di Federica Vicino

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XXXII

Un sole così immediato non potrà che rendere esecutiva la condanna all’istante. Non riesco a pensare ad altro, mentre riprendo la corsa proprio dalla parte della discarica. La melma solidifica sotto i miei piedi; preferisco non domandarmi cosa ci sia imprigionato qui sotto. Ho preso alla lettera le prime parole che Ester mi ha detto quand’è riemersa dal fiume di fango:
– Abbiamo avuto culo, stavolta, ragazzino. Meglio approfittarne.
Straordinaria, Ester! Davvero straordinaria.

Il tifone ha cambiato faccia alla città; o forse sono io a guardarla con altri occhi, adesso. Ma una cosa è certa: le prospettive sono mutate. Ho seminato inseguitori, veri o presunti; ho promesso ad Ester che sarei tornato da lei e dalla bambina sordomuta… di più: ho eluso la sorveglianza del Deposito Sanitario. La morte mi è a un passo; adesso per davvero. Sono vicino all’ingresso delle camere sterili, con tanto di camice, tesserino di riconoscimento e cartella clinica per le mani. Un travestimento ineccepibile.
E’ tutto diverso dal solito: persino il mio nome! Mi viene quasi da ridere: non mi chiamo Eric Drexter, ma “dottor Mingus Sorrel” – così c’è scritto sul mio tesserino.
L’idea è saltata fuori da quell’immonda marea di fango, mentre stringevo a me Nikla e gridavo nelle sue orecchie sorde di star tranquilla, perchè tutto si sarebbe sistemato. Così ho ritrovato la fiducia; un’insensata, assurda fiducia. Così m’è venuta l’idea di cambiare le carte in tavola. Il tifone ha fatto di me uno straccione, e uno straccione può infilarsi nello studio d’un medico, rubare soldi – e, giacchè c’è, far sparire un bel camice intonso e il tesserino di identificazione del Servizio Sanitario vidimato anche dal Dipartimento di Sicurezza Sanitaria, senza destare particolari sospetti.
Quindi sono ricorso ancora una volta alle vecchie e sane lezioni di teatro degli anni del liceo, alla proverbiale regola: mettiti il costume giusto e la parte si recita da sola. Mi sono infilato nel camice bianco e attaccato al prezioso tesserino; mi sono avviato, sereno e tranquillo, per il vialetto costeggiato di erba artificiale; mi sono presentato allo sportello con un’aria sprezzante e severa.
Cambiar le carte in tavola!
– Sono il dottor Sorrel. – ho proclamato, impostando la voce a dovere – Ho un paziente in fin di vita: devo visitare il clone per valutare la possibilità di un trapianto multiplo.
Pochi istanti di routine per l’identificazione, e le porte dell’astronave marziana mi si sono spalancate davanti.
Facile, tutto facile! Il tesserino magnetico di Sorrel ha fatto il suo lavoro alla perfezione: la banca dati del Distretto Sanitario ha dato il suo placet e così è iniziato il balletto dell’ apri e chiudi di porte e portoni.
Ora immense vetrate mi scorrono prima davanti al naso e, immediatamente dopo, dietro le spalle; ogni passo rimbomba cupo in questo corridoio bianchissimo di luce imbalsamata, ogni passo mi accosta sempre di più al mio inatteso destino. Finalmente ci siamo: oltre l’ultima porta sbarrata e custodita che mi si para davanti ci sono le camere sterili, nelle quali dormono i cloni.
– Com’è il nome del suo paziente?
La voce dell’infermiere che mi accompagna mi fa quasi sobbalzare.
Rispondo la prima cosa che mi viene in mente, la più banale, la più idiota. Rispondo:
– Eric Drexter.
Mi staccherei la lingua a morsi: Eric Drexter? Come ho potuto dire una simile stronzata? Eric Drexter?!
La sola idea di vedere in faccia il mio doppione addormentato mi dà i brividi – ma questo sarebbe niente! Se mai riuscirò a raccattare forze a sufficienza per non crollare a terra svenuto, dovrò comunque augurarmi che l’infermiere non noti la somiglianza fra me e il clone, altrimenti…
Mi maledico. In questo maledetto piano di veramente diabolico c’è solo la mia stupidità!
– Drexter con la “D”, – rimugina nel frattempo l’infermiere – quindi… quarto corridoio a destra, ala nord.
Sgrano tanto d’occhi, e al colmo dell’equivoco la situazione si fa quasi paradossale.
– Mi spiace – sospira l’infermiere – questa non è la procedura regolare, ma oggi, capirà, con tutto questo trambusto… siamo senza i Responsabili di Sezione: dovrà visitare il clone da solo, dottore.
E’ un modo elegante, e prudente, per congedarsi da me. “Abbiamo davvero avuto culo…”, mi viene quasi da ridere, ripensando ad Ester.
Rispondo una frase qualunque, a braccio. E intanto tiro il fiato e me la rido… me la rido, sì, in gran segreto, ma con tutto il cuore. – “Approfittiamone!” – E’ solo un modo (maldestro, e soprattutto inefficace) per esorcizzare il terrore. L’ilarità mi si spegne in gola nel giro di qualche istante; il tempo di vedere l’ultima porta che si apre, il tempo di scoprire la prima terrificante sorpresa: le camere sterili… niente è come l’avevo immaginato. Le camere sterili non sono camere, ma grosse incubatrici, nelle quali giacciono cadaveri giallognoli, abbandonati nel buio del coma farmaceutico. Una folla di tubi e tubicini (flebo, cateteri, respiratori, elettrostimolatori) collega i corpi inerti all’immondo macchinario della vita, in costante, sincronico, meccanico, perfetto, paradossale funzionamento.
Quarto corridoio, ala nord… Ora che non sono più controllato a vista, in effetti potrei evitare l’inquietante incontro tete- à- tete col mio clone. Dovrei tornare sui miei passi e imboccare la scalinata esterna, che, secondo il racconto che Sara mi ha fatto della sua fuga, si trova alla sinistra di ogni uscita ed è praticamente incustodita; dovrei salire fino all’ultimo piano, dove sono le stanze dei ricoveri ed augurarmi di trovarla lì… soprattutto dovrei sbrigarmi, perchè la spada di Damocle della denuncia mi pende minacciosamente sul capo: da un momento all’altro il vero dottor Sorrel scoprirà di essere stato derubato – e soprattutto derubato del suo tesserino di identificazione. Il resto verrà da sè, e in un brevissimo arco di tempo, dopo essere corso a velocità supersonica sui fili della rete del Distretto di Sicurezza Sanitaria! Eppoi, se non mi sbaglio, il nome di Eric Drexter dovrebbe essere stato cancellato dalla lista degli assistiti del dottor Sorrel! E quest’idea di affrontare il labirinto del Deposito Sanitario fidando solo sul racconto di Sara… è un’iniziativa quantomeno avventata!
