L’abbandono artistico della “retta via” operato da Blake, Füssli e Goya

di Gioacchino Toni e Gianluca Ruggerini

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Per individuare le radici profonde di un’instabilità che si riverbera anche a livello artistico e culturale, occorre tornare alla Rivoluzione francese. In quanto epigono illuminista ritortosi contro il razionalismo che lo ha generato, essa apre ad una serie di inquietudini esistenziali a cui la Restaurazione – con le proprie risoluzioni politico-militari – non è in grado di fornire soddisfacenti e durature risposte. Ci riferiamo in particolare ai sentimenti di individualismo e di rivolta che in quel fatidico 1789 trovano la prima vera occasione di sfogo, imponendo universalmente l’equazione libertà morale = libertà politica. Nel suo massimo fulgore, l’età dei Philosophes si era mossa nell’alveo di un’incontestata sensibilità “classica”, legata alla positiva armonizzazione di dimensione ideale e tempo presente, ma tra il 1770 e il 1790 cominciano ad emergere in tutta Europa segnali di incrinatura dell’ottimistica fede nella ragione e nei suoi custodi culturali e politici.

L’esperienza tedesca si rivela un passaggio importante. Il movimento letterario dello Sturm und Drang – promosso da autori quali Johann Gottfried Herder, Johann Wolfgang Goethe, Jakob Michael Reinhold Lenz, Johann Georg Hamann e Friedrich Maximilian Klinger, in nome di un rousseauiano ritorno alla “bontà naturale degli esseri” — sostiene a queste date l’esaltazione degli eccessi contro la moderazione (ritenuta un ingombrante retaggio delle istituzioni e delle tradizioni). A seguire, nei vari paesi europei, diverse altre isolate esperienze coltivano la percezione dell’instabilità del tempo presente, della discrepanza epocale tra i vissuti ideali e quelli reali. È in questo agitato contesto che si sviluppa la ricerca di artisti quali l’inglese William Blake (1757-1827), lo svizzero Johann Heinrich Füssli (1741-1825) e lo spagnolo Francisco Goya (1746-1828), a buon diritto considerati anticipatori della stagione romantica. Pur senza rinnegare un’appartenenza culturale tutto sommato ancora illuminista, le loro poetiche interpretano magistralmente la crisi del binomio percezione-mondo esteriore, operandone la sostituzione con quello intuizione-mondo interiore. Alternando il registro violento della rivolta e della denuncia a quello malinconico della fuga nel sogno, che spesso diventa incubo, o nella visione mistica, questi artisti preromantici elaborano, secondo modalità stilistiche differenti, una chiara contrapposizione all’illusionismo naturalistico dell’epoca moderna. Attraverso la rinuncia alla “disciplina” prospettica, il ricorso a rapporti proporzionali “fuori scala”, a semplificazioni formali, a caratterizzazioni innaturali delle figure (tanto nelle forme, quanto nei colori) ed a soluzioni bidimensionali di impaginazione, essi operano un ulteriore avanzamento verso l’arte contemporanea.

