di Valerio Evangelisti

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Il mio articolo intitolato Malcostume letterario: il contrario di una recensione è rimbalzato da un blog letterario all’altro, provocando una quantità di reazioni. La cosa mi fa piacere: non per bisogni di mia visibilità personale (normalmente mi faccio gli affari miei), ma perché dimostra la vitalità della rete nel suscitare discussioni vive e vivaci, proprio mentre le pagine culturali dei quotidiani e i supplementi letterari grondano delle lamentazioni di barbogi che si chiedono dove sia finita l’effervescenza intellettuale da loro conosciuta in gioventù. Si procurino computer, monitor, tastiera, connessione a Internet e magari lo scopriranno.

Molti scrittori di primo piano sono intervenuti nel dibattito — Lello Voce, Angela Scarparo, Giulio Mozzi (con particolare sottigliezza), Gianni Biondillo, altri che al momento non ricordo. E assieme a loro una pletora di intellettuali “non omologati”, giovani e meno giovani, noti o ignoti, che su Internet hanno appreso a esporsi e a dialogare. Formando quindi una comunità (piccola, certo, e dunque rissosa: si vedano due classici delle dinamiche conflittuali in ambito ristretto, come Il signore delle mosche e L’isola dei famosi), ma comunque una comunità.
A parte la dialettica successiva, quasi più che dal mio intervento iniziale la scintilla è stata accesa dalla replica di Silvia Dai Pra’, ospitata dal blog Lipperatura (cliccare per leggerla). La sede è dovuta al fatto che l’autrice ha cercato in tutti i modi di comunicare con Carmilla senza riuscirvi.
Raccomando a chiunque intenda proseguire nella lettura di prendere visione dell’articolo di Silvia Dai Pra’ che ha suscitato la mia reazione, presente nel sito de Lo Straniero (cliccare).

Replico finalmente alla replica (sperando che tutti abbiano letto quanto indicato, e magari qualche commento):

Gentilissima Silvia Dai Pra’,
anzitutto qualche precisazione “tecnica”:

– Mi scuso di averla chiamata “SDP”, dopo avere peraltro precisato il suo nome. Io stesso mi firmo spesso VE, e non mi importerebbe se qualcuno mi chiamasse così. Mi darà atto che sono stato tra i pochi a scrivere correttamente il suo nome e cognome. Addirittura, uno dei suoi difensori si è indignato perché usavo una sigla, ma al tempo stesso ha scritto il suo cognome con l’accento e non con l’apostrofo.
Carmilla On Line non è un blog, anche se usa per comodità redazionale la “gabbia” dei blog. Non prevede commenti. Ciò si deve anche al fatto che, se i redattori principali sono due (io e Giuseppe Genna, peraltro operanti in maniera indipendente), la redazione comprende una quindicina di persone, più un buon numero di collaboratori esterni. Pochi tra costoro hanno contatti permanenti. Difficile gestire i commenti, in queste condizioni.
Quanto alla difficoltà a raggiungerci, tenga presente che i due redattori più assidui sono spesso in viaggio, o hanno altro da fare. Nei giorni scorsi io ero per l’appunto lontano da casa e dal computer, per cui ho preso visione dei suoi appelli solo al mio ritorno, domenica notte.
– Non ho riportato o linkato il suo articolo perché non sapevo nemmeno che fosse in rete. La mia reazione è scattata quando l’ho letto sull’edizione cartacea de Lo Straniero. Lei, d’altronde, non ha riportato il testo de Lo sbrego prima di scriverci un commento sopra. La questione è palesemente assurda. Il problema investe semmai chi ha preso posizione senza procurarsi le fonti.

Veniamo alla “sostanza”. Letti i suoi chiarimenti, devo purtroppo confermare che il suo articolo non è una recensione de Lo sbrego, bensì un attacco alla personalità, alla dignità, alla poetica di uno scrittore, prendendo Lo sbrego solo quale pretesto.
Lei mi accusa di avere usato nei suoi confronti toni insultanti. E lei, mi perdoni, cosa ha fatto? Si parte da un Antonio Moresco che “posa” e che è da lei assimilato ai “saltimbanchi della contestazione”, si passa a un’accusa di ambizione sfrenata, si ventila la simulazione di piaghe e tormenti inesistenti (o comunque modesti, viste le supposte fortune editoriali), si menziona un accecamento verso la realtà quotidiana confinante col solipsismo. Per finire, si deride il fatto (tra i pochi effettivamente ricavati da Lo sbrego) che Moresco preferisca sedersi a bere una birra tra gli extracomunitari piuttosto che frequentare letterati. Perché questo sarebbe ridicolo? Perché Moresco non è un extracomunitario (!).
Persino quando lei concede all’oggetto della sua requisitoria qualche talento — come nel caso de Gli esordi, “libro stimolante, ben scritto” — finisce col definire l’opera “un romanzone”. Lei forse mi dirà che lo ha fatto perché si tratta di un libro di grosse dimensioni. In quel caso le risponderei: sì, vabbe’, non prendiamoci in giro…

Pensi se io avessi adottato lo stesso sistema. Se, invece di prendermela con il suo articolo, me la fossi presa con lei. Se, menzionando solo di sfuggita le sue tesi, avessi scritto qualcosa del tipo (vado a caso perché di lei non so nulla): Silvia Dai Pra’, giovane critica rampante dall’ambizione sfrenata, propensa a darsi lustro passando sui corpi altrui, usa a sentenziare trascurando la sensibilità di chi cerca di fare a pezzi ecc. E via per una pagina e mezza.
In quel caso sì che l’avrei insultata. Chi mi avesse dato retta, avrebbe poi guardato con sospetto ogni parto del suo ingegno, antecedente o successivo. Avrei stroncato lei come persona, e non ciò da lei scritto.
Io mi taglierei la mano destra piuttosto di fare qualcosa di simile, e anche quando mi è capitato di stroncare uno stroncatore (per esempio qui), mi sono limitato a rivolgere contro di lui le stesse armi che aveva usato contro me e altri.
Lei invece, a mio parere, ha ecceduto, e di parecchio. Si è avventata contro Antonio Moresco come se volesse fare terra bruciata attorno a lui, liquidandolo una volta per tutte agli occhi dei lettori (molti o pochi che siano). Non a caso Lo sbrego occupa un posto molto marginale nella sua invettiva.