Altro problema: non ho idea di come venir fuori di qui, una volta che avrò trovato Sara, ammesso che riesca a trovarla! Come potrebbero mai passare inosservati da queste parti la celeberrima fanciulla clonata e il balordo reporter-wanted-Drexter?
Mi dibatto fra ogni sorta di pensieri; ma intanto, senza esserne del tutto cosciente, ho raggiunto il quarto corridoio – ala nord. Lo percorro in fretta, guardando solo i piedi dei cloni; il cuore mi batte all’impazzata, allungo il passo, sono arrivato a Dragon, William Dragon; non importa, guardo solo i piedi! Spero, così, che il clone ED 070940 K984, il mio clone, sfugga alla mia attenzione; spero che la vista mi inganni, che i miei sensi rendano i miei piedi assolutamente irriconoscibili a me stesso! Lo trovo perfino verosimile: è possibile che uno non riconosca i suoi stessi piedi. Sono arti insignificanti, poco nobili, lontani dalla vista, assolutamente privi di rilevanza nell’economia totale della fisicità, i piedi!
E’ tutto inutile. Qualcosa interrompe bruscamente la mia corsa: quelli che ho appena visto sono… i miei piedi. Nient’altro che i miei piedi: riconoscibilissimi fra mille altri, gialli, immobili, pietrificati. Credo di essere pietrificato anch’io… invece sto tremando. Lo sguardo mi scivola su, inevitabilmente. Il mio clone è un cadavere duro e compatto, percorso da un respiro molle e stentato che esce da una macchina e in una macchina rientra. La mia reazione… non saprei definirla altrimenti se non “inaspettata”: credevo mi avrebbe fatto impressione guardare la faccia del clone — invece mi fanno impressione le mani. Mi aspettavo nausea, conati di vomito, uno svenimento addirittura! – mi viene da piangere. Temevo che per un singolare, fantascientifico fenomeno, sentendomi così vicino a lui, il clone avrebbe spalancato occhi e bocca chiamandomi per nome – dico la verità: per un attimo l’ho perfino desiderato.
Mi separo da lui a malincuore, pensando che quell’essere che vegeta nella sua bara di cristallo, come una Biancaneve senza speranza, è il fratello che ho sempre desiderato e che mia madre non mi ha mai voluto dare.
L’incubo precipita nella realtà: mia madre. Non penso mai a lei; non parlo mai di lei; non vado a trovarla a casa sua, non la chiamo al telefono. Dall’ultima volta che ci siamo visti è passato un anno: mi aveva invitato a trascorrere il capodanno da lei, in Villa. Io non ho mai festeggiato un capodanno, da quando sono nato. Ma lei questo non lo sa. Io non festeggio mai; non festeggio niente; non ci sono ricorrenze, nella mia vita. Non c’è nemmeno lei, nella mia vita.
Mi scuoto.
C’è un particolare che non posso permettermi di dimenticare: secondo corridoio, ala sud, dovrebbe essere! Vado a intuito: se la “D” è al corridoio numero 4, la “B” deve necessariamente essere al 2. Quanto al punto cardinale, sembra che l’ordine alfabetico crescente vada da sud a nord. Corro fino alla camera sterile che speravo di trovare vuota, e la trovo vuota: il clone di Sara Bestern non c’è! Se solo ne fossi capace, ringrazierei Iddio per questo. Riprendo la corsa, verso sinistra, sempre a sinistra! Il corridoio bianco gira su se stesso, ma in effetti una porta incustodita, alla sinistra del gabbiotto degli infermieri c’è: la imbocco. Ecco le scale esterne. Divoro scalini, a due a due; non so quale forza disumana mi spinga, ma riesco a vincere ogni spossatezza. Ultimo piano. Il panorama è cambiato: non porte scorrevoli ma cancelli con sbarre, e telecamere a circuito chiuso; non più infermiere infilate nei camici d’ordinanza, ma rudi omoni dall’aria minacciosa. Mi guardano di sbieco, insospettiti dal mio ingresso decisamente poco professionale: dalla scala di servizio! La mascherata non tiene più: non servono più nè il camice bianco nè il tesserino magnetico di Mingus Sorrel; servono le maniere spicce di Eric Drexter. Serve l’effetto sorpresa – e la sorpresa, fortunatamente, c’è. Si chiama “pistola”. Si chiama “pistola arrugginita, con matricola abrasa”, che l’eccezionale signora Ester ha meravigliosamente sottratto ad uno dei suoi clienti notturni e saggiamente custodito fra i libri. Pistola custodita in gran segreto, in attesa di farne un utilizzo idoneo. E tutto questo raccontato, deciso e messo in atto meno di mezz’ora fa, fra una risata e una strizzatina d’occhio, mentre si cercava di non rimanere incastrati nel fango che solidificava alla velocità della luce dopo il tifone.
Cosa c’è, ripugnanti custodi dell’ultimo piano del Deposito Sanitario, siete senza parole? Meglio così, luridi bastardi: ci risparmieremo una valanga di inutili chiacchiere! Mollate chiavi e scheda magnetica passe-par-tout, perchè il sottoscritto adesso entra nelle stanze dei ricoveri, si ritrova la sua Sara e se la porta via, che vi piaccia o no.
Obbediscono, con la bava alla bocca: chiavi, scheda… ho tutto. Li chiudo nel gabbiotto, e mi tuffo nella gora dell’ultimo piano. Ho un nodo alla bocca dello stomaco, che si fa macigno di fronte alla nuova sorpresa:
porte – porte – porte… il corridoio è un budello profondissimo che gira e scompare: da un lato piccole finestre piene di sbarre, dall’altro porte di stanzette che non hanno nulla di ospedaliero, ma sembrano, piuttosto, delle orribili celle – centinaia di celle sprangate e con tanto di spioncino serrato dall’esterno; un numero impensabile di camerette soffocate, come se al momento della costruzione del Deposito si fosse preventivato di dover far fronte a un’epidemia di peste. Apro il primo spioncino: stanza vuota. Il secondo: stanza vuota. Il terzo, il quarto, il quinto: vuota, vuota, vuota… Sara! Sara dove sei, rispondimi! Sono io, Eric! Sara, rispondimi!
Dal trambusto che proviene dall’ingresso al corridoio, capisco che gli infermieri sono riusciti a liberarsi dalla trappola del gabbiotto. Li sento gridare, li sento picchiare sul metallo, che reggerà ancora per poco. Mi intimano di aprire; mi chiamano bastardo e figlio di puttana; grida e minacce rimbombano nella desolazione di quest’interminabile fila di stanze vuote.
– Sara, ti prego, rispondimi! Sono Eric! Sara, rispondimi!

