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[La pubblicazione dell’introduzione della Redazione Odradek al volume Una sparatoria tranquilla – clicca quiha provocato molte reazioni da parte dei lettori, come del resto era nei nostri auspici. Pubblichiamo alcune tra quelle che ci sembrano più interessanti, e accetteremo volentieri eventuali repliche. Ci sembra importante discutere del ’77: un episodio di antagonismo di massa che ha avuto molte anime e che non avendo prodotto, nella sua radicalità, soggetti o tesi facilmente fagocitabili dal sistema, rischia di essere rimosso o ridotto a materia di mero interesse giudiziario. Per non parlare delle ricostruzioni fasulle oggi in circolazione.] (V.E.)

MIRKO:

A me la prefazione a Una sparatoria tranquilla non è piaciuta molto. Condivido (non da ora per la verità) la critica a certo “negrismo” e alle sue spericolate acrobazie.

Ma la redazione di Odradek, che si è occupata della stesura della prefazione, a mio avviso allarga la critica a dismisura passando di colpo da quella al personaggio a quella al movimento. Ai movimenti, quello del 77 e quello attuale.
Legittime le critiche, ma a mio parere, nei termini in cui sono state portate, estremamente generiche e un poco errate.

Metodologicamente: si può criticare Negri, ma si potrebbe evitare di farlo facendolo sembrare il vertice di qualcosa, il capo di qualcuno, da criticare per poi meccanicamente scendere di grado ed attaccare il resto della truppa.

Nel merito: mi sembra che alcune considerazioni in merito alle elaborazioni teoriche del movimento del 77 siano forzate, generiche, e non sostanziate da contro-tesi. Addirittura affibiando loro epiteti ed aggettivi (“povere fino allo sconforto”) evidentemente iperbolici.

Il movimento del 77 avrà anche molti demeriti, alcune teorie azzardate sui rapporti di forza e sull’uso della violenza (peraltro non centrali nell’attività del “movimento” nel suo significato più inclusivo), ma ha anche molti meriti. E’ proprio da quel movimento che nascono le teorie
sul rifiuto del lavoro salariato. Come tutte le teorie sono più o meno condivisibili, ma non certamente inconsistenti o “mistiche”.
E in più, se analizzate nel contesto di quel periodo, assumono un valore “liberatorio” innegabile.

Quelle teorie, lungi dall’avere un valore risolutivo, come credo fossero
consapevoli più o meno tutti in quegli anni, erano frutto delle analisi di condizioni reali, delle condizioni in cui si trovavano i ragazzi e le ragazze di quegli anni, stretti tra la corsa all’efficienza produttiva che esprimeva il più grande raggruppamento partitico alla loro sinistra
(il PCI), il ricordo di un movimento importante come quello del ’68 che produsse un epocale cambiamento nei costumi del paese ma ben pochi rivolgimenti politici, e infine la loro reale condizione di proletari destinati alla fabbrica, in continuità con i padri. Una fabbrica nel
quale il modello produttivo aveva avuto pochi cambiamenti nonostante le lotte.

Proprio il rifiuto di tale condizione di predestinati, assieme al rifiuto del “mito” della fabbrica, animò le convinzioni di molte di quelle persone, all’insegna della riconquista della vita, tradotta nel tempo libero dai legacci del lavoro salariato.
Non si può negare che fu una conquista, benché solo di pensiero, esplosiva, deflagrante un mondo e un modo di pensare stratificato.
Non si guardava più con attesa messianica il sol dell’avvenire, non si era più nello stato d’animo di essere l’avanguardia morale e produttiva nelle fabbriche, al contrario dei padri educati alla corte del PCI.
Si produsse una rottura che è ancora, a mio parere, il più grande lascito di quel movimento.
Ci si riappropriava dell’IDEA della vita, dell’idea dei propri bisogni e si provava a cercarli fuori dalle dinamiche lavorative imposte. E inoltre si affermava la propria soggettività politica non più solo a partire dal lavoro che si svolgeva, ma dai propri effettivi bisogni!
Tanto più che la stessa figura di operaio era cambiata, andando sempre più perdendo le caratteristiche di specializzazione, trasformandosi in quello che molti definivano, a ragione, operaio-massa.

Ora, la redazione nella sua prefazione, critica la presunta velleità di queste teorie, peraltro in larga parte “spontanee” in quanto frutto di bisogni. Vorrei porle delle domande: è lecito criticare una teoria, un complesso di pensiero, in base al fatto che siano superate dai fatti?
Se sì, di quante altre elaborazioni teoriche (magari più “ufficialmente” accettate e percepite come universali dalla critica) potremmo dire la stessa cosa? Anche di quelle più strettamente marxiste.

E’ un lavoro, mi sembra, di decontestualizzazione degli avvenimenti che non aiuta a comprendere la portata di quelle novità che sono ancora le nostre novità: novità nella comunicazione, nel ribellarsi al dominio da qualunque parte provenga, novità nell’autonomia dei percorsi e delle scelte.

Sono d’accordo invece con quanto la redazione afferma in merito alla relazione necessaria tra quell’esperienza e l’attuale “movimento dei movimenti”, necessaria in quanto dall’esperienza, se non la si trasforma in feticcio, si ottiene sempre qualche grado in più di conoscenza.
E sono d’accordo anche con l’augurio che il movimento approdi dai lidi del generico antiliberismo a quelli di un più specifico anticapitalismo.
Ma, data l’eterogeneità del movimento stesso, sarà un percorso lungo, che non necessità a mio avviso di strappi o forzature anche se necessario per rifuggere dal rischio di divenire mero fenomeno di costume.

