moorecannes.jpgdi Giuseppe Genna

Ha vinto, e se lo è meritato anzitutto per le qualità artistiche espresse nel suo Fahrenheit 9/11, ma non vanno sottovalutate le motivazioni politiche che hanno condotto il ciccione dei sogni, Michael Moore, sul podio più alto del Festival di Cannes. Fa specie, leggendo gli articoli dei supposti critici italiani, questa disgiunzione nel giudizio tra impegno politico e riuscita artistica. Come da anni dimostra la letteratura di genere, anche e soprattutto qui da noi nel Belpaese, non è possibile che un’autentica opera artistica se ne strafotta della vocazione politica, la quale è quintessenziale al suo essere pensata e al suo necessario farsi (quand’è necessario – altrimenti non parliamo nemmeno di arte). E il fatto che quello di Moore non sia un prodotto fiction, bensì un documentario, conferma che è la prospettiva di genere, ancora una volta un genere considerato minoritario, a investire la realtà con pensiero, passione, brivido che esprime verità.

Non è dunque sul piano della narrazione finta o fintamente rappresentativa che gli Stati uniti stanno dando una lezione al pallido comparto degli artisti europei, tuttora invischiati nelle menate di uno psicologismo autoreferenziale, debolista, tutto teso alla celebrazione del negativo psicologico, dell’individuale sommesso e inesplicabilmente alienato. Ci sono motivazioni e responsabilità precise che definiscono l’alienazione individuale e collettiva in occidente. E’ paradossale che non se ne accorgano i cinematografari nostrani, che esercitano pure loro una forma di impegno: peccato che sia l’impegno a mostrarci i cazzi loro, le ideuzze su come sfangarla quotidianamente, le sospirose incertezze a cui vanno incontro per tenere in piedi baracca e burattini in un’esistenza di merda, solipsistica o, tutt’al più, collettiva solo guardando la partita d’anticipo su Sky il sabato sera. Quando si autopraclamano impegnati davvero, questi cervellini routinari sfoderano trattatelli di vago sentore ideologico e campioni di superficialismo storico, ammantando le loro peggio gioventù di eroismi che definire borghesi già sarebbe patetico, ma tacciare di saccente prosopopea autocelebrativa è doveroso.
Ora, Moore avrà Bush, ma noi abbiamo avuto Scelba, Tambroni, Moro, Andreotti, abbiamo Berlusconi e continuiamo ad avere Cossiga. La nostra politica interna è costellata di vergogne che rappresentare, al cinema o in letteratura, sarebbe opera degna e dal punto di vista traumatologico e da quello etico. Eppure non riusciamo a immaginare un documentarista nostrano che, anche autoproducendosi, fottendosene degli sponsor e degli appoggi, prende e va a dimostrare quanto vuoto si celi dietro la funerea parrocchialità di un gobbo la cui coscienza è gravata di morti multiple, o di un sardo con la vitiligine che ha causato disastri epici al Paese. Non ci sfiora nemmeno l’idea che sia possibile mettere in fotogrammi e sonoro l’indegna serata luculliana del nostro attuale premier, tra i paramafiosi della lobby italoamericana di New York, mentre dà un saggio di geopolitica secondo i dettami brianzoli al suo compagno di merenda George Bush jr, asserendo che “le Torri Gemelle sono state abbattute dal comunismo internazionale”. Il silenzio degli intellettuali, intorno allo splendido lavoro documentaristico coordinato da Maselli al G8 di Genova deve essere trionfante per forza, affinché sia emesso al massimo volume l’incredibile giudizio del vicepremier fascista sulle indagini relative al medesimo G8. Noi ci siamo abituati, in quanto italiani, all’avanguardia di Gerry Scotti vestito da finto imbianchino nella fiction pomeridiana. Noi amiamo avere un nonno tranquillo, via etere, con le fattezze di un comico sfigato barese da avanspettacolo. Noi pensiamo che la controinformazione video sia il Cucuzza d’oro di Striscia. Noi riteniamo che la rappresentazione artistica e politica del reale sia La Squadra. Noi non ci mobilitiamo se mettono il bavaglio allo scrittore Carlo Lucarelli, che in prima serata Rai desidera informarci su cosa sia la mafia. Noi amiamo il lounge di Fiorello, servo prono e papillare rispetto ai funzionari della tv di Stato, celebrati e baciati con umiltà maggiordoma in diretta nazionale. Noi amiamo il lucore segratesco della fiction italiana, tutta belle speranze e assoluzioni immorali.
Noi siamo un popolo di merda.
Siamo quelli che storcono il naso di fronte a una premiazione sacrosanta a Cannes, dettata dal giudizio critico di un presidente di giuria che il giornalismo italico osanna soltanto per le sue costruzioni postmoderne a base di finti spaghetti western e splatter alla giapponese. Siamo quelli che, se si devono muovere nella direzione che indica Moore, tirano fuori lo squallido e polveroso superotto sulla trasformazione epocale imposta a un partito da uno che si chiama Occhetto. Siamo gli idioti che corrono a imbastire un dibattito politico incoerente su un’opera di finta arte incoerente come il capolavoro di revisionismo delirante allestitoci da Bellocchio. Siamo il Paese dei Balocchi che ha fatto propria la stimmung muccinoveronese: tanti cazzi miei, com’è difficile tenere in piedi il matrimonio, che bella la figa, com’è piacevole giocare a calcetto nel campo di zona a pagamento la sera dopo il lavoro. Abitiamo noi la waste land che celebra l’orologio da alligatore sopra il polsino del morto eccellente. Guai ad andare a prendere, all’archivio Rai o all’Istituto Luce, le migliori performance di quel gagà del potere, che sbaragliò l’Italia nei Sessanta, imponendo un iniquo sviluppo industriale e stravolgendo l’antropologia di una nazione. Guai a ripescare le prodezze del candidato ulivista, quando faceva il barone di Stato all’Iri (una scoperta inattesa: la lobby del petrolio esiste anche in Italia…). Guai a fare vedere Cicchitto sul grande schermo, quando viene messo sotto sull’affare P2 – facciamolo vedere invece su piccolo schermo, nelle vesti di portavoce di Forza Italia. Plaudiamo alla Gabanelli, l’ultimo parto del reality show: perché è la denuncia sempre cauta della Gabanelli, quella che non tira conclusioni, a farci drizzare i capelli, come ci riusciva una volta il Grande Fratello. Le mitologie del nostro potere sono miserie: e chi paga al cinema, o in libreria, per vedere una miseria?
In Bowling a Columbine, c’è l’intermezzo propedeutico e storiografico su quarant’anni di tirannide estera da parte degli Usa. Se esistesse un Michael Moore italiano, quell’interludio sarebbe l’intera storia della nostra nazione. Siccome però, causa condizionamento fiction, tutti fanno le diete e non è estetico salire alla ribalta essendo ciccioni, qui in Italia un Michael Moore ancora non c’è, ed è di là da venire il Fahrenheit ’45/’04 che dovremmo pagare per vedere al cinema.