XXXIII

Nel pianeta-carcere ho fatto un ingresso da star. I detenuti mi chiamano il necrofilo; per completare le procedure di ingresso c’è voluto il medico, perchè alle guardie faceva schifo praticarmi la perquisizione anale; e il direttore del carcere ha detto che per ora dall’isolamento non mi tira fuori nemmeno il Padreterno, perchè se mi mettessero nella fossa comune delle celle rischierei il linciaggio.
Non importa.
Facessero come meglio credono, non mi importa.
Ho pianto tutte le mie lacrime. Una dopo l’altra. E ora non sento più nessun dolore.
Dicono che al momento dell’arresto mi abbiano pestato, calci e pugni fino a vomitare. Non lo ricordo.
Dicono che all’ingresso principale del Deposito Sanitario, a fare un bel primo piano delle mie belle manette, ci fossero anche le telecamere dello UWDN. Non me ne sono accorto.
Ho continuato a chiamare Sara. Ininterrottamente. Ho continuato ad aprire spioncino e porta di ogni maledetta stanza del maledetto corridoio. Il portone metallico -bontà sua- ha retto fino alla fine; ha resistito eroicamente all’onda d’urto degli agenti della Polizia di Regime; mentre io continuavo a gridare. Senza più speranza, senza più scampo, ho gridato – Sara, ti prego, rispondimi! – E anche adesso, se dovessi aprir bocca, non riuscirei a dire altro: Sara, rispondimi!
Anche durante gli interrogatori mi hanno picchiato. Non importa.
Ora sono solo nel mio isolamento: le orecchie mi ronzano, gli occhi mi bruciano. L’isolamento ha strani colori: luce violacea, pareti verdi, coperta azzurra, pisciatoio giallo. Sono in uno sgabuzzino stretto e lungo che puzza di muffa, in un mondo senza cielo nè terra: serve a sfinirmi. Lo fanno per indurmi a parlare… di che cosa, poi?! Forse della pistola: vogliono sapere dove l’ho presa. E quanto hanno insistito!
Il corridoio dell’ultimo piano del Deposito Sanitario era fatto a elle: un vicolo cieco. Sara, ti prego, rispondimi! — In realtà mi ero arreso già al primo spioncino; solo il mio cuore aveva continuato a dibattersi: mi aveva spinto ad andare avanti, nonostante il vuoto rimbombasse in ogni dove – no, il mio cuore aveva insistito perchè aprissi ogni cella, perchè le frugassi tutte da cima a fondo, una per una! Sara, sono Eric, rispondimi!
Deve essere stato allora. – Sara… – davanti all’ultima stanza le forze devono avermi abbandonato – ti prego… – nessuna risposta, nemmeno lì – rispondimi… – sul limitare estremo del pensiero, le forze mi sono venute meno, tutte assieme, di colpo, e non ho avuto più scampo. – Sara dove sei?! – L’evidenza era evidenza. Sara non c’era.
Sara non c’è.
In rapida successione:
– il boato del portoncino, spalancato a forza da tanti, troppi poliziotti,
– la folle corsa, feroce inseguimento della preda che è già a terra, sfinita. Non importa: infierire, si deve!
– “Attenzione, il bastardo è armato! La pistola, la pistola dov’è? Dove l’hai messa, la pistola? ”
Chi lo sa… persa, gettata via, assieme al camice ed al tesserino del dottor Sorrel; dimenticata in una delle stanzette… non lo so.
Deve essere stato allora. Il branco lanciato all’attacco, la vittima del massacro immobilizzata – senza nemmeno più la forza di guardare. L’agonia, che è una lunga e breve attesa; il colpo di grazia che non arriva mai. Piangevo, sì, piangevo. Rivedevo me stesso, attaccato alla folla dei tubi: le mie mani inerti che nulla avevano sfiorato in tutta la vita, gli occhi costretti al buio, i piedi accostati fra loro. E Sara… che non c’era. Ti prego… rispondimi…

XXXiV

Oggi mi sento più malmesso del solito. Non so quanto tempo sia passato dal mio ingresso trionfale nelle carceri di stato. So solo che da quel momento la nausea mi divora costantemente. Colpa del neon viola, che allieta i miei giorni di detenuto in isolamento in attesa di giudizio! E oggi è giorno di visite: sorprendentemente ce n’è anche per me.
Nel frattempo (c’è stato anche un “frattempo”; anche quello inaspettato!) ho riacquistato la sensibilità, ho recuperato coscienza di me, del mio corpo e di tutto ciò che mi circonda, con effetti devastanti, naturalmente. Il mal di stomaco imperversa; ma c’è anche il dolore alla mascella, il bruciore agli occhi, il senso di soffocamento ogni volta che stendo un braccio e riesco a toccare la parete opposta. Eppoi c’è l’angoscia, quella che sembrava dovesse scivolare via con le ultime lacrime…
Ad attendermi nella stanzetta delle visite trovo una donna bellissima. Non so se sorprendermi o insospettirmi.
Il carcere mi ha reso ancora meno signorile del solito (il che è tutto dire): le frugo con gli occhi nella camicetta, sbottonata fino al punto giusto; un millimetro più giù esplode un seno mozzafiato: ora che ho le mani libere, l’istinto si fa quasi necessità – potrei tuffarmi in quel surplus di rigoglio siliconato e sbrigarmi a fare tutto ciò che si può fare prima che le guardie carcerarie rientrino, affondare me stesso dovunque si possa affondare qualcosa.
– Mi chiamo Christine Medhi. – pronunciano due labbra fruttifere.
Poi il piacere dell’illusione muta repentinamente istinto e intenti, in due soli passaggi, segnati da altrettante frasi.
La prima:
– Sono un avvocato: il migliore che c’è sulla piazza.
Parole che accrescono la voglia di sbatterla contro un muro e scaricarle addosso una buona dose di mascolina ferocia. Non ne ho il tempo; la frase numero due arriva come un razzo:
– Tua madre mi ha nominato per la tua difesa.
Mia madre…
Perchè il dolore si trasformasse in disperazione ci mancava solo lei. Ed è arrivata, puntuale all’appuntamento – ogni volta che c’è bisogno di ricordarmi da dove viene tutta la rabbia che covo dentro, mia madre si ricorda di ricomparirmi davanti.
– Ce l’ho già un avvocato. – taglio corto.
Mi lascio riportare in cella, mentre il migliore avvocato sulla piazza mi partecipa tutto il suo disappunto, con un accanimento che tradisce un’estrazione sociale molto vicina alla mia. Una simile furia trasferita nel luogo idoneo – in un letto – renderebbe la signora Christine Medhi la migliore baldracca che c’è sulla piazza… questione di sfumature.
Io stesso, forse, proiettato nella ridente carriera avviata da mia madre avrei avuto un futuro assicurato. O comunque meno avventuroso e disgraziato.
Mia madre…
Mi lascio riportare in cella. Il carcere ha annullato la mia volontà: non c’è più niente da decidere, non c’è più niente da scegliere. Vado dove le guardie carcerarie mi conducono, indosso la tenuta che le guardie carcerarie mi danno, faccio quello che le guardie carcerarie mi dicono di fare. Mi aspetto di impazzire, da un momento all’altro: prima o poi troverò la forza di picchiare con la testa contro il muro fino a sfondarmela.
Ho dato il benservito all’avvocatessa Medhi senza pensare che ora, per chi sa quanto tempo, non vedrò nessun’altra faccia all’infuori del muso da mastino del mio carceriere. Sono stato avventato. Il tragitto verso il braccio dell’isolamento è lungo e contorto; gli incontri occasionali non mancano, soprattutto oggi che è giorno di visite:
– Oh, necrofilo! Chi t’è venuto a trovare, il becchino?
Un bel paio di tette in effetti avrebbero reso meno penose le operazioni di avvocataggio, che comunque mi toccheranno da qui al giorno del processo; e inoltre la naturale tendenza della signora Medhi a sguainare quel paio di gambe da cardiopalma avrebbe consolato le mie nottate insonni. Sono stato avventato. A ben guardare avrei dovuto saperlo: solo mia madre poteva mandarmi un avvocato così. Le donne sono il suo mestiere.
Mia madre…
Grandiosa carriera, la sua: esordio in lustrini e paillettes, decadenza in villa extralusso, servita e riverita – senza mai un giorno di affanno. Merito di Long J, o L.J. – fa lo stesso. Long J. è l’uomo che l’ha mantenuta dal giorno in cui l’ha conosciuta (in senso biblico, in un motel della periferia sud) fino alla fine dei suoi giorni, ed ora continua a farlo dall’aldilà. Non l’ho mai visto in faccia; di lui non so nulla, se non le iniziali del suo nome: Elle e Jei, per l’appunto, anche quelle scoperte per caso. Ero poco più che un ragazzino. Un documento girò per casa in quadruplice copia per alcuni giorni, subito dopo la sua morte: in calce c’era il timbro di un notaio e una sigla, Elle puntato – Jei puntato. Mi capitò fra le mani, mentre rovistavo nei cassetti di mia madre in cerca di certe pasticche contro lo stress: per pigrizia non lessi gran che, ma mi resi conto che quel documento significava che per l’ennesima volta eravamo sul punto di cambiare casa e vita. La sigla mi attrasse, era scritta in maniera singolare: minuscola la L, enorme e marcatissima la J. Da quel giorno, il misterioso protettore, fu per me Long J; l’uomo al quale, a detta di mia madre, dobbiamo tutto: soldi, agio, villa con piscina e servitori, azioni tutt’oggi quotatissime in borsa… e naturalmente l’avviatissima attività di intrattenimento extralusso e festini erotici. Un giro di non so più quali astronomiche cifre, fra guadagni, numero di ragazze coinvolte, numero di clienti… con redini saldamente nelle mani della signora Aleksa Drexter. Ed un insospettabile potere, legato alla garanzia di assoluta riservatezza, che nell’economia dell’azienda fa da marchio doc. Al punto in cui siamo l’unico rischio reale per mia madre potrebbe essere di finire ammazzata, ma nemmeno questa ipotesi è contemplata nel perfetto piano d’azione che Long J. ha congegnato e consegnato alla posterità prima di passare a miglior vita. Un folto drappello di non meglio identificati mercenari protegge il feudo e la marchesa, e tutti sono a loro volta nelle mani di una onnipotente entità ultraterrena che volgarmente chiamano mafia.
Mi richiudono in cella e le viscere riprendono a torcersi. L’ossessione del neon viola mi toglie il respiro. Ho dimenticato di dire che soffro di claustrofobia – ma qui sarebbe necessario aprire un nuovo capitolo, ed io sono ridotto allo stremo. Non ne posso più.
Sara, ti prego, rispondimi

