di Daniela Bandini

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Charles Willeford, Come si muore oggi, Marcos y Marcos, 2006, pp. 272, € 14,00.

Ho cominciato ad amare questo libro leggendo la biografia del suo autore (trascorse l’adolescenza vagabondando sui treni merci), e l’amore è rimasto tale, dalla prima all’ultima pagina. Pensare che lo scrittore avesse 67 anni quando scrisse questo romanzo conforta l’ipotesi che l’esperienza può fare la differenza, sempre che questa non diventi un’icona da sventolare, una comoda scorciatoia per giudicare tutto con sufficienza e sostanziale compatimento. Ti si appiccica davvero alla pelle l’umidità di Miami, le sue birre, le su Diet Cola, i margaritas, le mescolanze autoctone con la spietata immigrazione cubana, quella clandestina haitiana e quella messicana. Il reclutamento della manodopera immigrata tanto simile al capolavoro di John Steinbeck, Furore, tanto simile che non è cambiato proprio nulla, coi suoi carri scalcinati per il reclutamento e per raggiungere la proprietà, la brutalità selvaggia dei capisquadra, le rigide separazioni razziali implicite e le sue differenze, di salario e di incarico.

C’è un altro motivo per cui ho amato moltissimo il detective Mosely, ed è che porta la dentiera. La porta, la mattina la lava col l’apposito prodotto igienizzante, la mette nel suo bicchiere, la rimette, ecc….Non è questione da poco. Questo oggetto, prezioso, indispensabile e insostituibile diciamo dai 70 in su ma anche prima, non viene mai citato, si parla di squartamenti, stupri, efferatezze di ogni tipo ma di dentiere mai; sarebbe il caso di ragionare sul nostro grado di valori, su ciò che riteniamo più ripugnante nel profondo. E temo che per molti sia più normale parlare di omicidi che di dentiere. Come per le mestruazioni. Nessun autore né, ahimè, nessuna autrice ne parlano mai. Tutti fanno continuamente l’amore con tutti ma nessuna donna ha mai le mestruazioni, nessuna depressione ormonale, nessun impedimento, neanche le coliche dolorose che spesso le accompagnano.
Ma questa è una digressione. Il tenente Moseley lavora in un particolare settore della squadra omicidi, quella dei “delitti freddi”, ossia la riapertura di casi insoluti in parte o del tutto, verso i quali non c’è l’urgenza di un’opinione pubblica assetata di giustizia, ma solo l’onestà di fare o rifare tutto il possibile per chiarire ed eventualmente incastrare i veri colpevoli.. Si tratta quindi di riaprire un caso che fece scalpore all’epoca in cui accadde, dell’omicidio di un grosso professionista, contitolare di una grossa impresa locale, del cui delitto venne incolpato il fratello, che si sosterrà sempre innocente. Era il secondo caso che il detective aveva trattato, e si ricordava tutto benissimo. Ebbene, passati gli anni canonici durante i quali un detenuto non può fare nessuna richiesta di riduzione della pena (minimo quindici anni in caso di omicidio, otto se dichiara la propria colpevolezza), questo fratello, Donald Hutton, decide di andare a vivere esattamente di fronte alla casa del detective Moseley, cioè di piazzarsi su una poltroncina e guardare dal giardinetto fissamente la casa del detective per ore e ore al giorno.
La famiglia di Moseley è numerosa ed eterogenea. Quella che dovrebbe essere sua moglie, Ellita, di origine cubana, una trentatreenne affascinante che si occupa della casa e del figlio piccolo che ancora allatta, è in realtà una collega che a causa di un colpo sparato da un rapinatore ha riportato un’invalidità del 20% in un braccio e così vivono insieme per convenienza e sincero affetto. Col detective le sue due figlie adolescenti, che adorano Ellita e il piccolo, questo per insegnarci che quasi sempre le famiglie migliori sono quelle che si scelgono, e non quelle imposte geneticamente.
Chiariti i rapporti con l’invadente, ma affascinante vicino di casa, sinceramente in Mosey si insinua il dubbio che il processo si debba rifare, che certi dettagli sfuggiti che diventano tanto più fondamentali quanto più ci si riflette sopra, meritino l’attenzione della riapertura del caso. Contemporaneamente al detective verrà affidato l’ingrato compito di indagare in maniera coperta su un caso di sparizioni di lavoratori stagionali haitiani, nelle tenute di un sadico approfittatore.
E’ tremendo ma non scandalizza il fatto che questi derelitti siano trattati alla stregua di insetti da disinfestare una volta che abbiano finito il compito assegnato, per non avere grane con l’immigrazione e la regolarizzazione, ma l’esperienza fatta dall’autore nei suoi vagabondaggi influisce enormemente nella resa dei dettagli. Sembra che davvero per estirpare l’invasione di termiti che devasta le abitazioni dalle fondamenta si usi un potentissimo insetticida a base di stricnina, e che malgrado i cartelli che vengono piazzati ben visibili sulla strada dove si avverte che la casa è stata trattata ed è vietatissimo entrare, scritto in inglese e spagnolo, sia tutt’altro che infrequente scoprire cadaveri di ragazzini che con l’aiuto di un fazzoletto sulla bocca, ovviamente insufficiente, credevano di poter arraffare qualcosa di sostanzioso approfittando dell’abbandono temporaneo dei proprietari.
Il degrado di una prostituzione che si accontenta di un pranzo, di bambini allattati con la diet-cola direttamente dal frigo al biberon, di mescolanze di quel poco di inglese con l’amoralità di chi conosce il valore del dollaro e dei suoi sottomultipli. I casi sono risolti, anche se lasciano lo strascico di fratture, contusioni, e morale a pezzi, e i veri protagonisti della vicenda alla fine solo loro, quelli ritratti nella copertina del romanzo, i coccodrilli. Questi animali spietati, apparentemente sornioni e innocui, capaci di colpire ogni accenno di debolezza o tentativo di riscatto, per trascinarti, metaforicamente e no, dentro una palude sempre più profonda dove nessuno ti verrà mai a cercare. Un romanzo che ti fa compagnia, che ti seduce e ti capisce, nel quale ci si identifica, nel quale ogni personaggio descritto non solo è credibile: è vissuto.