Lo sbrego è un’opera singolare, impasto tra narrativa, scorci autobiografici e critica letteraria. Quest’ultimo aspetto, stranamente, sembra essere quello che le interessa di meno. Non entra nel merito di ciò che Moresco dice degli scrittori che evoca, né per contrastarlo né per dargli ragione. Tutto ciò le appare un “impasto monocorde”, puro pretesto perché l’autore possa “autodipingersi in veste pasoliniana”.
Esiste una sola eccezione a questo rifiuto a discutere. Eccola. Fa seguito a osservazioni sulla presunta chiusura di Moresco rispetto a chi e a ciò che lo circonda:
“E un altro nome mai speso tanto impropriamente è quello di Dostoevskij, se non vogliamo dare del rimbambito a Bachtin, che lo considerava il massimo esempio della polifonia, del sostrato profondamente democratico del romanzo.”
Nelle due sole occasioni in cui Moresco parla di Dostoevskij, ne Lo sbrego, si occupa di tutt’altro. Né si paragona a Dostoevskij, né sembra dare del rimbambito a Bachtin. Si limita a mettere in rilievo alcuni aspetti de I fratelli Karamazov e de L’idiota, tanto sotto il profilo della struttura narrativa (i personaggi che si muovono da una casa all’altra, ecc.) che sotto quello della memoria personale, relativo al primo impatto che quei romanzi ebbero su di lui.
Ora, io sono certamente un ignorante in materia di critica letteraria e di Michail Bachtin nella fattispecie (come giustamente e generosamente ha osservato Angela Scarparo). Vengo da tutt’altro curriculum formativo. Però, nei miei confusi ricordi di letture random, Bachtin tratta soprattutto del grado di autonomia, sul piano dei valori e della conoscenza della realtà, che l’autore accorda ai suoi personaggi fittizi, e la trova massima in Dostoevskij, minima in Tolstoj; tanto da considerare il primo di molto superiore al secondo.
Ammessa la permanente validità di simile criterio, quest’ultimo non mi pare trovare congruenza né con le osservazioni di Moresco su Dostoevskij, di tutt’altro genere, né con Lo sbrego inteso quale opera narrativa, che mi pare sottrarsi per sua natura a un’analisi di questo tipo. D’altra parte, non penso proprio che il Bachtin di Marxismo e filosofia del linguaggio (altri ricordi vaghi) avrebbe approvato un’analisi critica a partire dalla presunta psicologia dell’autore, per di più avulsa dal contesto sociale che l’ha formata.
Gentile Silvia Dai Pra’, vorrei un chiarimento (che sarà pubblicato su Carmilla con tutta la tempestività che ci è concessa). Dove e come Moresco spende impropriamente il nome di Dostoevskij, ne Lo sbrego o eventualmente altrove? Dove e come dà, consapevolmente o meno, del rimbambito a Bachtin? Che c’entra Bachtin?

Non mi dilungo oltre. Mi limito ad alcune osservazioni:
– Non ho letto il racconto di Antonio Moresco su Vermicino, e dunque non posso esprimere un giudizio.
– Lei, gentile Silvia Dai Pra’, si chiede, tra i commenti al suo articolo apparsi su Lipperatura: “Perché chi tocca Moresco è sottoposto a una raffica di insulti pari soltanto a chi dice che gli israeliani non gli stanno simpatici?”
Non capisco bene il senso del paragone, se esiste. Si riferisce alle pagine de Lo sbrego sugli israeliani (meglio, sul governo israeliano), che Moresco fustiga con ragionata e condivisibile severità? Si riferisce a me? Boh.
Lei poi pare associarmi ad altri difensori di Moresco, pronti a scattare quando si vilipende il maestro. In realtà, io appartengo a un polo diverso e distante della letteratura (forse, nel mio caso, sarebbe meglio dire “della narrativa”). Non ho avuto a che fare con Nazione Indiana, e magari potrei persino essere annoverato nei ranghi della “Restaurazione”. Lei non mi crederà, ma la mia irritazione è scattata quando ho visto un altro scrittore, tanto diverso da me, attaccato non per il testo specifico che ha scritto, bensì per ciò che è, per ciò che pensa, e per ciò che costituisce il suo mondo immaginativo, per la peculiare poetica che lo guida. Odio queste cose. Una demolizione argomentata de Lo sbrego, sia pure radicale, non mi avrebbe smosso più di tanto. Un linciaggio di chi l’ha scritto sì che mi smuove.
Me ne viene in tasca qualcosa? Faccio gli interessi di una qualche consorteria letteraria? Se ha gli elementi per dimostrarlo, lo dimostri.
– Avevo detto che preferisco non leggere, su una rivista importante come Lo straniero, recensioni malevole quanto le esternazioni di Antonella Elia ne L’isola dei famosi. Lei risponde paragonandomi a Walter Nudo e ad Adriano Pappalardo, senza specificare perché somiglierei a costoro. Da un lato l’accostamento mi lusinga: erano tra i pochi pronti sì ad attaccarsi, ma poco inclini a sparlare dei compagni di spiaggia. D’altro lato, devo ammettere con rammarico che il mio fisico non somiglia al loro.