di Ennio Caretto

7179022.gifWASHINGTON – E’ il 3 febbraio del 1943. David Bruce, il capo dello spionaggio Usa in Europa, riceve un dispaccio dell’agente 110 da Berna. «L’agente 488 – dice il dispaccio – riferisce che Hitler si nasconde in un bunker sotterraneo nella Prussia dell’Est e che chiunque voglia vederlo deve passare ai raggi X». L’agente 488, continua il dispaccio, «conosce bene i tratti psicopatici di Hitler e crede che adotterà le più disperate misure fino all’ultimo, ma non esclude che si suicidi». Il dispaccio esorta lo spionaggio americano «a prestare la massima attenzione alle analisi dell’agente 488 dei sinistri leader del nazismo tedesco e del fascismo italiano: il suo giudizio sulle loro possibili reazioni agli eventi mi è di grande aiuto nel valutare la situazione». L’agente 110 è Allen Dulles, il fido di William Donovan (Bill il selvaggio), il fondatore dell’Oss, il servizio segreto Usa. L’agente 488 è Carl Gustav Jung, un maestro del pensiero europeo, l’ex «principe ereditario» di Sigmund Freud nel regno della psicoanalisi.

La collaborazione degli agenti 110 e 488, vagamente nota ma di cui s’ignorava la profondità, è l’oggetto di un capitolo di una biografia affascinante di Deirdre Bair, già vincitrice del premio National per un’altra di Samuel Beckett e un’altra ancora di Simone de Beauvoir. Jung – così s’intitola il libro di quasi 900 pagine pubblicato da Little Brown – si rivolge innanzitutto agli studiosi, è la monumentale ricostruzione di una vita e un insegnamento straordinari. Ma apre anche uno squarcio inatteso sulle simpatie politiche del grande e discusso psicoanalista.
Come il filosofo tedesco Martin Heidegger, lo svizzero Jung, morto nel ’61 all’età di 85 anni, fu accusato di antisemitismo e di collaborazionismo. Secondo i critici, il padre della teoria seminale dell’inconscio collettivo, che coniò termini celebri come «la nuova età», si prestò alla propaganda ariana. Bair lo contesta. E’ vero, afferma, che Jung, forse per antagonismo a Freud, rilasciò dichiarazioni sulla «psicologia degli ebrei» che vennero strumentalizzate dai nazisti e che fino al ’40 fu presidente della Società medica di psicoterapia da essi controllata. Ma in quella veste, «cercò di salvare i colleghi ebrei, li aiutò a iscriversi ad associazioni di altri Paesi per proteggerli e aiutò finanziariamente i pochi che riuscirono a riparare in Svizzera». Dulles lo giudicò «genuinamente ostile al nazismo e al fascismo».
Sulla base di documenti inediti e di interviste con i discendenti di Jung, Deirdre Bair ne ha ricostruito il percorso politico. Per qualche tempo, forse nell’illusione di potere influenzare gli eventi, scrive, Jung collabora con Matthias Heirich Goering, il cugino del gerarca Hermann Goering. Ma dal ’18 Jung teme che «la bestia bionda si svegli e qualcosa accada in Germania» e l’ascesa di Hitler – e di Mussolini in Italia – glielo conferma.
L’incontro dei due leader a Berlino nel ’37, incontro a cui assiste, aumenta il suo disagio. Sostiene la Bair: Jung, che ha accomunato il presidente americano Franklin Roosevelt ai due dittatori e a Stalin, si augura che la Germania venga divisa: a suo parere, sarebbe l’unico modo di preservare la pace in Europa. Allo scoppio della seconda guerra mondiale, Jung ha 65 anni, è malato. Nel ’42, respinge la richiesta di un medico tedesco di andare in Germania a psicoanalizzare Hitler. «Il medico gli dice apertamente che un gruppo di alti ufficiali è preoccupato del comportamento irrazionale del Führer, che si è messo a bere – spiega la Bair -. Ma non gli dice che gli ufficiali sperano in una diagnosi che convinca i vertici a deporre Hitler e a finire una guerra che sanno di perdere». Pochi mesi dopo, Jung è invitato a partecipare a un altro complotto. Tramite un amico comune, lo psichiatra Wilhelm Bitter, il generale Walter Schnellenberg, il capo dei servizi segreti nazisti all’estero, gli chiede di comunicare agli alleati che la Germania vuole disfarsi del Führer: è pronta all’armistizio per rimanere libera di battersi sul fronte russo.
Questa volta Jung acconsente, ma il suo emissario a Londra viene intercettato. E’ il momento dell’ingresso in scena di Allen Dulles come assistente all’ambasciatore americano a Berna. Dulles contatta un’americana sposata a uno svizzero, Mary Bancroft, che diverrà la sua amante e che appartiene alla cerchia di Jung. Il suo obiettivo è di arruolare un agente segreto nazista, Hans Berndt Givesius, distaccato alla ambasciata tedesca. Givesius è un uomo dell’ammiraglio Wilhelm Canaris, il capo dell’opposizione a Hitler. Bancroft ne diventa l’interprete e Givesius accetta di collaborare. Ma la donna è convinta che Jung, che riceve continue informazioni dalla Germania, possa essere altrettanto utile a Dulles. Grazie a lei, i due lavoreranno assieme.
A guerra terminata, l’agente 110 dichiarerà che «le attività dell’agente 488 devono rimanere riservate» e rifiuterà di scendere nei particolari. Deirdre Bair è convinta che siano state preziose. Rivela che persino il generale Dwight Eisenhower, il futuro presidente degli Stati Uniti, si è avvalso del servizio di Jung: nel ’45, gli ha sottoposto i volantini per la popolazione civile lanciati dai suoi aerei sulla Germania affinché si arrenda pacificamente. «Dovete appellarvi al lato migliore dei tedeschi – suggerisce Jung – al loro idealismo, al loro amore della verità, alla loro decenza. E’ importante che colmiate il buco della inferiorità morale, è molto più efficace della propaganda distruttiva».
Jung non lo sa, ma quello stesso anno a Washington l’Fbi, la polizia federale americana, chiuderà il dossier aperto su di lui alcuni anni prima per sospette simpatie fasciste e naziste.

[dal «Corriere della Sera» del 26.01.2004]