di Chiara Cretella

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Paul Verlaine, Parigi divoratrice di apostoli. Sette storie così, Castelvecchi, Roma, 2004, pp. 157, € 15,00.

Negli anni che vanno dal 1888 al 1890, Verlaine pubblicò in rivista la maggior parte delle novelle raccolte sotto il titolo Histoires comme ça, negli stessi anni, precisamente tra il 1886 e il 1891 Verlaine trascorse 952 giorni negli ospedali parigini. Morirà pochi anni dopo, nel 1896, mentre la sua fama cominciava ad allargarsi a buona parte dell’Europa. Ma, fino alla fine dei suoi giorni, Verlaine si chiese che ne sarebbe stato delle sue amate Histoires comme ça, che non riuscirono, mentre l’autore era in vita, ad avere la fortuna della pubblicazione. La curatrice, Claudia Cardone, ricostruisce la “sfortuna critica” di queste novelle, e più in generale della prosa di Verlaine, considerato universalmente prima di tutto un poeta, anzi, “il poeta maledetto” per antonomasia.


Questo misto di curiosità biografica e mitizzazione deriva, senza dubbio, dalla sua vita assolutamente scandalosa per i tempi, e dalla sua unione totalizzante con Arthur Rimbaud, per cui il poeta lasciò la moglie Mathilde, e con cui iniziò una lunga peregrinazione nell’Europa del Nord.
Ma torniamo alle Sette storie così. In Due parole di una ragazza il giovane X. s’innamora della bellissima Marie, una prostituta con cui inizia a convivere in una camera in affitto nel ventre di Parigi. La narrazione è condotta per immagini talmente evocative da far sentire l’odore affascinante dei sotterranei della città maledetta, le storie inutili e sublimi di questa nuova modernità urbana, cantata epicamente da Baudelaire, ed eternata dalla pittura impressionista. E sono proprio questi i richiami della prosa di Verlaine, come si evince da questo passo, emblematica trasposizione di motivi cari al pennello di Degas, ma anche di Zandomeneghi:
«Dopo aver attorcigliato in modo sommario i suoi stupendi capelli in un fiero chignon, fece bollire dell’acqua che, miscelata ad acqua fredda, versò in un catino di ferro smaltato, lavandosi, senza indugiare, dai piedi in su. (…) Oh che corpo! Oh, dal collo alle dita dei piedi, questo candore latteo che si alternava, palpitando, al rosa marmoreo (…). X aveva osservato molte donne in mille posizioni diverse. Ma mai un corpo così bello».
È l’occhio del poeta-pittore che inquadra la scena, e dichiara una poetica dello sguardo, del taglio netto da macchina fotografica, che è la stessa tecnica usata per tranciare, a volte senza chiusa, la prosa di queste novelle.
In Charles Husson, il giovane e virile Charles, protettore di Marinette, arriva a rubarle un cliente, ribaltando la scena di gelosia tra i due uomini in uno scambio di sguardi erotici. È l’apoteosi di Parigi come fiera sconosciuta e divoratrice, creatrice di ambiguità, in cui le storie sono semplicemente esistenze, rese quadro dalla cornice sublime di una città matrigna.
È cosi che L’Abate Anne, mandato come vicario a Parigi, ragiona della grande città con le lacrime agli occhi, non volendo abbandonare la serenità della campagna per le tentazioni cittadine: «doveva lasciare anche i suoi bravi confratelli dei dintorni – per andare a farsi inghiottire in questa terribile Parigi, lui debole, questa Parigi mangiatrice di apostoli e divoratrice di profeti». La città diviene il simbolo della perdizione, della lascivia e della libertà, dove più forti convivono le contraddizioni sociali, specie nella grande massa del proletariato, accorso alla ricerca di lavoro.
In questo coacervo di storie, tra le vecchie case cadenti che si arrendono agli anni, corroborato dall’atmosfera fin de siècle, c’è ancora spazio per la fiaba e per il soprannaturale, come dimostra la parabola di Storia di uno sguardo e della novella La mano del Maggiore Müller, in cui ritorna il tema, ben diffuso, del corpo diviso, si pensi solamente a Storia di una gamba di Tarchetti.