307.jpgdi Luigi Alfieri
[prefazione al saggio di Michele Martelli, Il secolo del male – Riflessioni sul Novecento, ManifestoLibri, 24.00 €]

Non molto tempo fa, qualcuno ha voluto insegnarci che la storia era finita. Che il mondo era entrato nella forma ultima e definitiva del suo ordine. Che l’ultima incarnazione terrena del Male era stata sconfitta. E tutto il resto sarebbe venuto da sé, in un mondo, se non perfetto, in continuo perfezionamento, secondo una linea di sviluppo ormai certa, acquisita per sempre.
È strano con quanta facilità gli uomini credano alle favole. Gli intellettuali (o cosiddetti tali) non meno degli altri, anzi. A molti, una simile posizione sembrò degna di essere condivisa; a quasi tutti sembrò almeno degna di essere divulgata e discussa. E giù articoli e saggi, su questioni assai meno serie e concrete del sesso degli angeli e della lana caprina.

Ma la storia è dispettosa, e ci ha quasi subito svegliato da questo comodo sonno, in una maniera davvero brutale. E, siccome parecchi tra noi il lusso di cullarsi tra i morbidi guanciali dell’eterno presente non possono permetterselo, perché un presente non l’hanno, e la loro storia non è mai neanche cominciata, forse una simile scrollata ce la siamo meritata.
Solo che, dalla fine della storia, abbiamo subito tentato il salto nell’iperstoria, in una storia corrusca, ferrea e tonitruante: clash of civilizations. Favola un po’ meno comoda, ma favola anch’essa, anzi complementare alla precedente, in ultima analisi finalizzata al suo recupero: perché, insomma, la storia deve finire con noi, no? Noi abbiamo la scienza, la tecnica, lo sviluppo economico ad infinitum, la libertà, la democrazia, la società aperta… Siamo i buoni, quelli che debbono vincere. Pensavamo di avere già vinto, ma c’eravamo dimenticati qualche cattivo in giro, evidentemente. Contrordine: la storia non è finita. Non ancora. Dobbiamo terminare il lavoro. Poi, allora sì, la faremo finire. E tutto sarà in ordine.
Così, dalla favola del Bene definitivamente conseguito, un passo indietro, verso la vecchia, vecchissima favola della lotta del Bene contro il Male. Dove il Bene è nostro, siamo noi, e su questo la più aperta di tutte le società mostra la più stretta chiusura che mai si sia vista.
Dobbiamo continuare così? Basta un po’ di onestà intellettuale per capire che c’è qualcosa che non funziona, in questa storia finita/infinita. Che è «storia» in un altro senso: proprio una vecchia storia ammuffita, di quelle che non si raccontano più neanche ai bambini. Eppure, questa vecchia storia, oggi, è la politica internazionale. Una politica molto pomposa e molto stupida, dove l’idiozia e l’opportunismo si ammantano come Morale. Ed il sonno della ragione, ben più agitato e meno riposante di prima, tuttavia continua. E prima che diventi un incubo da cui risvegliarsi urlando, forse è il caso di pensarci.
Questo tocca ai filosofi, se il loro mestiere ha un senso. Perché le cose si sono ingarbugliate a un punto tale che non è più il caso di lasciarle nelle mani dei tecnocrati, degli economisti, degli specialisti vari di problem solving, e tanto meno dei politici e dei generali. Ci vogliono rimedi radicali. Dunque, bisogna andare alle radici, alle profondità del problema. Bisogna capire qual è il terreno di origine, il punto di partenza, il principio cardine, da cui si è sviluppato il garbuglio. Da qualche parte, forse molto, molto tempo fa, abbiamo iniziato a sbagliare. Altrimenti, non si capirebbe come mai stiamo continuando (e nell’ultimo secolo si può dire che non abbiamo fatto altro) a rendere la terra un inferno con la ferma ed entusiastica convinzione di procedere a gran passi nel trasformarla in un paradiso. Anche i ciechi (tranne quelli volontari) vedono che nessuno nella storia ha fatto più male dei paladini del Bene, sotto tutte le bandiere e nelle più svariate tonache e uniformi. Finché qualcuno li ha fermati, e i paladini si sono trovati sotto processo, se non altro sotto il processo della Storia. E qualcuno gli ha detto che erano dei folli, dei fanatici, degli assassini, che avevano sterminato innocenti e devastato nazioni intere. Suscitando il più sincero stupore: ma come, non era quello il loro dovere? Non stavano combattendo per la Giusta Causa? Non stavano agendo per il bene dell’umanità? Non stavano togliendo di mezzo i cattivi, per preparare la felicità universale?
