di Valerio Evangelisti

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Si è svolta la settimana scorsa a Bologna un’importante manifestazione intitolata Le parole dello schermo – Festival internazionale di letteratura e cinema, promossa dall’Assessorato alla Cultura e dalla Cineteca di Bologna. Nel suo ambito, Valerio Evangelisti era incaricato di organizzare una maratona cinematografica notturna – Una notte a Ginevra – che ha avuto luogo venerdì 1 luglio, da mezzanotte alle otto del mattino. Riportiamo la presentazione dell’evento, contenuta nel catalogo del festival.

La notte del 16 giugno 1816, a Villa Diodati presso Ginevra, Lord Byron, Percy Shelley, la moglie di questi Mary, Claire Clairmont (matrigna di Mary e amante di Byron), il dottor J.W. Polidori (segretario di Byron, dopo esserlo stato di Vittorio Alfieri), si sfidarono a concepire prima dell’alba un racconto dalle tinte soprannaturali.

Pare che la suggestione venisse dalla lettura di un’antologia tedesca intitolata Phantasmagoria, che peraltro non è mai stata rintracciata. Esiste una spiegazione alternativa: phantasmagoria era anche il nome dato in Inghilterra alla “lanterna magica”, per la sua capacità di proiettare spettri sulle pareti.
Da quella notte nacquero due opere fantastiche a carattere gotico destinate a fondare il genere horror: Frankenstein o il Prometeo moderno di Mary Shelley e Il vampiro di Polidori (a lungo attribuito a Byron).
Dal gotico si passava dunque all’horror, complice la lanterna magica, antenata del cinema. Il romanzo Frankenstein fu infatti definito all’epoca una fantasmagoria, in quanto scandito in singole scene impressionanti.
La rassegna Una notte a Ginevra si propone di documentare i riflessi cinematografici di quella notte, tanto importante per la letteratura di genere, e per la letteratura in senso lato. Non va infatti dimenticato che l’horror moderno (e persino la fantascienza, se si considera il Frankenstein capostipite anche di questo genere, come hanno fatto Brian W. Aldiss e altri critici e scrittori) nacque per mano di alcuni degli intellettuali più brillanti della loro epoca.
I film scelti, ovviamente diversi per qualità, sono quelli più prossimi all’evento, da molteplici punti di vista. Le moine, del regista Ado Kyrou, ci mostra ciò che “faceva paura” in letteratura prima che Frankenstein e il Vampiro (che solo molto più tardi si sarebbe identificato in Dracula) prendessero vita, con un adattamento molto fedele del romanzo The Monk di Matthew G. Lewis (e una sceneggiatura di Luís Buñuel, a dimostrazione di come la cultura veramente “alta” si contamini spesso e volentieri col genere).
Gothic, di Ken Russell, tratta proprio della notte a Villa Diodati e, nello stile delirante dell’autore, connette la lanterna magica, cioè il cinema a venire, con gli incubi dei protagonisti. Non è un’opera stilisticamente riuscita, ma trasuda di suggestioni.
Ritroviamo Mary Shelley anche in Frankenstein Unbound, forse l’ultimo film importante di Roger Corman. Del testo originale recupera non solo l’allusione al mito di Prometeo, ma anche l’ambientazione di alcune scene al Polo. Inoltre, basato com’è su un romanzo del citato Brian W. Aldiss, scrittore inglese di fantascienza e storico della stessa, sottolinea gli aspetti avveniristici che nelle intenzioni della Shelley forse erano marginali. Ma Corman tradisce lo stesso testo di Aldiss, come è nella tradizione di tutti i buoni registi.
Un discorso a parte merita Vampirismus. Il racconto Il vampiro di Polidori ebbe molte trasposizioni teatrali, però nessuna cinematografica. Quel racconto fu ripreso da decine di imitatori, più o meno capaci, e prima di Dracula, il Lord Ruthwen di Polidori divenne il vampiro per eccellenza.
Tra questi imitatori, per non parlare di plagiari, almeno uno fu illustre: E.T.A. Hoffmann, che nel suo racconto Vampirismus ripercorse i temi originari in una chiave un po’ diversa, in cui l’erotismo latente nel racconto di Polidori fu esplicitato. Del resto, l’aura erotica che circonda il vampiro divenne in seguito una costante, fino a prevalere nel racconto Carmilla di Sheridan Le Fanu (1872). Solo con Dracula, gelido in quanto cadavere, questa componente perderà peso, anche se il cinema, che a volte è vendicatore, la rivaluterà.
Nel 1982 Giulio Questi, regista italiano tra i più visionari e inquietanti (Se sei vivo spara, La morte ha fatto l’uovo), gira una versione televisiva di Vampirismus. I limiti del mezzo li si vede tutti: dalle inquadrature ai ritmi lenti, talora esasperanti. Però la vena dell’autore traspare in alcune scene, forse le più fedeli, nel fraintendimento di fondo, al testo cui si ispirano.
La notte di Ginevra continua insomma a sortire i suoi effetti, e ha dato vita a due miti che, ormai quasi tramontati sulla pagina scritta, continuano a influenzare il cinema: l’uomo artificiale e il morto che succhia il sangue ai vivi. Il fatto è che si tratta di miti ancestrali: bastino il nome del Golem e di Lilith. Ma non mi dilungo su di essi: meriterebbero una rassegna a sé stante.
Sta di fatto che, mentre si abbandonavano con una certa voluttà alla loro fantasmagoria, Mary Shelley, George Byron, Polidori e gli altri aprivano la propria mente a incubi antichissimi. Tanto pervicaci che ancora oggi riescono a turbarci.