XXXV

Stamattina non riesco nemmeno a mettermi in piedi. Colpa degli incubi: ho sognato Long J. che mi stringeva le mani attorno al collo fino a strangolarmi; ho sognato la fiumana di fango che radeva al suolo i sobborghi – nel sogno ho continuato a chiamare Ester e Nikla per ore, invano e con lo stesso accanimento con cui ho affrontato il labirinto del Deposito Sanitario. Ho sognato mia madre insieme con Patrich Behlen: erano seduti uno di fronte all’altra e parlavano, fitto fitto; non riuscivo a capire cosa dicessero, ma ero sicuro che parlassero di me. Nel sonno ho colto solo poche frasi sconnesse: “E’ sempre stato un ragazzo difficile…” – “Un introverso, con grossi problemi di socializzazione” – “Nessun dialogo, fra noi: mai”.
Per ripararmi dal neon ormai non posso far altro che rimanere con la testa sotto la coperta e tenere gli occhi serrati; e così gli incubi tornano.
– Ehi, ragazzino, sei peggio del Golem! Non se ne può più di sentir parlare di te!
Chi è? Chi ha parlato?
“Signora Drexter, vorrebbe dire qualcosa a suo figlio?”
“Sì… vorrei dirgli che… che…”
Cos’è questa? La televisione?
“… che nonostante tutto gli voglio un gran bene.”
Lacrime e sigla, nella migliore tradizione del giornalismo scandalistico.
– Ehi, necrofilo! Che volevi fare con quel clone, la Notte dei Morti Viventi?
Mi stringo nella coperta. Dai riflessi algidi del neon si protendono ora delle lame, affondano colpi nell’aria circostante, schiaffeggiano le pareti – troppo vicine, troppo vicine! – sono tentacoli, che si insinuano in ogni dove, sguscianti come serpenti, ma duri e forti come braccia di acciaio; mi sono addosso; li sento penetrarmi nelle membra, stringerle in una morsa.
– No, no, lasciatemi! Aiuto, aiutooo!
Mi afferrano, mi strattonano; uno dei tentacoli mi scivola attorno alla gola: stringe – stringe. Non posso più divincolarmi. E la luce viola mi invade; mi ferisce di nuovo gli occhi fino a cavarmeli.
– Aiutooo!
“Non perdete, alle 14.00, la seconda puntata de ‘Il clone’!”
– Avanti, necrofilo! Non dimenarti così: è peggio!
“Un’esclusiva UWDN, in collaborazione con Interchannel Plus!”
– Finora sei stato tranquillo come un cadavere! Che t’è preso, oggi?
– Cos’è: vedere la mammina in Tv t’ha fatto emozionare?
– Lasciatemi! Lasciatemi!!!
Il fendente viola si fa fulmine bianco: ho gli occhi cerchiati di fuoco, ma non abbastanza provati da non scorgere l’ultima inquadratura che rimbalza sullo schermo della TV, nel gabbiotto delle guardie carcerarie.
Sara… grido, mi dibatto ancora, disperatamente. Finora ho dato di matto – posso continuare a farlo! Non c’è più dignità che tenga, e allora riprendo a gridare, e stavolta per trattenermi di guardie ce ne vogliono quattro. Sara, Sara!!! – ci vuole anche il manganello. Lo avverto in tutto il suo massiccio furore, sulla schiena e ancora sulle spalle, sulla gamba destra.
Maledetti figli di puttana, quella era Sara! Quella era Sara! L’immagine svanisce; mi scaravento contro la TV. Sara! Sara!
– Sei impazzito, necrofilo?!
– Avanti, calmati! Non costringermi a fare quello che non voglio fare!
Quella era Sara ed io sono fuori di me. Ho riconosciuto tutto: ho riconosciuto l’immagine ricostruita ad hoc dal computer di Hipko, ho riconosciuto il canale satellitare del Golem – certo, Interchannel Plus, è così che si chiama! – e la voce di quella carogna di Behlen e le finte lacrime di mia madre, studiate appositamente per la TV e strapagate, naturalmente. Ho riconosciuto la realtà: il neon viola per quello che è, le guardie carcerarie per quello che sono, il manganello, le manette…
Quella è la mia Sara, quella è la mia storia, e voi non potete, maledetti figli di puttana, non potete…
Le guardie provano a trascinarmi da qualche parte; punto i piedi; urlo, urlo e ancora urlo… grido fuori tutta la mia disperazione, e le mie grida scatenano un putiferio nel braccio dell’isolamento. Gli altri detenuti battono sulle sbarre: in pochi attimi l’inferno.
Non potete farlo! Maledetti, non vi permetterò di farmi anche questo!
Avete ammazzato lei e distrutto la mia vita! Avete distrutto l’unica cosa bella che mi era capitata in trent’anni di merdosissima esistenza!
– Adesso basta, Drexter!
Mi schiacciano contro un muro.
Da dentro le celle si leva un oscuro tam tam.
– Resisti necrofilo! Resisti necrofilo! – ripetono i compagni detenuti da dietro le porte sprangate. Li sento appena, sebbene il coro si levi ora poderoso. E’ la prima volta, da quando sono qui, che gli altri prigionieri mostrano un segnale di solidarietà nei miei confronti. Sta per succedere qualcosa di terribile – lo sento. Resisti – resisti!
Le guardie sono diventate sei: facile per loro ridurmi a una nullità. Mi sento forte nella mia disperazione, e non demordo – qualsiasi cosa stia per accadere, non mi arrendo. Resisti necrofilo – resisti!
Finchè avrò fiato in gola continuerò a gridare.
– Luridi figli di puttana: avete messo su un sistema che annienta! Predicavate la vita: avete messo in moto una diabolica macchina della morte! – mi rivolgo, ora, alle guardie carcerarie che armeggiano attorno al mio povero corpo immobilizzato – Non siete che ingranaggi: minuscoli, insignificanti ingranaggi, e ne andate perfino fieri!
Resisti necrofilo!
Uno degli “ingranaggi” mi afferra per i capelli; un altro mi punta alla tempia un arnese con due minuscoli aghi che si insinuano nella pelle – li sento vibrare vorticosamente: riconosco l’orrore degli elettrodi. E’ tardi, e soprattutto vano, tentare di sottrarsi alla tortura.
– Adesso basta, Drexter! – ringhia il secondo ingranaggio.
Resisti necrofilo – resisti!