No, qui bisogna fermarsi a riflettere. Qualcosa non va. Se per il bene dell’umanità milioni di uomini debbono morire, se per rendere gli uomini felici bisogna punire chi vorrebbe essere felice a modo suo e non a modo nostro, se la parola intelligenza è riferita il più delle volte a bombe e missili, dobbiamo ricominciare daccapo. Proprio dai fondamenti. Quando parliamo di Bene e Male, cosa intendiamo? Come si modifica nel tempo il nostro intendere a questo proposito? Come siamo arrivati al vicolo cieco di oggi? E come facciamo a uscirne?
Di questo parla il libro che presento. Che è il libro di un amico, e per questo lo presento, senza con ciò volermi arrogare un’autorevolezza superiore alla sua. Ed è un gran bel libro, pregevole stilisticamente, di grande chiarezza espositiva, intessuto di originali e solide argomentazioni, a mio parere il migliore dei suoi scritti, almeno di quelli che sono di mia conoscenza. Poche, marginali e trascurabili le cose che non condivido.
Michele Martelli, da laico, da intellettuale di sinistra, da marxista deluso (come tutti i marxisti oggi), da marxista sconfitto (come tutti) ma non arreso (come non tutti), ha capito che per trattare a fondo il problema del Male (non il problema morale, astrattamente ed asetticamente inteso, ma proprio il problema del Male, del dolore, della morte e della disperazione trionfanti nella carne e nel sangue degli uomini) bisogna partire da molto lontano. Cioè dall’inizio. Cioè dal fondamento ultimo di ogni nostro sforzo di progettare storicamente un cammino verso il bene, un compito riguardo al bene. E questo punto di partenza, ovviamente, è Dio. C’è un principio metafisico di Bene, assoluto, puro, eterno? Si possono, si debbono da questo principio ricavare norme assolutamente cogenti per l’agire umano? Nasce da questo principio un destino umano di lotta per il Bene, di tendenza al Bene, di salvezza finale nel Bene (e perciò di colpa per il Bene mancato, di disperazione e dannazione per il Bene tradito)? Il nodo originario del problema è la teodicea. Più precisamente, la teodicea monoteistica. Prima del monoteismo, gli uomini conoscono gioie e dolori, virtù e vizi, norme e costumi. E conoscono, anzitutto, il limite supremo della mortalità, che rende impensabile per l’uomo ogni assoluto. Non conoscono, dunque, il Bene e il Male. Solo dopo nasce il grande problema, e la grande sfida di un Dio onnisciente, onnipotente e infinitamente buono, che vuole l’uomo salvo, però lo ha fatto limitato e peccatore, e pretende da lui un Bene assoluto di cui è costitutivamente incapace. E il Male diventa paradosso e scandalo, il Male è sempre più ingigantito dalla stessa enormità abissale della sua presenza in un mondo che ha come principio il Bene, e dovrebbe dunque essere buono. Da qui ha origine, e Martelli lo documenta ampiamente, quello che Kant ha definito il fallimento della teodicea. Che consiste poi nel caricare l’uomo di un peso insostenibile: il doversi impegnare per il Bene assoluto nell’ambito della sua costitutiva limitatezza, che rende per lui una necessità di fatto il compiere comunque il male. Fino allo scandalo ultimo e assoluto della impotenza o complicità di Dio di fronte al male umano: la fine della teodicea è la «teologia di Auschwitz».
