento flosofico e sociopolitico più importante del ventesimo secolo è stato il femminismo unito alla lotta per i diritti civili dei gay e di ogni altra minoranza che adempia agli stessi doveri di chiunque altro della maggioranza, sposarsi e fare fgli non è un dovere sociale, è un’ubbia come tante e ogni cittadino ha le proprie, questa o no inclusa; questo movimento equivale nella storia dell’evoluzione delle idee, sociali e politiche e giuridiche e economiche e culturali e estetiche, a tutto Aristotele, a tutto Kant, al mio amato Spinoza, a tutto Karl Marx e a tutto Proust per i secoli precedenti: immagino che il futuro ridurrà a scorie di una mentalità imperfetta e barbara tutto ciò che si è macchiato del bigotto crimine della misoginia e dell’omofobia, e san Paolo e i cardinali Marcinkus avranno la stessa credibilità intellettuale e morale, e quindi d’investimento finanziario a lungo termine, di Carolina Invernizio e di Vanna Marchi subito. E io, che di tutto questo sono stato uno dei due o tre principali artefici a livello planetario da duemila anni in qua, non ci sarò, puttanadamo! Sarò come il Giorgione, che c’è anche quando non c’è e non c’è anche quando c’è: come per Omero, che è più un fenmeno che un individuo, non sarà il concreto busismo a discendere da Busi, ma Busi l’astrazione umana dal busismo. Avere firmato le mie opere, a differenza del Giorgione, non farà che peggiorare, ingigantendola, la fortuna che mi compete: alcune, non di mio pugno, mi verranno sicuramente ascritte, ma quante scritte da me e da nessun altro che da me col riso che suscito io verranno attribuite a Gerry Scotti?” [Mie le evidenziazioni in grassetto]

Dopo sì vaste e fertili (letterariamente parlando) peregrinazioni, lo scrittore torna al paesello in cui abita a cinquanta metri da sua madre, la signora Maria Bonora in Busi, ultranovantenne. Cito da pag. 295:

“9 maggio 2005, Pieve di Lombardia.
Adesso che da circa due anni non scrivo più niente di organico e di così organizzato da richiedermi anni e anni sia per stesura e limatura che, soprattutto, per concezione e concepimento e aborti e ripregnanze, comincio a chiarirmi alcuni stati d’animo che, scrivendo, avevano la loro consapevolezza implicita nella scrittura ancora mentale e che pertanto non richiedevano alcuna consapevolezza e esterna a essa e esterna in assoluto: da quando non scrivo più (un romanzo, per intenderci, l’unico genere che io consideri organico e che si prendeva tutto me in ogni singola fibra dall’inizio alla fine, e non sapevo mai quanto tempo mi sarebbe costato e nemmeno me ne davo pensiero, poiché non era certo vita che stavo perdendo ma vita in più che stavo guadagnando – certo, non tolleravo intrusioni umane…), be’, da quando non scrivo più non so più niente di me, e forse non scrivo più proprio per arrivare all’oblio definitivo di una sensibilità che mi ha tormentato, e anche deliziato, da quando ho il primo ricordo in assoluto, di me a circa due anni che me ne sto dietro la ruota di un carretto a riposo con le stanghe in alto e ho appena infilato un dito nel culo di una mia coetanea magrolina dallo sguardo improvvisamente impietrito come quello di una tacchina impagliata…”

L’opera si conclude con la toccante trascrizione di una “conversazione rubata” tra la signora Maria Busi e l’amica Pasqua, anch’essa ultranovantenne, entrambe fuori di testa e “balenghe con la memoria”. Pagine tenerissime e demenziali, introdotte dalle parole: “A proposito di fine! Ogni volta che passo da mia madre… “. Fra le migliori del libro :- )

[A. Busi, Bisogna avere i coglioni per prenderlo nel culo, Mondadori, 2006, pp. 306, € 17,50.]