di L. Emmings
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[qui e qui le prime due puntate]

“Le cose non vanno poi così male come può sembrare, Doge”.
La voce, che risuonò nella sala mezza vuota e totalmente silenziosa, fu accolta da lunghi sguardi dubbiosi. A parlare era stato un uomo sulla cinquantina, scavato in visto e nel corpo, i cui ricchi vestiti lo indicavano come facoltoso mercante. Uno di quelli, per la precisione, che costituivano la piccola elite posta alla ufficiosa guida della Serenissima Repubblica di Venezia.
Come lui, una decina di persone era riunita nello sfarzoso salone che era solito ospitare quelle estemporanee riunioni. In effetti, quell’incontro non era previsto. Il Doge li aveva chiamati d’urgenza, quella sera, per questioni della massima importanza “riguardo al futuro della nostra beneamata Repubblica”.

Da quasi un’ora stavano parlando, mentre fuori la luna piena era alta nel cielo finalmente sereno, e i toni della discussione stavano prendendo sfumature sempre più pessimistiche, a proposito della situazione politica ed economica.
Il Doge non sembrava affatto essere delle stessa opinione di colui che aveva parlato. Il suo sguardo nero scivolò sui volti dei presenti, a cercare teatralmente il mercante, e disse con voce impostata dai lunghi anni di politica.
“Forse per te, caro Padoano, che non hai perso ancora alcun bastimento in acque straniere. Ma quanti di questi amici, qui riuniti, può dire lo stesso? I Turchi si fanno sempre più minacciosi, con la copertura dei pirati, ci chiudono i porti e assaltano i nostri vascelli carichi di merci”. Le parole del Doge, ora rivolte a tutti quasi fosse un proclama, vennero accolte da un sordo brusio che smosse il gruppetto di oligarchi. “E che dire dei Genovesi, le cui azioni sono un continuo schiaffo alla Nostra Repubblica? No, amici miei, dobbiamo prendere una decisione… qui, ed ora”.
Il vecchio contabile della Serenissima, Zulian, fece un incerto passo avanti sulle gambe malferme per via della veneranda età.
“Le nuove terre, quelle Indie scoperte da Cristoforo Colombo…”, iniziò a parlare, ma venne bruscamente interrotto da un altro mercante, che tagliò corto liquidando la faccenda con un “Una rotta scoperta da un genovese non è una rotta da seguire”.
Il Doge rimase in silenzio, la mano inanellata stretta al pomolo del bastone ben ritto sul pavimento, a guardare le varie razioni degli aristocratici di Venezia. La discussione stava effettivamente degenerando, piccoli gruppetti si trovavano a parlare e a gesticolare in un caos sempre più acuto di suoni e parole concitate. Sorrise tra sé, sotto il cerone di trucco pallido, nel gustarsi quelle scene paradossalmente divertenti. Lasciò anzi correre, dilettandosi con quella piccola messinscena, sino a quando un movimento dietro ad un arazzo attirò la sua attenzione. Atteso, ecco il segnale.
“E se vi dicessi, amici miei”, disse infine, alzandosi dal seggiolone sul quale aveva passato l’intera serata, “Che la nostra sicurezza è garantita da una delle città che più ci sono nemiche?”.
I toni scemarono, le voci si spensero. Gli occhi, perplessi o corrucciati, si rivolsero fulmineamente sulla figura elegante del Doge, che ora in piedi li guardava dall’alto in basso.
“Ferrara potrebbe avere quello che cerchiamo”, continuò centellinando volutamente le informazioni in suo possesso, preparandosi la strada per quel climax teatrale che gradiva tanto. Gli piaceva, il teatro.iconaferrara.gif
”Ferrara?”. Fu Padoano, il primo mercante ad aver parlato, a fare da eco al Doge. “Cosa state dicendo? Spiegatevi…”. Un borbottio di assenso seguì a quelle parole.
”Ferrara, sì. Da sempre ci ostacola in tutto e per tutto, promuovendo campagne contro di noi o bloccando i nostri commerci nell’entroterra. Gli Este vogliono il potere, vogliono sfidare i Francesi e Tedeschi…”. Socchiuse gli occhi, avanzando di un passo verso gli oligarchi, e continuando a parlare. “Per questo si sono affidati ora a sapienti, per entrare in possesso dei segreti della scienza e dell’alchimia. Il cielo solo sa cosa stiano architettando”.
”Doge, questo già lo sappiamo… tutti in città sanno che gli Este stanno assoldando alchimisti e maghi di dubbia fama. I nostri informatori ci riferiscono i rumori del popolo”.
Lui annuì, con aria grave. “Così è effettivamente. Ma quello che non sapete… è che gli Este sono vicini alla soluzione. C’è fermento nella loro Corte, pare che un Alchimista stia per creare un’arma ultima, apocalittica, in grado di spazzarci via tutti!”. Battè il bastone a terra, per sottolineare le parole dure pronunciate con foga. Gli sguardi erano rivolti verso di lui, e lasciò una pausa prima di continuare.
