BARI TRA BERLUSCONI E PUNTA PEROTTI

di Vittorio Catani
[Qui tutti gli ‘Schifometri’ di Catani]

PuntaPerotti1.JPGIl 1° aprile 2006 Berlusconi è stato qui a Bari e ha tenuto uno dei suoi ‘brillanti’ discorsi-fiume alla piazza, davanti a 20 mila persone.
Il 2 aprile, dopo un quindicennio di scempio ecologico e della legalità, è stato abbattuto uno dei tre palazzi (rimasti ‘al rustico’; l’abbattimento degli altri due seguirà entro aprile) costruiti in località Punta Perotti, alla periferia cittadina, a pochi metri dal litorale. Uno dei circa settanta ecomostri italiani, al centro di una vicenda intricatissima e contraddittoria: la legge, dopo estenuanti bizantinismi, non ha identificato ‘nessun colpevole’ ma ha decretato che quanto costruito ‘dev’essere abbattuto’. Una faccenda tutta italiana, nata da un intreccio scellerato all’ordine del giorno nella mercantilistica ‘Bari che conta’, figlia dei ruggenti anni ’60/70.
Due notizie forse eterogenee ma che ci toccano profondamente perché, ciascuna a suo modo, si rivela figlia del ‘nuovo che avanza’ fino a sommergerci. Un ‘nuovo’ in cui — è stata la sostanza della tiritera berlusconiana alle masse baresi osannanti — la vera libertà sta nella mistica mano del libero mercato, laddove la sinistra ha come orrido ideale uno Stato pianificatore, cioé punitivo e oppressore, se non bollitore di bambini.

Ho trovato i due eventi angustianti, benché per motivi diversi. Una tv locale rimandava le gesta interminabili di Berlusconi in immagini moltiplicate all’infinito sui maxischermi torreggianti nelle piazze e per le vie più importanti di Bari.

Giungevano i suoi arzigogolamenti da guitto della politica, il solito linguaggio violento arrogante e offensivo, sorriso da marketing, argomentazioni ripetitive e di elementare ignoranza, rivoltanti menzogne, evidente animalesco piacere di esibirsi in un populismo d’accatto che speravamo sepolto o rimosso. Al contempo era palese la massiccia presenza della gente in uno dei comizi più affollati che io abbia mai visto. Si udivano urla, i ‘viva Silvio’, gli applausi a richiesta, i fischi alla sinistra (a richiesta). Persone di mia conoscenza, presenti tra la folla, mi hanno narrato di donne svenute, persone che piangevano, entusiasmi irrefrenabili. E risaltava l’assoluta mancanza della sia pur minima contestazione, dell’occasionale segno di dissenso (non dico delle bordate di fischi, come a Torino).
Lo spettacolo mi ha fatto salire un profondo senso di nausea, sconforto e vergogna. Di folle oceaniche impazzite ne abbiamo piene le tasche. Reazioni Berlusconi a Bari.JPG della folla viscerali e chiaramente isteriche si possono giustificare per Elvis o i Beatles o qualche rockstar. E so che esse sono consuetudine in talune convention statunitensi, dove l’orchestra è sapientemente diretta da una Rose Mary Althea o da politici e industriali il cui carisma sono i miliardi di dollari oculatamente dispensati (roba che comunque appartiene a un mondo che non è mai stato il nostro). Mi è parso inverosimile che ciò potesse accadere oggi in Italia, in questa Italia, a Bari, grazie a un guitto politico dai controversi trascorsi. Un uomo che è ‘sceso in campo’ per far soldi vendendo saponette via tv ma che, forse anche inconsapevolmente, si è creato un vastissimo pubblico ad personam. Grottesco che non ci si renda conto di qualcosa fuori binario, o che siamo al plagio vero e proprio; che col berlusconismo populista fascista e xenofobo, e la sua cornice patinata ma violenta, tocchiamo l’emergenza, il pericolo pubblico.
Sì, mi vergogno di vivere in una Bari che in piazza non ha espresso neanche una punta di sdegno o di protesta, anzi si è felicemente lasciata cullare. In linea, d’altronde, con lo spirito ciecamente bottegaio e ‘apolitico’ (a parole) di questa città. Spirito prettamente individualista che in altri tempi ne ha fatto le fortune commerciali, ma che ora mostra enormi difficoltà nell’adeguarsi a una realtà che esigerebbe una mentalità più aperta e lungimirante, in linea (e online) con i tempi. Una città in cui ottenere un lavoro decente è diventato quasi impossibile; dove cioé occorre essere raccomandati per andare a pulire i cessi dei padroncini di turno e degli industrialotti rampanti; dove se ti rivolgi alle famose agenzie di lavoro trovi — di fatto — già tutto… ‘occupato’, e per esempio puoi attendere da quattro anni una chiamata. Una città in cui striscia un’indifferenza — forse uno sprezzo — per la cultura in genere, cultura salvata da encomiabili ma rare voci nel deserto. Indifferenza che trasuda da mura cittadine peraltro ricche di storia, dalle istituzioni.
Sono gli eterni problemi del Mezzogiorno, forse non solo del Mezzogiorno.

