L’impegno intellettuale in una città che lentamente viene risucchiata nel vortice di un rozzo edonismo. “Gli amati dintorni.Filosofia, arte, politica negli specchi della memoria” di Fulvio Papi.
di Augusto Illuminati

papi004.jpgLa nuova casa editrice Ghibli sta pubblicando una serie di testi di Fulvio Papi, che prolungano il suo fervido magistero dopo la conclusione dell’insegnamento a Pavia. Sono già uscite le Lezioni su la Scienza della logica di Hegel (Milano 2000, pp.91, €.10.30), così notevoli per lucidità e stringatezza, ed è imminente un volume intitolato Sull’educazione. Al di là della produzione professionale, il filosofo si è ora volto a ripercorrere il paesaggio e i tempi in cui fu protagonista di battaglie politiche e culturali, dalla direzione lombardiana dell’Avanti! a quella della Casa della Cultura e della Fondazione Corrente. Gli amati dintorni. Filosofia, arte, politica negli specchi della memoria (Milano 2001, pp.234, €.21.00) rivisitano gli anni milanesi Quaranta-Settanta con una vena di sottile tristezza, su cui vale la pena di soffermarsi.

Non si tratta soltanto della rievocazione di cari scomparsi (Antonio e Rodolfo Banfi, Enzo Paci, Vittorio Sereni, Cesare Musatti, Mario Dal Pra fra gli altri), neppure della constatata chiusura di un periodo di Milano e della sua polifonica cultura di sinistra. L’ esergo “Mais où sont les neiges d’antan?” sarebbe ingannevole se preso alla lettera. Non il tempo inesorabile ha cancellato le tracce, ma gli uomini, il ceto politico-amministrativo e gli speculatori con esso collusi hanno distrutto una certa Milano, l’hanno trasformata in città da bere nei frivoli anni Ottanta craxiani, l’hanno chiusa infine in una cupa centrale affaristica nei berlusconiani Novanta, sfasciandone allo stesso tempo la forza economica, la severa grazia urbana e la vivacità artistica e culturale, senza che la breve parentesi di “Mani Pulite” le conferisse nuovo vigore e tanto meno glamour.
Lo scritto postumo (1992) di Dal Pra, in un volume collettivo dal significativo titolo Pensare Milano, ricordava il ruolo decisivo che la metropoli lombarda aveva svolto nella formazione sua e di tanti altri, grazie alla scuola di razionalismo critico di Banfi e all’ancora vivace presenza del Partito d’Azione. Successero poi molte altre cose: lo strangolamento dell’esperienza vittoriniana del “Politecnico”, la gestione della Casa della Cultura da parte di Rossana Rossanda, che ne garantì l’autonomia e la dimensione europea, in un momento di gravi pressioni governative e di concomitante stalinismo ideologico, favorendo l’uscita dalle angustie dello hegelo-marxismo “miniaturizzato” in linea De Sanctis-Croce-Gramsci, l’apertura di altre strade, come il neopositivismo nella versione di Giulio Preti o la rinascita della fenomenologia italiana promossa da Enzo Paci, che si rivelò tendenza egemonica negli anni Settanta.
Capita spesso – osserva l’autore – di leggere lamenti sullo stato culturale della mia città, di rievocare una Milano del dopoguerra “ferita, povera allo stremo, ma ricca di spirito di sacrificio, di energia morale, di sogni della memoria che svaniscono nel tempo… dove per anni c’era ricchezza c’è stato qualcosa di più di lontananza dal sapere, piuttosto un basso narcisismo edonista che era parallelo all’inesistente profilo morale della nostra vita pubblica”. Mentre ambienti ben più remoti sono stati salvaguardati nel ricordo fino a diventare familiari, magari attrazione turistica (dalla Dublino di Joyce alla Grande Vienna), quella Milano è stata rimossa e decifrarne le rovine sfida gli archeologi più accaniti.
Chi, come me, non ne aveva avuto nozione per frequentazione diretta resta sorpreso e incuriosito. Viene però da chiedersi se gli stessi protagonisti abbiano saputo valutare sino in fondo i meccanismi della cancellazione.
Certo, Papi descrive perfettamente la logica politica che presiedette alla lunga notte degli anni Ottanta-Novanta, e che oggi sembra cedere il passo a un indistinto chiarore, bolla con parole di fuoco la prassi che trasformò la tradizione politica del Partito Socialista in un comitato d’affari che godeva di tutti i privilegi di una politica pervasiva dell’amministrazione pubblica e della società civile – ciò che, con sommaria variazione, potremmo ripetere per il misero impantanarsi dei Ds nella merchant bank di Palazzo Chigi.
Tuttavia a volte una memoria affettuosa trattiene l’autore dall’individuare le responsabilità dei chierici nella decadenza dell’istituzione. A più riprese egli torna sulla deriva popperiana della Casa della Cultura e sul successo di una filosofia politica di ispirazione analitica e di tendenza liberal: “Una nuova generazione di filosofi, aggressivi nel loro pensiero e abili nelle pubbliche relazioni, guadagnava il campo vittoriosamente e, forse, tentava di fornire alla sinistra un nuovo arsenale teorico per l’egemonia culturale”.
A parte le intenzioni, come non giudicare il risultato? Lo sfacelo complessivo, il soffocamento del fecondo tentativo del gruppo paciano e della rivista “Aut-Aut” di trovare una nuova saldatura con i movimenti del Sessantotto e del Settantasette, le censure e le condanne al rogo delle collane “sovversive” delle Edizioni Feltrinelli… Le amichevoli e un po’ scettiche considerazioni sul ruolo svolto da Salvatore Veca, partendo da una sua conferenza “Sul senso della vita” (che avrebbe meglio meritato il commento dei Monty Python), indicano il suo lavoro filosofico come l’unica (o quasi) riuscita di un’influenza filosofica sulle scelte politiche: in questo caso il traghettamento del PCI nell’area liberale.
– Fu vera vittoria? – si domanda giustamente perplesso Paci. Forse lo fu di Veca, non certo della filosofia e neppure dei Ds che vi si aggrapparono.

[da Il Manifesto, 9 Agosto 2001]