A quest’atroce nodo conducono tutti i percorsi: è questo trionfo del Male assoluto a rendere ineludibile il problema. Proprio perché, come Martelli, non senza spunti polemici, continuamente ripete, la più profonda atrocità di Auschwitz consiste proprio nella sua non unicità, anzi nella sua tragica, spaventosa «normalità». Ci sono aspetti orrendamente unici della Shoah, ma la Shoah di per sé è tutt’altro che un unicum storico. Proprio perché il caricare di assolutezza la vicenda terrena dell’uomo, l’introdurre nel mondo un’esigenza di perfezione che, nell’orizzonte storico del monoteismo, finisce sempre per riprodurre una sorta di dualismo manicheo, tende a radicalizzare i conflitti fino al totale rifiuto e disconoscimento dell’avversario, fino a considerarlo un principio non umano di male. La politica si teologizza, lo Stato diventa etico, dunque la violenza politica si carica di un’estrema distruttività, finisce per implicare come unico possibile compimento lo sterminio dell’avversario, in quanto barbaro, selvaggio, miscredente, eretico, «traditore del popolo», non-uomo. La categoria del totalitarismo non appare adeguata per comprendere questo problema, pur essendone certo una manifestazione drammatica. Troppi fenomeni storici ne ricadono al di fuori, pur avendo in comune con essa il parossismo distruttivo della violenza e del disconoscimento di umanità: si pensi al colonialismo, ad esempio. Anche in questo caso il nodo è più profondo e più sostanziale, e si trova precisamente nel punto di intersezione tra le forme istituzionali del politico (lo Stato, ma anche l’anti-Stato, come i partiti e movimenti rivoluzionari) ed esigenze transtoriche ed assolutizzanti che caricano le istituzioni di compiti perfettistici di fronte ai quali ogni fenomeno di diversità o dissenso appare una negatività intollerabile. Non solo la teodicea naufraga ad Auschwitz, ma anche l’eticità dello Stato e del politico in generale; e nello stesso naufragio incorre d’altra parte pure la pretesa che il politico abbia propri principi valoriali diversi da quelli della morale. Sia l’assolutizzazione politica del bene, sia l’assolutizzazione del politico nella sua autonomia hanno portato storicamente, e ben più di una volta, allo scatenamento illimitato della violenza, alla disumanità eretta a sistema.
Le grandi tragedie del Novecento, il «secolo del male», ci pongono di fronte a un altro nodo problematico, che a differenza dei precedenti è caratteristico dei nostri tempi: l’intreccio tra il problema morale e quello della tecnica. Anche sotto questo profilo Auschwitz è una realtà cupamente paradigmatica. L’esigenza etica follemente stravolta di eliminare dal mondo la negatività dopo averla fanaticamente proiettata su altri uomini portatori di una diversità deformata in non-umanità, l’onnipotenza dello Stato assunto come supremo orizzonte del bene e come culmine di un destino storico e transtorico insieme, incontrano qui un terzo elemento che ne moltiplica all’infinito le potenzialità catastrofiche: la disponibilità di un apparato tecnico-burocratico di distruzione senza precedenti, e una mentalità tecnico-burocratica capace di assumersi come compito «normale» la gestione della distruttività su vastissima scala. Anche qui Auschwitz, ma non soltanto: Martelli insiste che non bisogna dimenticare Hiroshima. Auschwitz è la colpa dei vinti, inglobata e come esorcizzata entro la categoria del totalitarismo, e dunque allontanata da noi. Hiroshima è la colpa dei vincitori, che è rimasta impunita, che non è stata adeguatamente elaborata, e di cui soprattutto non si è compresa la portata fondativa riguardo al mondo attuale. Se ad Auschwitz tutta l’umanità, delle vittime e dei carnefici insieme, risulta posta come superflua, come illimitatamente disponibile per la logica burocratica delle procedure di morte, con Hiroshima questa realtà trionfa su scala planetaria, e l’essere uccidibile in ogni momento e per qualsiasi ragione diventa una