L’irruenza visionaria di William Blake

Di origine londinese, dei cosiddetti “artisti preromantici” Blake è senz’altro quello che interpreta con maggior determinazione una vocazione stilistica anticlassica ed antinaturalistica. Pittore, incisore e poeta, la sua ricerca lo pone quale principale anticipatore, a quest’epoca, non solo dell’ormai prossima stagione romantica, ma anche della più generale svolta contemporanea che di lì ad un secolo avrebbero operato gli artisti “postimpressionisti”. Del resto, Blake si pone in una logica di anticonformismo già a partire dalla vicenda personale: in un’epoca in cui viaggiare è un vero e proprio obbligo sociale, per tutta la vita egli non si sposta da Londra, alimentando la propria immaginazione principalmente con studi biblico-teologici, letture shakespeareiane, miltoniane, dantesche e contemplazioni gotiche presso l’Abbazia di Westminster. La stessa l’amicizia con Füssli – the wild swiss, lo svizzero tormentato, per i contemporanei – conosciuto nella capitale inglese nel 1788, lo rinforza nell’eccentricità di un isolamento al contempo fisico e concettuale.
Nell’ambito delle arti visive, praticate quale ausilio illustrativo alla scrittura, la propensione di Blake per le tecniche minori è certamente da collegarsi all’apprendistato giovanile, compiuto tra il 1772 e il 1779 presso la bottega dell’incisore James Basire. Sarebbe tuttavia un errore non cogliere in questa specializzazione anche una programmatica ribellione all’ “illusionismo” della pittura moderna. Contro la centralità di una resa mimetica giocata sul binomio prospettiva-pittura ad olio, consolidatasi dal Rinascimento in poi in un’ottica di esaltazione degli effetti di consistenza materica e di tridimensionalità, Blake persegue attraverso l’acquerello, l’incisione e la tempera valori stilistici decisamente anticonvenzionali, intonati ad un’assoluta bidimensionalità ed inverosimiglianza, secondo una grafia che oggi definiremmo “da fumetto”.
Abbracciando una poetica mistica e metafisica, speculativamente indirizzata oltre l’evidenza terrena, l’arte dell’artista londinese si concretizza in una personalissima filosofia degli opposti, legata alla contrapposizione di immaginazione e razionalità in quanto espressione dell’eterna lotta tra bene e male. In tale logica, tuttavia, pur esprimendo una volontà di sintesi dei contrari, di ricomposizione delle dualità in nome dell’originaria ed incorrotta unità Uomo-Dio, l’autore esalta primariamente l’immaginazione, che diventa il suo vero cavallo di battaglia. Per Blake, essa addita all’uomo la conoscenza assoluta proprio perché si sottrae tanto al limite intrinseco della ragione, quanto all’inganno dei sensi. Sostenere d’altra parte che il “divino” si manifesti nel linguaggio fantastico dell’oracolo e del profeta, concedendosi solo in questo modo alla comprensione, equivale ad alimentare una vocazione visionaria che eleva anche l’artista a veggente e l’opera a vaticinio, secondo il codice onirico dell’illuminazione interiore. Tutto ciò è palese già nei Canti dell’innocenza (1789) e nei Canti dell’esperienza (1794), raccolte concepite da Blake quale espressione delle due opposte tendenze dell’animo umano, e di fatto immagini riflesse l’una dell’altra. In questi Canti – ove secondo un’ulteriore sintesi poesia e pittura vengono coniugate nella modalità grafica della “miniatura a stampa” (con parole e disegni incisi sulla stessa matrice di rame) – Blake evidenzia una netta propensione al simbolismo criptico, alla tensione visionaria ed alla critica sociale.
A partire dal ’90, l’artista inglese intraprende la serie dei grandi libri profetici: Il matrimonio di cielo e inferno (1790), America (1793), Europa (1793), Il libro di Urizen (1794), La Bibbia (1795), Il paradiso perduto di Milton (1804), Jerusalem (1804), La Divina Commedia di Dante (1824-27). Anche in questo caso, l’autore fonde poesia, pittura e incisione, ricavandone uno strumento espressivo unitario con cui affrontare temi quali la natura divina dell’immaginazione e dell’energia, la condizione di separatezza sperimentata dall’uomo, l’originaria unità eterna, l’innocenza e la colpa, l’ipocrisia dell’etica corrente, la sterilità del razionalismo meccanicista, e via dicendo.
Sullo sfondo del pensiero esoterico di Jacob Boehme, di Emanuel Swedenborg, di Paracelso, di Johann Kaspar Lavater, del neoplatonismo e della Kabbalah ebraica, Blake giunge ad elaborare una personale mitologia in cui allucinazioni, fantasmi, simboli religiosi, riferimenti mistici ed elementi letterari trovano senso e gerarchia nella dialettica tra forze “primarie” (per così dire libere di agire e di diffondersi) e forze “secondarie” (in qualche modo irreggimentate, sottoposte a regole). Ne consegue un variegato insieme di personaggi fantastici – abitanti di una dimensione immaginifica in cui mito pubblico e mito privato si confondono – chiamati ad incarnare l’Uomo Eterno (Albione), i quattro elementi (Zoa), l’intelletto e la ragione (Urizen), l’immaginazione (Los), la sensazione (Cherubino) e l’emozione (Orc).
Dal punto di vista pittorico, Blake utilizza nelle proprie opere una sorta di doppio registro stilistico, atto a sottolineare i passaggi concettuali dalla sfera del “primario” (l’irrazionale) a quella del “secondario” (l’ordine logico). In questo modo, la raffigurazione del multiforme universo delle forze “libere” (il florido mondo dell’immaginazione e dell’evocazione mistica, l’originaria ed ingenua beatitudine…) assume i toni diafani di un disegno tracciato per forme fluide ed allungate, percorso da ritmi curvilinei e serpentini che prefigurano l’ispirazione al regno vegetale propria di fine Ottocento. Ne troviamo esempio nella Pietà (1795) o nella Tentazione e caduta (1803-1808), tratta dalle illustrazioni del miltoniano Paradiso perduto: in queste opere, l’impressione di bidimensionalità è accentuata da una stesura del colore (inconsistente e tendente alla monocromia) sottomessa all’astrazione di puri moti lineari, di cadenze spiraliformi intonate ad un effetto di dispersione da “vortice energetico”. Per contro, il versante razionale della visione blakeiana – popolato com’è da forze “irreggimentate” (l’intelletto e la logica, l’ordinante disciplina matematica, l’empirismo e la norma sociale…) – trova espressione formale nella compressione delle masse corporee, nell’esagerazione quasi caricaturale delle volumetrie anatomiche. Le strutture fisiche vengono plasticamente compattate, si potrebbe dire “collassate”. La sensazione non è più quella della leggerezza, ma quella della gravità.
Grande influenza esercita in tal senso la lezione di Michelangelo, maestro per certi versi anticlassico a cui Blake guarda con estrema ammirazione. Prendiamo ad esempio opere come la Creazione di Adamo (1795-1805), Newton (1795) o Il corpo di Abele trovato da Adamo ed Eva (1825): in esse l’autore “carica” letteralmente i corpi, che finiscono per scoprirsi schiacciati su loro stessi in un’irrealistica proporzionalità. È come se l’atmosfera circostante comprimesse l’apparato muscolo-scheletrico dei personaggi, portandolo al limite dell’implosione.
In ogni caso, che Blake adotti il registro della volumetria dilatata (in coincidenza con la rappresentazione delle forze libere) o quello della volumetria addensata (in riferimento alle forze controllate), l’effetto finale è di fondamentale messa in discussione della verosimiglianza naturalistica. Tanto nella rinuncia allo sfondamento prospettico, quanto nell’arbitrio della proporzionalità intrinseca degli elementi raffigurati, l’artista esprime la propria sfiducia nei confronti di un approccio “percettivo” al mondo fenomenico (il che significa, alla fine, sfiducia tanto nella percezione quanto nel mondo stesso). Nella radicalità tematica e stilistica, Blake trova la condanna a quella solitudine propria di chi si sveglia nella notte mentre gli altri stanno dormendo (morirà nel 1827, povero e dileggiato dai contemporanei), ma troverà anche l’assoluzione delle generazioni successive, che prenderanno a modello anticlassico la sua arte, nel ricercare una “totalità” fuori dallo spazio e fuori dal tempo.

(1-CONTINUA)