XXXVI

Dal sonno mortale dell’elettroshock riemergo con una fatica estrema. Ho una sola consolazione: nel buio del coma ho potuto rivedere la piccola Nikla, l’ho sentita addirittura parlare. Mi ha chiesto di tornare da lei e di portarle un regalo.
Tornando a casa dal drugstore, quella maledetta mattina, avevo pensato di portare un regalo a Sara: non ne aveva mai ricevuti, non ne aveva mai nemmeno sentito parlare… mi incuriosiva – e mi inteneriva, anche – l’idea di assistere alla sua sorpresa. Vederla sorridere… mi sarebbe bastato vederla sorridere un’ultima volta. Avrei affrontato tutto questo, e il resto dei miei giorni, con più coraggio e determinazione.
L’infermeria del carcere non ha nulla di confortevole; ma almeno i neon sono del tradizionale colore bianco. Sono abbandonato in fondo a un lettino, in penombra: gli occhi mi restituiscono solo immagini nebulose. Eppure distinguo delle figure umane, su uno sfondo confuso; di nuovo sento un fitto parlottare. Il mal di testa mi dilania il pensiero, e il peggio è che sono completamente paralizzato: riesco a malapena a roteare gli occhi. Scorgo il camice bianco di un medico, la giacca e la cravatta del direttore del carcere.
– E’ cosciente – dice di me il dottore – se vuole può parlargli anche adesso, direttore.
Mi si avvicinano tutti e due: li seguo con gli occhi. Ci guardiamo per un lunghissimo istante.
– Addormentatemi. – chiedo con un filo di voce.
Vi prego, non lasciatemi così: addormentatemi.

XXXVII

Quando ha sancito per me l’isolamento sine die, chiamando in causa financo il Padreterno, il direttore del carcere sicuramente non aveva ben presente che sulla faccia della terra esiste un personaggio assai più potente del Signore Iddio: Patrich Behlen. Lui è uno che può. Può entrare nel carcere, portandosi dietro il sigaro acceso e fumante; può chiedere e ottenere di incontrare un sorvegliato speciale; può tutto. Mi raggiunge, nel mio letto di dolore, senza curarsi di ringraziare la sua buona stella che ha fatto sì che io sia ancora quasi del tutto paralizzato. Il primo impulso che ho, nel vederlo, è di tentare comunque di sfondargli il cranio con una testata.
– Bastardo, continui a far soldi sulla mia pelle! E sai benissimo di aver contribuito anche tu a far andare le cose così come sono andate!
– Non dire idiozie, Eric! – mi apostrofa – Se avessi seguito le mie indicazioni a quest’ora avremmo un sacco di noie in meno! Ed una carta in più da giocarci. Hai voluto fare di testa tua, e questo è il risultato.
– Se mai uscirò di qui, Patrich Behlen, sta’ sicuro che verrò a cercarti, e ti farò vomitare l’anima un pezzo alla volta.
– Sei veramente un idiota, Drexter. Non so perchè ti sto ancora appresso.
– Te lo dico io: perché sei un opportunista.
– I nostri rapporti non si sono mai basati sulla correttezza, Eric. E questa mi pare una cosa reciproca. Tuttavia ti suggerirei di starmi a sentire. – raccapezza le idee, e spara fuori la notizia – Ho fatto fare due indagini dai miei: ho spedito un paio di giornalisti scaltri, di quelli che badano poco alle ciance e molto ai fatti, al Deposito Sanitario.
– E allora?
– Ebbene, da quello che mi hanno detto loro, nell’archivio del Deposito non c’è nessuna cartella clinica che attesti la soppressione del clone SB 300650 K984.
– Questo che vuol dire?
– Può voler dire due cose, Eric: o il clone è stato soppresso senza attivare la regolare procedura, e in questo caso sarebbero guai grossi per i responsabili sanitari; oppure la tua Sara è ancora viva e vegeta.
Taccio: stavolta sono io a dover raccapezzare le idee.
– Non mi prendi in giro, vero? – balbetto.
– Io? Potrei mai prendere in giro la mia gallinella dalle uova d’oro?