”Pensate… pensate ad una simile arma in mano nostra. Piegheremo i nostri nemici, toglieremo qualunque ostacolo che ci si pari davanti”. Man mano che parlava, sentiva l’eccitazione salire e quasi la voce gli tremava. “Porteremo Venezia ai fasti di cui è degna”.
Avvennero due reazioni, principalmente: chi, esaltato quanto il Doge, annuì o addirittura battè le mani e chi invece scosse la testa, borbottando. “E diteci… volete muovere guerra al Ducato di Ferrara? Con che armi, con che esercito?”, fu una domanda che giunse all’orecchio del Doge.
Se l’aspettava, in verità. Anzi tutto l’incontro serviva da preludio a quella risposta: “Nessun esercito, né navale né terrestre, attaccherà Ferrara. Sarà un uomo… un uomo soltanto, a combattere questa guerra”. E mentre concludeva soddisfatto, intimamente trionfante, battè una seconda volta il bastone a terra. Questa volta era un segnale, e neanche un istante dopo la porta in fondo al salone sì aprì con un sonoro tonfo.
Entrarono due guardie, riccamente vestite per l’occasione, trascinando un riluttante prigioniero incatenato mani e piedi. Strisciava il passo, costretto dalle catene che producevano un fastidioso sferragliare, mentre il capo era chino in avanti. Il concilio si voltò come un sol uomo verso di lui, osservandone l’aspetto così trasandato e così…volgare.
Era alto, superava i presenti quasi per tutta la testa, e la figura magra era pervasa da una sorta di tensione perenne dei muscoli. Non era massiccio, ma dava comunque una sensazione di forza bruta nonostante le catene. La pelle, sporca per la detenzione e per i giorni precedenti di fuga, era piuttosto abbronzata; il cranio era rasato, gli occhi scuri e profondi, il naso aquilino. La barba era mal rasata, a ciuffi radi sulle guance scavate e sugli zigomi sporgenti. Dal sopracciglio destro un rivolo di sangue ormai rappreso colava lungo il lato della testa. Ma la cosa che molti non mancarono di notare era che delle mani, incatenate strettamente di fronte a sé, solo la sinistra era intera. La destra invece era orribilmente sfigurata, mancavano numerose falangi e l’indice era del tutto assente.
”Signori miei… costui è il famoso assassino, detto il Moncato”. Il Doge sorrideva, indicando il prigioniero condotto a forza al centro della sala. “Per via, come potete vedere, della menomazione alla mano destra. Ora uccide con la sinistra”. Aggiunse con un tocco di macabro compiacimento, notando come il coup de theatre avesse avuto l’effetto desiderato. Tutti guardavo l’uomo, con una sorta di stupefatto timore, e l’uomo guardava loro con espressione torva. ”Sarà lui ad introdursi a Ferrara, è di quelle parti… non è vero, Moncato?”
L’assassino non rispose. Torse solamente le mani, come se volesse liberarsi, e rivolse un’occhiata disgustata al Doge che puntava verso di lui il bastone da passeggio.
”Non è vero?” ripetè pazientemente il Doge, con un lieve sospiro, per poi fare segno ad una delle guardie di sollecitarlo con un pugno diretto alle costole. “Sì”, fu il semplice ringhio in risposta.
”Molto bene… come certo saprete, il Moncato ha tutte le abilità che richiede questa piccola missione”.
”Non è… sleale?”, domandò il tesoriere, con voce rauca, guardando con aperto disgusto l’assassino.
”Sleale? E’ forse leale guadagnarsi la vittoria con stregonerie di vario tipo?” ribattè sicuro il Doge, e senza lasciare tempo di replicare insistette. “Costui arriverà a Ferrara come garzone di Marco Tella, il mercante che funge da nostro ambasciatore. Troverà l’alchimista, troverà il segreto che stiamo cercando, e riporterà tutto a noi”.
”Fidarsi della feccia?” ribattè un altro, alzando la voce affinchè tutti potessero sentirlo. “Siete impazzito, Doge? Liberiamo un assassino con una semplice promessa di tornare?”.
”Non promessa di tornare… bensì per la promessa di tornare libero e ben pagato. Guardatelo!”. Additò il Moncato, silenzioso e cupo al centro della sala. “Può morire ora, in questo momento. Noi gli rendiamo la vita, gli promettiamo ricchezze. Se si rifiuta di collaborare, o cerca di tradirci, avrà metà dei regni europei alle sue calcagna… e l’altra metà che ce lo vorrà consegnare per evitare guerre dispendiose”.
Un nuovo brusio seguì quelle parole, mentre un tacito assenso si formava tra l’oligarchia di Venezia. Quell’assassino sarebbe potuto essere veramente l’asso della manica della Serenissima. Tutti ne conoscevano la fama, e a chi non la conosceva bastava guardarlo in faccia. Quel volto adunco, affilato come la lama del coltello che usava, e gli occhi neri da far paura.
”Portatelo in cella, di nuovo”, disse dunque il Doge, soddisfatto. “Domani all’alba, partirà”.