Ho voluto assistere di persona, in diretta — piazzato com’ero sul lungomare affollato — al crollo del primo dei tre palazzi ecomostri. Quegli immobili rimasti incompleti da anni, simili a scheletri (solo colonne portanti e pavimento stagliati contro il cielo) piantati di traverso alla fine del lungomare, furono subito definiti ‘la saracinesca della città’. Ora che il sindaco Emiliano (nuova giunta di sinistra in una terra tradizionalmente appannaggio della destra) ha preso di petto la questione e ha deciso di agire, fregandosene degli innumerevoli cavilli legali frapposti dai costruttori fino all’ultimo istante. Per questo dovrei, come cittadino, essere puntaperotti2.JPGsoddisfatto, e lo sono. Ma non posso liberarmi da un malessere derivante da tutto ciò che Punta Perotti ha significato e significa: spreco di denaro pubblico e privato, di tempo, polemiche e liti a non finire, opportunità mancate, offesa all’immagine della città (già penalizzata da altre macellerie come l’incendio del Petruzzelli); il dover ricominciare sempre da capo; la consapevolezza che, abbattuto il mostro, siamo appena al preludio e bisogna pensare a cosa verrà ‘dopo’ in quella zona: non una discarica abusiva, tanto per dire; sapere che tra coloro che avevano versato l’anticipo per acquistare un appartamento a Punta Perotti c’è anche tanta gente comune, persone come me o voi, che avevano raggranellato un gruzzolo e nel frattempo sono divenute anziane; ma non si sa quanto occorrerà attendere per il rimborso — se il rimborso verrà — e in che misura.

Ci sarebbe da aggiungere, commentare, dettagliare, ma non è il caso. Mi viene alla mente un racconto di Borges, Deutsches Requiem. Lo ricorderete: narra le peripezie di Otto Dietrich zur Linde, modesto, ‘normale’ travet tedesco che si ritrova a fare l’aguzzino in un campo di sterminio. Condannato successivamente a morte per crimini di guerra, a poche ore dalla fucilazione fa una sorta di bilancio esistenziale: “Molte cose bisogna distruggere, per edificare il nuovo ordine; ora sappiamo che la Germania era una di quelle cose. Abbiamo dato più delle nostre vite, abbiamo dato il destino del nostro amato Paese. Altri maledicano e piangano; io sono lieto che il nostro dono sia circolare e perfetto. Si libra ora un’epoca implacabile. Fummo noi a forgiarla, noi che ora siamo le sue vittime. Che importa che adesso l’Inghilterra sia il martello e noi l’incudine? Quel che conta è che domini la violenza, non la servile pietà cristiana. Che il cielo esista, anche se il nostro luogo è l’inferno.” Perché, lascia intendere Borges, quella Germania ha già vinto.
Siamo un popolo di poeti, di navigatori, di santi, e di incurabili coglioni.