XXXVIII
Patrich Behlen non usa nè manette nè manganelli nè elettroshock, eppure la sua capacità di annientare in me ogni volontà è raccapricciante.
Assisto inerte a tutti i preparativi: è stata una resa incondizionata, la mia. Ho chiesto solo che non mi facessero incontrare mia madre – e il direttore ha acconsentito di buon grado (non è un personaggio facile da gestire, la signora Aleksa Drexter!). Il mio corpo è ammucchiato su una sedia a rotelle, le forze latitano, la capacità di concentrazione idem. Davanti ai miei occhi è tutta una parata di luci e macchine pronte a mettersi in moto, uomini che armeggiano, cavi che si stendono da un capo all’altro dello stanzone dei colloqui. Direttore del carcere e guardie carcerarie tirati a lucido, come non li avevo mai visti prima: oggi a nessuno fa schifo stare accanto al necrofilo; anzi, mi si stringono attorno, per rientrare nell’inquadratura. Oggi nessuno si mette i guanti per toccarmi, nessuno brandisce manganelli. Scambio un’occhiata con Behlen, intento a dare le ultime indicazioni: parlerò con lui e solo con lui. Concedo un’intervista in esclusiva allo UWDN, in diretta dal Carcere di Stato, con permesso speciale del Consiglio Superiore di Stato per la Sicurezza (sanitaria e non). Per il grande pubblico sarà lo scoop degli scoop, invece è tutto preparato: quello che Behlen mi chiederà, quello che io risponderò. C’è un accordo, tra noi. Se vogliamo essere precisi, abbiamo rispolverato una vecchia idea; un’idea mia.
Qualunque cosa sia…
Si dovrà indurre l’opinione pubblica a gridare allo scandalo: c’è un momento preciso per farlo, una parola chiave… e sarà tutto finto, così finto da apparire vero. E inevitabile.
E’ una mossa disperata, che affronto con tutta la consapevolezza che il mio stato mi consente… e forse senza nessuna speranza.
– Ci siamo, prendete posizione! – soffia il direttore di studio.
Inizia lo show.
Nei monitor ritrovo un’immagine di me che fa spavento. Il regista insiste sui primi piani – peccato per le guardie carcerarie che ci tenevano tanto a farsi riconoscere in TV! Il baraccone, però, non apre i battenti su di me: la scaletta prevede prima un’intervista di Behlen al direttore del carcere.
– Il caso di Eric Drexter è decisamente fuori dal comune – Nemmeno li ascolto. – Gestirlo, da un punto di vista detentivo, non è affatto facile: ma stiamo facendo del nostro meglio, impiegando un numero di agenti superiore al solito – Già: sei gorilla in divisa per friggere il cervello a una persona sola, e con le mani legate per giunta! Alla malora!
“Per il momento abbiamo ritenuto opportuno non favorire contatti fra Drexter e gli altri detenuti, anche per motivi di sicurezza interna”.
Volgarmente le chiamano “marchette”: nell’economia del do ut des televisivo sono la normalità, si baratta il quarto d’ora di celebrità del potente di turno in cambio del permesso per girare immagini là dove non è permesso girarne.
Sono trascorsi pochi istanti da che siamo in onda, che già il caldo si fa insopportabile; la statuaria fierezza delle guardie carcerarie, alle mie spalle, è già attraversata da banalissimi rivoli di sudore. Guardo ancora Behlen: la sua voce pastosa scivola via senza alcuna fretta. Lui ricambia l’occhiata, per raccomandarmi di star tranquillo: è tutta suspance, che a me non piace, ma che fa audience. Un altro trucchetto televisivo, per dare il tempo allo share di toccare picchi significativi. Di là dalla barricata di luci e telecamere, la confusione è totale, ma tutto dipende da un solo indaffaratissimo personaggio: il direttore di studio; sarà un suo cenno a lanciare il primo fuori onda. Siamo agli sgoccioli: Behlen conclude abilmente, e senza ulteriore retorica, il ripugnante delirio autocelebrativo del direttore del carcere. “Ed ora un breve stacco pubblicitario” – recita in “televisionese”. Nemmeno mi stupisco: avrei dovuto aspettarmelo. Pubblicità.
Tutti si rilassano. Tutti tranne me: ho un formicolìo alle gambe che mi tormenta, un mal di testa inenarrabile, lo stomaco ancora ritorto, dilaniato da una morsa… psicosomatico malessere da claustrofobia: i postumi dell’elettroshock regnano ancora indisturbati nel mio sistema nervoso e non c’è nulla di più penoso dell’immobilità per un claustrofobico. Mi si accosta una guardia carceraria, quella che mi capita di incontrare più spesso: l’unica che ha un aspetto conciliante e bonario, l’unica capace anche di sorridere, talvolta.
– Quando vengo inquadrato, vorrei salutare i miei nipotini… – mi confessa – Dici che me lo lasceranno fare?

XXXIX

– Va bene, Eric Drexter! Ora tocca a te: è il tuo momento.
Nessuna delicatezza: questo è Patrich Behlen. Luci, telecamere, inquadrature – nessun riguardo: questa è la TV. Siamo tornati in diretta, e la ribalta ora è tutta per me. Il direttore-iena riprende in “televisionese”:
– Signor Drexter, come mai tanto accanimento da parte sua sulla vicenda del clone?
Tutto come da copione: domande e risposte. Tutto è stato deciso a tavolino e messo nero su bianco: Behlen dettava, il direttore di studio scriveva, io ascoltavo e memorizzavo. Sono parte del gioco: dovrei piegarmi docilmente alle regole. L’ho promesso – stavolta mi atterrò a quanto stabilito: niente di inaspettato, non farò sorprese. Ora, ad esempio, sulla scaletta c’è scritto:

I. (I. sta per Intervistatore) “Signor Drexter, come mai tanto accanimento da parte sua sulla vicenda del clone?”
D. (D. sta per Drexter) “Perchè, credendola una donna, ho avuto reiterati rapporti sessuali con il clone”.

Così c’è scritto sulla scaletta. Che poi prosegue:

I. “Rapporti completi?”
D. “Rapporti reiterati e completi”.
I. “E questo cosa comporta, secondo lei?”
D. “Questo comporta che il clone potrebbe essere stato fecondato”.

