Il lungo addio a Russ Meyer (1923-2004), poeta del soft-core

di As Chianese

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“Perché la gente guarda i miei film? Secondo me perché i miei film glielo fanno venire duro”.

“ …Grazie per il SOGNO AMERICANO da involgarire e falsificare fin quando la nuda vergogna non vi risplenda attraverso.
…Grazie per l’ultimo e più grande tradimento dell’ultimo e più grande dei sogni umani”.

William S. Burroughs Giorno del Ringraziamento — 28 novembre 1986

Nell’anno in cui un famoso regista tedesco, Wim Wenders, girava uno dei più irriverenti e poetici documentari mai realizzati sulla terra dell’abbondanza, gli States, moriva un americano dal cognome tedesco, che di opulenza e finto conformismo a stelle e strisce se ne intendeva più di tanti mediocri mestieranti: Russ Meyer, regista per vocazione e provocatore per professione.

Era stato uno dei precursori della beat generation, forse un uomo di lettere mancato amante della letteratura dei “poveri viaggi” di Jack Kerouac, dei deliri in poesia di Allen Ginsberg e della prosa allucinata di Billy Burroughs. Capace di essere un famoso e celebrato fotografo di riviste patinate “adult only” e di passare alla regia, senza rimpianto alcuno, con grande disinvoltura come per una prosecuzione naturale del suo mestiere. Mantenendo un personalissimo e talentuoso stile, un grande carattere. Cosa che gli ha sempre causato non pochi problemi ma che nel segno di un’ostentata autarchia, che è stata sempre la sua croce e delizia, lo ha consacrato regista indipendente dalle mode (caso mai era lui a lanciarle) e dalle convenzioni, “best mind” della sua controversa generazione.
Nacque nel 1922 a Oakland (California) e a vent’anni già era cineoperatore durante la seconda guerra mondiale. Non ci volle molto perché il giovane Russ, dopo il conflitto, scoprisse che la sua vera passione era tutto ciò che avesse a che fare con un obiettivo e una pellicola. Divenne, in breve tempo, fotografo professionista e iniziò a ritrarre bellezze déshabillées per la famosa rivista Playboy. E’ del ’55 il suo primo servizio di successo con una modella che diverrà in seguito sua moglie. E’ forse, da questi primi passi nel mondo della pornografia, che Meyer capisce quale è la sua strada. Capisce anche quale è la sua perversione più manifesta, il suo inconfondibile marchio di fabbrica: gli enormi e debordanti seni delle protagoniste dei suoi servizi fotografici e dei film che dirigerà. Hanno il fisico di vere e proprie veneri preistoriche, le statuette della fertilità con seni e natiche sproporzionati in segno di fertilità, le modelle che si cimenteranno col suo cinema, il suo sguardo indiscreto nella camera da letto del cittadino medio americano. Le sue supermaggiorate sono il simbolo, appartengono a quello speciale feticismo che adesso si definisce “big tits”, tanto che una volta dichiarò di girare esclusivamente “film di tette” e che le dive hollywoodiane piatte e magre gli davano il voltastomaco. Nei suoi film non c’è amore ma solo donne inquiete e vogliose, uomini che divengono giocattoli d’amore sullo sfondo di un America perversa e ancora rurale, e soprattutto tanta inconfondibile, sana, lussuria.
Il suo primo film The Immoral Mr. Teas (1959) lo fa subito conoscere come un pornografo agli occhi del pubblico, relegandolo a un ruolo marginale anche a causa di molte accuse di immoralità partite dai soliti benpensanti. Sono i risultati al botteghino, unico grande vero giudice per un regista, però, a spianare la carriera nel genere a Meyer. Appartengono agli anni ’60 i suoi film di culto che lo hanno portato a una graduale rivalutazione da parte della cosiddetta critica seria e impegnata. Lorna (1964, sottotitolo italiano: troppo per un uomo solo) e Motorpsycho (1965) sono i suoi piccoli grandi capolavori. Il primo è la storia di una casalinga americana frigida che scopre il piacere sessuale soltanto concedendosi a un galeotto in fuga, umiliando il serioso marito. Mentre il secondo, anticipando di un anno il cormaniano I Selvaggi (1966) e di ben quattro l’ Easy Rider (1969) di Dennis Hopper, è l’apologo di una nazione violenta in cui una banda di teppisti motorizzati di cui fa parte un reduce del Vietnam fa stragi e stupri per poi morire a colpi di bombe per mano di due vedovi. Una sorta di delirante mutazione de Il Selvaggio (1954) con Marlon Brando. Due film in fin dei conti drammatici, che meritano ancora di più rispetto a quel cupo fascino da cult semisconosciuto che si sono, negli anni, guadagnati.
Russ Meyer durante gli anni successivi mette a segno parecchi colpi vincenti, come dimenticare Faster, Pussycat, kill! Kill! (1965), in cui si fanno strada soluzioni registiche innovative e un profondo amore per una costruzione semplice dell’apparato realizzativo della pellicola. Con attrici non professioniste “rubate” agli studi fotografici dei giornali che l’America sconcia compera a pacchi nelle edicole. Meyer all’inizio degli anni ’70 è già un riconosciuto maestro, il re del sexploitation, ed è amato addirittura dalle femministe per aver fatto delle sue attrici delle vere e proprie dominatrici, le vere regine della stanza da letto.
Dopo gli anni ’70, dopo Carne Cruda (1972) che è l’ultimo suo grande film, il regista avrebbe avuto un progressivo declino, causato dall’insorgenza di nuove leve nel porno statunitense, dallo sdoganamene dell’industria del piacere in tv e dal ricco mercato dell’home video. Sono le sfrenate conigliette della San Fernando Valley e minare il successo dei suoi nuovi film. Opere con anima e cervello, ma soprattutto con una grande esaltazione del fisico. Uno sguardo felliniano improvviso e suadente sulla realtà. Sarebbe piaciuta allo sporcaccione Russ, rielaborare a modo suo la maggiorata tabaccaia dell’Amarcord (1973) di Federico Fellini? Lo strano rapporto con cui tenta letteralmente di soffocare con un grosso seno un ragazzo ben più piccolo di lei, incitandolo non a soffiare ma a succhiare i suoi grossi capezzoli simili a falli in miniatura? Non abbiamo dubbi.
Russ Meyer è morto per l’aggravarsi di una banale polmonite. Aveva 82 anni e della vita aveva vissuto tutto, aveva visto e filmato troppo. La sua vita era stata intensa e soprattutto senza alcun compromesso. Debordante, come le forme delle sue attrici preferite. Passerà ancora per Quentin Tarantino, suo grande fan, il suo definitivo rilancio? E tristissimo, francamente, scoprire come questo che da alcuni anni è un vero e proprio assioma debba presupporre per forza la morte del “riscoperto”. Forse non è esclusivamente un italico vezzo onorare i grandi solo dopo la morte.
Certamente nel luogo in cui è adesso, il maestro Russ, se la starà sghignazzando felicemente accanto ad una delle sue angeliche o diaboliche supermaggiorate.