Ma ho ancora una critica da fare all’estensore/i della prefazione. Lo sguardo con cui di osserva il movimento mi sembra un po’ “italocentrico”. La peculiarità di questo movimento (quella che arriva persino a farlo definire, un po’ azzardatamente, la seconda potenza
mondiale) è la sua estensione geografica, la sua personale e propria idea di globalizzazione dei diritti, dei saperi e delle genti.
Fermarsi a delle riflessioni locali e regionali non inquadra l’attualità e la potenzialità di questo movimento.
Porto Alegre non è stato un episodio fortuito, ma la cifra della “diversità” di questo movimento rispetto alle passate esperienze; il 77 italiano non ne può rimanere fuori, ma neanche assumerne la paternità o
la primogenitura.
E soprattuto, non si può liquidare questa che è la sua caratteristica fondamentale in due righe alla fine del discorso.

ORR:

Belli gli ultimi interventi su Carmilla sia a proposito degli ‘antagonisti statunitensi’ che del ’77 italiano. Sentivo il bisogno di considerazioni che non fossero semplici parole d’ordine o sogni di qualsiasi tipo. Ritrovarsi in maniera sana davanti alla realtà e anche alla necessità di non ripetere gli errori mi fa star bene.
A proposito dei ’70 è curiosa quest’ansia di ‘adesso tutto è diverso’ da una parte e il continuo tentativo di scardinare ogni minima e sana conquista di quegli anni da parte delle istituzioni (altro che ‘amnistia’, la stada è verso il taglio delle leggi meno penose come l’equo canone, già fatto, la 194, in procinto di, e il divorzio ancora no perchè anche il Pirla …non è perfetto :-). A parte gli scherzi, quella di Odradek che leggo oggi su Carmilla è una bella analisi non solo sul ’77, ma anche sui negrismi che non mi hanno mai convinto e che faccio fatica anche a leggere.

GIANANDREA:
Nel ’77 avevo 7 anni, quindi la mia memoria diretta che ho di quel periodo è quella che è: infanzia tutto sommato serena di un bimbo di una famiglia borghese di provincia a fronte di avvenimenti che anche allora per il solo fatto di vederli accadere ti colpivano, nonostante l’età. La prima reazione del bimbo era il rifiuto, rifiutare tutto ciò che seppure alla lontana minacciava un equilibrio, uno stile di vita familiare e sociale più rassicurante e ritenuto senza ombre.
Tuttavia i semi gettati a volte germogliano così come i dubbi finché arrivi a porti delle questioni, magari anche prendendo in prestito le parole “ …rischiavano la strada e per un uomo / ci vuole pure un senso a sopportare / di poter sanguinare / e il senso non dev’essere rischiare / ma forse non voler più sopportare …”.
Cerchi di capire meglio, cercando di non farti fregare, perché c’è sempre qualcuno da tutte le parti che sta lì a suggerirti cosa è meglio, cosa è bello, cosa è giusto dire, fare pensare. Sei attratto da quello che ricordi e perché ora lo vedi in modo diverso, ma contemporaneamente sei respinto; alla fine fai il cane sciolto, fin quando ti dici che anche questo è troppo comodo.

Questa non è una lettura, è una breve e incompletissima riflessione su quello che ha voluto dire per me il ’77 soprattutto dal punto di vista emotivo.
Aggiungo per il momento che ritengo la memoria indispensabile e che essa possa essere una bussola per i movimenti che ci sono e per quelli che verranno; tuttavia la memoria credo non debba divenire un baule da trascinarsi faticosamente appresso e di tanto in tanto da aprire senza troppo costrutto. La memoria è alla fine “essere” e non “trasportare” o “vestire”: se non hai coscienza, un’identità, qualsiasi essa sia, la memoria diventa nozione, diventa fardello, diventa ostacolo a nuove esperienze.

MYRTIL:
Io ho dovuto leggere l’articolo in modo un po’ affrettato ( ahimè appunto il lavoro…), e molte delle perplessità che mi ha provocato me le aspettavo comunque dal titolo…
Il problema principale secondo me è identificare tutto il movimento deimovimenti col “negrismo”, che questo sia o non sia stato ben interpretato dall’autore. Personalmente in tutto questo tempo ho considerato più importanti le posizioni di Latouche di quelle di Negri, e più interessanti
le discussioni fra coloro che sostenevano che la decrescita era necessaria ecoloro che dicevano invece che era un lusso di cui il proletariato solo avrebbe pagato le spese piuttosto che le liti fra chi diceva “impero” e chi “imperialismo”. Quando sono andata a visitare un accampamento dei Sem Terra ho scoperto che tutti loro, in condizioni incasinatissime, si facevano comunque un vanto di coltivare i loro campi senza Ogm etc etc e questo mi ha
fatto pensare che il fatto che noi in Italia tentassimo di organizzare la rete dei gruppi di acquisto solidali era comunque una cosa politicamente importante…

Insomma, non mi sento una verginella (c’è da dire che ho una certa età…) e credo di avere ben presente chi abbiamo davanti. Talvolta mi sembra che una delle lezioni veramente importanti del 77 sia stata: dobbiamo fare presto (il più presto possibile) ma è pericoloso avere troppa fretta.
Semplicistico, lo so…