Questo c’è scritto sulla scaletta. E questo c’era nella mia mente, prima del tifone, prima del furto nell’ambulatorio di Sorrel, prima del disperato assalto al Deposito Sanitario… questo era il folle, insensato, estremo tentativo che pure avevo proposto al caro direttore-caimano, e che, secondo lui, “non avrebbe tenuto”.
E’ evidente che le cose sono cambiate — e nel giro di poco: oggi io sono uno scoop tanto quanto il clone evaso, e Patrich Behlen ne è ben consapevole!
Gli punto addosso tutto quel che ho, per esprimere la mia rabbia: uno sguardo inferocito. Mi ripugna, il direttore-caimano; e mi ripugna anche il fatto che continui ad essere l’unica arma di cui dispongo per cercare di salvare la mia Sara.
Sara… – riuscirò mai a parlare di lei come del clone? Potrò mai raccontare di quel nostro “qualunque cosa sia” chiamandolo “rapporti sessuali reiterati e completi”?
Così c’è scritto sulla scaletta e nella mia memoria, che per il resto latita. E io ho promesso; di più: ho dato la mia parola: tutto come da copione, niente scherzi…
Sicchè provo ad attenermi al copione. Dunque, qual era la domanda? Ah, sì – la domanda di Behlen era:
– Signor Drexter, come mai tanto accanimento da parte sua sulla vicenda del clone?
– Perché… perché…
Guardo Behlen che mi guarda fisso.
Guardo Behlen che impallidisce.
“Perché sono innamorato di Sara” – questo vorrei rispondere. Questo vorrei poter dire, perchè questa è la verità.
Questo ho ribadito faccia a faccia con Behlen, sfidando la sua irritante e sciocca ilarità, poco prima di ritrovarmi inchiodato davanti alle telecamere del Golem. E il direttore, con paterna premura, mi ha sconsigliato di esordire con un’affermazione del genere, che potrebbe scatenare malumori e disaffezione nel pubblico, “perchè per il resto del mondo, caro Eric, un clone è ancora solo un clone! Mentre la maternità…”
Già, la maternità. E’ questo il segnale, la parola chiave, il nodo dal quale far saltar fuori lo scandalo, come un tenero coniglietto bianco dal cilindro di un mago!
Qualunque cosa sia…
– Perchè…
Buffa, la sorte. Avevo giurato a me stesso che non avrei mai donato la vita a nessuno, io! Niente figli. Me li ricordo quei pensieri… no, non rifilerei mai una tale fregatura a nessuno! Meno che mai a mio figlio. No, meglio lasciare le cose così: stattene nel tuo etereo limbo, piccola creaturina innocente; non c’è niente di bello da vedere quaggiù, nemmeno tuo padre sarebbe un bello spettacolo a vedersi!
Eppure… se ora scoprissi che il mio seme fosse riuscito a navigare fino all’immenso mare della vita, a strappargli uno solo dei suoi naufraghi e a portarlo fino a me, attraverso il ventre benedetto della mia Sara, beh, così – e solo così! – saprei che Eric Drexter è qualcosa ed è servito a qualcosa.
Impossibile distinguere il delirio dal ragionamento; non c’è più tempo per pensare. L’intervista con Behlen è un bluff, ma dovrà pure servire a qualcosa! E , in definitiva, se c’è un ultimo estremo tentativo, io devo farlo!
– Perchè…
Guardo Behlen, ormai sull’orlo della crisi ipertensiva, e quasi inizio a divertirmi.
– Lei ha mai visto il suo clone, direttore? – esplodo, tutto d’un fiato.
E’ il putiferio.
– Io sì. – proseguo – Io l’ho visto, il mio clone, lì, nel Deposito Sanitario. O meglio: ho visto un uomo privo di sensi, adagiato in un sarcofago trasparente. Un uomo che mi somiglia, certo, mi somiglia in modo impressionante, ma che non sono io. Quell’essere che giace in quell’orrendo deposito di carne umana non sono io. E di sicuro non morirà per salvare la vita a me. Io non acconsentirò mai ad alcun espianto da quel corpo per rimettere in sesto il mio. Mai.
– Fatelo star zitto! Fatelo tacere! – grida il direttore del carcere. Invano, naturalmente, dal momento che non è microfonato.
– Nero, nero, nero! – grida il direttore di studio, quasi con disperazione – Datemi il nero!
– Che assurdità vai blaterando, Drexter? Ti sei bevuto il cervello? – grida la guardia carceraria dall’aspetto umano.
Gridano tutti – è il putiferio. La confusione si trasferisce anche al di qua della trincea. I monitor ammutoliscono: “la trasmissione sarà ripresa il più presto possibile” — vi si legge su, a caratteri cubitali. Come per incanto ricompaiono i manganelli, me ne ritrovo uno incastrato sotto la gola: mi spezza il fiato, annienta le ultime parole, le più importanti, quelle che voglio assolutamente dire.
– Sara non è una cosa, è una persona! Quella che io ho amato, e continuo ad amare, è una persona! E io la desidero non meno del figlio che probabilmente porta in grembo!
Nella baraonda generale incontro un unico sguardo rimasto inevitabilmente tranquillo: riconosco il sorrisetto sottile, incrostato di tabacco.
– Sei un fenomeno, Eric Drexter. – mi sussurra Behlen. Poi, con un’energia inaspettata, chiede ed ottiene che sia ristabilita la calma; chiede e ottiene il silenzio perfino dal direttore del carcere; chiede ed ottiene che le guardie mollino la presa e mi consentano di riprendere a respirare! E’ un fottuto bastardo, ma comunque un mito.
Chiede, infine, al direttore di studio che fatica a rimettersi in sesto, i dati dello share. Ma il direttore di studio fatica a rimettersi in sesto, e così gli risponde il regista, dalla sua postazione un po’ decentrata:
– Novanta.
C’è un lungo istante di silenzio, una nuova suspance che cresce, poi è ancora Behlen a riaprire le danze.
– Novanta?! – gongola — Starebbe per novanta per cento? Scusate, ragazzi, mi state forse dicendo che abbiamo fatto il 90 % degli ascolti?
– No, direttore, – risponde ancora il regista, nello stesso tono trionfante – solo il 92%.
Esplode un entusiasmo da stadio, che disarma tutti i non addetti ai lavori. Ed è ancora putiferio: il direttore del carcere vorrebbe interrompere la trasmissione; piovono reazioni dalle più alte sfere del potere; i telefoni impazziscono; presidente, capo di stato maggiore dell’esercito, l’ordine dei medici della bioetica e della biotecnologia… improvvisamente tutti premono per intervenire nella trasmissione. In cuor mio mi figuro la scena comicissima delle porte del carcere, per una volta gremite di gente che chiede a gran voce di poter entrare. Nella confusione riesco anche a cogliere la strizzatina d’occhio di Behlen.
– Sei un fenomeno, Drexter.
Si torna in diretta per onorare la prima, unica ed ultima vera regola: the show must go on – lo spettacolo deve continuare.