caratteristica dell’uomo in quanto tale. Ma questo, osserva Martelli, trova nella tecnica il suo orizzonte di possibilità, non la sua causa. La demonizzazione della tecnica distorce il problema, non lo risolve. La tecnica rende possibile la distruzione, ma non è la tecnica a decidere per essa, ed anzi, non è stata la tecnica di per sé a costituirsi in così grande misura come apparato di distruzione almeno potenziale. Anche qui sembra tornare una sorta di equivoco teologico: il male dell’esistenza umana viene riferito a forze transumane, costituendo l’uomo come strumento o vittima, impotente e quindi innocente, di qualcosa che lo travalica e non consente scelte. Non si può fare della tecnica una sorta di surrogato di Dio senza ricadere in tutte le aporie insite nella teologizzazione del problema morale. Come ammonisce Martelli, in un modo che a qualcuno potrà sembrare provocatorio: «La storia morale dell’umanità potrà forse migliorare, semmai lo potrà, solo in un mondo pluralista e laicizzato dove, in un rinato spirito di neopaganesimo, non siano violati i limiti dell’umano e del naturale. Dove, nonostante la tragicità dell’intreccio dell’azione umana cosciente e delle sue motivazioni pulsionali con la casualità e l’imprevedibilità storica degli eventi, la responsabilità del bene e del male, senza deroghe e senza alibi teologici, rimane imputabile soltanto agli uomini».
Infine, l’ultima forma del male, quella storicamente più caratteristica degli anni che stiamo vivendo: il male immanente ad un mondo che ha eliminato ogni confine. Dal confine tra uomo e natura, trasformando quest’ultima da orizzonte di necessità e fondamento ontologico a mero deposito di materie prime e fonti energetiche da sfruttare, al confine tra le identità umane, individuali e collettive, in un’economicizzazione generale dell’esistenza che è anche la neutralizzazione di ogni contenuto di esperienza, di storia, di cultura, di valori, in vista della trasformazione del mondo intero in mercato. Il male globale, e dunque la globalizzazione come male. Ed è quello che stiamo ora vedendo, sempre che non siamo volontariamente ciechi. La democrazia identificata senza residui con l’economia di mercato, la libertà convertita in individualismo economico, ogni tipo di resistenza contro quest’omogeneizzazione del mondo bollata come arretratezza superstiziosa, fanatismo, tirannide, malvagità, fino alla nuova forma in atto della guerra del Bene contro il Male, che tutti almeno indirettamente ci coinvolge, i cui esiti sfuggono ad ogni capacità di previsione, ma che non lascia presagire nulla di consolante.
Qui il cerchio si chiude, provvisoriamente, con acquisizioni importanti di consapevolezza storica e teoretica, ma, certo, senza soluzioni. L’unica cosa che non bisogna chiedere ai filosofi, del resto, sono le soluzioni. Il loro compito è di rendere chiare, ineludibili, consapevoli le domande, chiudendoci le vie di fuga che porterebbero a soluzioni false e ulteriormente distruttive. Così nasce non la soluzione, ma l’orizzonte in cui essa è pensabile e costituisce una possibilità storica concreta. Un orizzonte che così Martelli delimita: «Non ci sono facili vie di uscita, facili “uscite di sicurezza”. Ontologicamente soggetti-oggetti del dramma storico, autori e vittime al tempo stesso, siamo noi a progettare quel dramma, facendo leva sulle “linee di forza” della storia, siamo noi a scriverlo e interpretarlo. Ma le sue trame, i suoi sviluppi e i suoi finali, plurali e provvisorî, permanentemente da riscrivere e reinterpretare, sono affidati non solo a noi, ma anche al caso e alla sua imprevedibilità. Perciò ci sfuggono, e possono travolgerci». Il dramma storico è riportato alla sua contingenza, alla sua costitutiva carenza d’assoluto che, proprio perché ridimensiona le possibilità dell’uomo e lo richiama continuamente al suo limite, gli conferisce la responsabilità piena ed esaustiva delle sue azioni, e dunque la capacità e il compito di scegliere.