XL

Il mio quarto d’ora di celebrità m’è costato caro; oppure mi ha fatto fare un inaspettato scatto di carriera – dipende dai punti di vista!
Sta di fatto che, spenti i riflettori, mi sono ritrovato come per magia fra i prigionieri politici. Condizione carceraria ancora più dura dell’isolamento, se mai fosse possibile immaginarla. Siamo nel seminterrato ed è vietato parlare a voce alta: questo mi fa sentire più una monaca di clausura che un sovversivo. Ma tant’è.
Non mancano i vantaggi: la mia nuova cella è sempre piccola, ma quadrata e non stretta e lunga; è illuminata da una comune, anacronistica lampadina, di un meraviglioso, asettico colore biancastro. Ogni ingresso e ogni uscita sono segnati da estenuanti operazioni di perquisizione, poichè in questa sezione sono vietati gli effetti personali di qualsiasi genere; sono vietati tatuaggi e graffiti corporei: anche il mio braccio sinistro, attraversato fino a ieri dai tentacoli di una bellissima divinità pagana, ha conosciuto l’ebbrezza del laser e la goduria del post-operatorio senza analgesia.
Non importa.
Mi è arrivata una lettera: unico squarcio di luce in un inferno di tenebre. In realtà era un semplice biglietto, con su scritto un messaggio; diceva: “tieni duro”, firmato “il mangiatore di cocomero”. Qui è vietato inviare e ricevere posta; il biglietto è finito nelle mani della Polizia di Regime, vista l’ambiguità del suo laconico contenuto, ed è ora oggetto di articolate disquisizioni fra loro e me nella stanzetta bassa degli interrogatori. Non importa. Ho potuto leggerlo. E dopo averlo letto ho iniziato a pensare – e non mi sono ancora fermato. Con la mente sono tornato al sobborgo 59, nella baracca di Ester e Nikla: ho immaginato il loro sgomento nel vedermi in TV… ho immaginato come sarebbe stato bello rimanere definitivamente incastrati in quel fango che solidificava, stretti in una morsa fino a soffocare, ma almeno uniti. Ho immaginato l’affannosa ricerca del mangiatore di cocomero… non credevo che Ester l’avrebbe fatto… “non puoi sbagliarti – le avevo raccomandato – gli ho offerto del cocomero di contrabbando”.
Ed eccolo qua, il mio misterioso saggio amico col cappottone; eccolo saltar fuori dal nulla ed affrontare, in tutta la sua mediocre statura, il nientedimenoche signor Sistema!
“Tieni duro”…
Alle volte succede che le urla di qualche detenuto rimbombino nel budello sordo in cui sono precipitato. Puntualmente rabbrividisco: mi sembra di sentire la mia voce. Forse ero io ad urlare poco fa. O forse no. La Polizia di Regime vuol sapere cosa significa quel nome in codice: “mangiatore di cocomero”. Mi metterei a ridere: la cosa è così assurda da sembrare credibile! Nell’era del fiction-language un supereroe chiamato “il mangiatore di cocomero” non dovrebbe avere molte chance; invece la notorietà lo ha già ghermito, il suo nome ha conquistato l’onore delle prime pagine nei fascicoli degli archivi dei Servizi di Sicurezza di Stato; la sua fama è giunta alle orecchie del Direttore del Carcere, che ora mi osserva dall’alto in basso e con sommo disprezzo. Di qui a qualche istante farò la conoscenza del Capo di Stato Maggiore dell’ Esercito Regolare del Sistema, il generale Kozinskij. L’eccezionale spiegamento di forze mi fa capire con precisione quanta e quale rilevanza quest’incontro abbia.
Non mi meraviglia.
Dopo la diretta satellitare, a reti unificate (Interchannel Plus, United World Daily News e GG International), ho conquistato una popolarità inimmaginabile, dentro e fuori dal carcere. Con effetti paradossali; come la comica folla di eminenti avvocati che mi implorano di affidare loro la mia difesa, naturalmente gratis.
Tutto inutile: ho confermato il legale d’ufficio, un ometto buffo e bitorzoluto che parla alla velocità della luce senza mai impappinarsi. Ci siamo trovati subito: io non ho voglia nemmeno di sfogliare i fascicoli con i capi d’imputazione, lui non sopporta di essere interrotto mentre sta parlando. Non c’è voluto molto per capire che siamo fatti l’uno per l’altro: fingere di ascoltare è più facile di quanto credessi, credere di essere ascoltati lo è altrettanto.
Nel frattempo il generale Kozinskij ha fatto la sua entrata trionfale. Lo scopro molto più giovane del previsto; molto più aitante, molto più determinato. Mi pianta addosso uno sguardo che definirei d’acciaio. E’ subito evidente che io e quest’uomo eravamo nemici già prima di incontrarci. Da brava antropomorfa scultura a tutto tondo, dice tutto di sè senza bisogno di aprir bocca: la struttura solida del tronco recita alla perfezione la parte del “corpore sano”; quanto alla “mens”, divisa, gradi, decorazioni ripetono a menadito il vangelo del ben-pensare, nel quale c’è il bianco o il nero, il maschio o la femmina, il giusto o l’errato, il legale o l’illegale, l’essere umano o il clone. E lui è bianco, maschio, giusto, legale e umano. L’acme della vicenda umana chiamata “generale Kozinskij” si svela nel solito banale fraintendimento fra forza e prepotenza (il fraintendimento tipico degli sciocchi). A me, che sono nero, femmina, errato, illegale e probabilmente anche clone, si rivolge sorridendo.
– Eric Drexter, – esclama, come se ogni parola dovesse strappare un oceanico applauso – finalmente la incontro di persona! Le dirò: il re Golem non le rende affatto giustizia! In TV aveva un aspetto piuttosto miserino: pallido, emaciato…
– Avevo appena preso la scossa. — ironizzo.
– Sì, mi hanno riferito anche questo. Pare che la sua esperienza carceraria non sia delle più edificanti.
– A voler essere sinceri, non mi sono mai masturbato tanto in vita mia.
Questa battuta la tenevo in serbo già da un po’, ma -modestia a parte- credo che non avrei potuto giocarmela in un momento migliore.
Tolta la questione del sense of humor, che mi pare assolutamente fuori luogo, va detto che il credo di Kozinskij non prevede bipartizioni anche fra “educato o ineducato”, o fra “raffinato o volgare”. Da un certo punto in poi l’umanità si suddivide in due sole categorie assolute: “degni di essere al mondo” – “non degni di essere al mondo”. E io appartengo senza dubbio alla seconda categoria. L’affronto spazza via ogni residuo riguardo nei miei confronti; ma è un rischio calcolato. Ho deliberatamente provocato il generale per accelerare il passaggio dalla fase di studio dell’avversario allo scontro aperto. Non sono diventato nè un masochista nè un eroe. Ho solo capito qual è il mio ruolo in questo scacchiere: una volta entrati nell’ordine di idee che, comunque vadano le cose, è sempre l’avversario a cascare in piedi, il resto viene da sè.
Kozinskij affonda le sue stoccate, con impeccabile mira: stavolta è tutto dolorosissimo; ogni parola mi trapassa da parte a parte.
– Il Sistema pretende una pubblica smentita! – tuona.
Segno che il putiferio scatenato dalla diretta TV con Behlen è tutt’altro che sopito. Era un’informazione (preziosa, per me), che mi mancava.
– “Pretende?” – ribatto piccato. Ma non è sul lessico che si gioca la partita fra me e il generalone. Il Sistema pretende che venga smentita la notizia della gravidanza di Sara.
Mi rifiuto.
– La notizia è priva di qualsiasi fondamento. – ringhia ancora Kozinskij.
Mi rifiuto categoricamente.
– Lei non ha alcuna prova che il clone fosse stato fecondato!
– Non ci sono elementi nemmeno per provare il contrario. – ribatto (e mi sento stranamente determinato).
– La notizia era falsa e tendenziosa: abbiamo interrogato Patrich Behlen. Quella trasmissione televisiva è frutto di un preciso accordo fra voi due! Lei è un dipendente dello UWDN, Drexter!
– Sì, certo! — ribatto, con un anacronistico ed eroico sarcasmo alla John Wayne — Sono andato io, di proposito, a cercare il clone evaso. Di più: l’ho fatto evadere io. E per un solo ineffabile scopo: innalzare lo share. Tutto in nome del dio Golem. Niente di più. Mi si può definire un sovversivo per questo?
Siamo finiti faccia a faccia, io e Kozinskij: il mio respiro si impasta col suo. Siamo nati nemici, è evidente. Al suo posto io stesso, in quest’istante, sarei crudele e spietato. Lui è crudele e spietato.
– Mi rifiuto di credere che lei sia così ingenuo, Drexter.
(Ingenuo? Ingenuo, io?).
– Il clone SB 300650 K984 è stato soppresso, signor Drexter. E’ stato soppresso subito dopo la cattura, quattro segmenti di tempo orsono.

XLI

Ingenuo.
Ingenuo, illuso… o, più semplicemente, stupido.
Il clone SB 300650 K984 è stato soppresso… – Non importa. Non mi appartiene: non è questa la storia che riguarda me. SB 300650 K984 è solo un codice, che non vuol dir nulla.
Io voglio sapere cos’è successo a Sara. Voglio sapere chi l’ha catturata e perché. Voglio sapere chi l’ha uccisa e perchè. Voglio le motivazioni della condanna; voglio i nomi degli assassini; voglio guardarli in faccia, uno per uno! Voglio risposte… Risposte – risposte! Voglio giustizia! Deve pure esserci da qualche parte nel mondo un senso della giustizia! Beh, io voglio potermici appellare!
Ingenuo – illuso… stupido, chi sa.
Sono un uomo. Sono un essere umano, e voglio potermi appellare ad un senso di giustizia che sia umano! Con tutti gli errori e le contraddizioni che la nostra mediocre umana finitezza ci impone, voglio potermi appellare ad un senso di giustizia che sia umano!!!
Non accetto nient’altro. Nessuna spiegazione… e soprattutto nessuna asettica terminologia bioetica! Il clone è stato soppresso, oppure “addormentato”, così dicono: il clone è stato addormentato. Ma non è vero: la mia Sara è stata uccisa. Questa, e solo questa, è la verità. E loro sono degli assassini.
Assassini.
ASSASSINI!
ASSASSINIIIII!!!

(13-CONTINUA)