di Danilo Arona

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Nel luglio 1984 organizzai incredibilmente al Teatro Comunale di Alessandria una settimana cinematografica dedicata al cinema di Lucio Fulci. L’evento si apriva con un convegno al quale partecipavano, oltre al regista romano, altri noti personaggi come Karel Thole, il disegnatore Silver, Giuseppe Lippi e un certo numero di “addetti ai lavori”. Ricordo che, in compagnia di Gian Maria Panizza, mi fiondai a Linate per prelevare Lucio e condurlo nella città grigia.

Quando lo vedemmo arrivare tra la folla, ci presentammo un po’ intimiditi e, dopo sessanta secondi di civili convenevoli, eccoci a discutere, ancor prima di salire in macchina, di film horror e dintorni, come tre vecchi amici di antica data. Fulci era così: partiva e non lo fermavi. Prima del convegno terrorizzò a tal punto Silver che quest’ultimo si eclissò impaurito e non salì mai sul palco per sedersi al suo fianco. Poi, fiero e indomito rodomonte, s’impadronì del microfono e la storia divenne il convegno “di” Lucio Fulci. A notte fonda con Thole e Lucio ci aggiravamo in una discoteca (chiusa per restauri) sulle cui vetrate i proprietari avevano fatto dipingere scenari horror tratti alla rinfusa dalle mitologie cinematografiche in tema. Lucio, forse, non stava già bene, ma ci costrinse tutti ad andare a letto alle cinque. Il giorno dopo, domenica, lo riaccompagnai all’aeroporto. Come ogni domenica mattina, da una vita a questa parte, mi sentivo così ottenebrato che non trovai di meglio da dirgli come saluto: “Un giorno scriveranno su di te un libro gigantesco”, il che mi sembrò una perfetta banalità, giusto da levataccia. Lui mi abbracciò, mi scrisse il suo numero di casa su un pieghevole della manifestazione — che conservo tra i miei cimeli accanto alle copie autografe di Lansdale e apporti dall’altro mondo – e mi disse: “Sentiamoci”. Il che non accadde mai per colpa di nessuno.
Ovvio che sono un profeta, ovvio che in quegli anni — tutti freschi dalla “trilogia della morte” — in molti eravamo certi che su Fulci sarebbe stato scritto ben più di un libro solo. Però è significativo ricordare come sino a pochi mesi prima le scarse note biografiche su Lucio si esaurissero nel sottolinearne la consumata e “artigianale” abilità del tutto indirizzata al genere comico/popolare, imperniato soprattutto sulle peripezie della coppia Franco Franchi/Ciccio Ingrassia, attorno al quale la maggior parte della critica italiana vedeva “consumato” il talento del regista. Intrapresa proprio agli inizi di quel decennio una via originale e autoctona sui sentieri dell’horror, biografi più sensibili e critici più attenti (dapprima in Francia e in America, in seguito gradualmente anche in Italia) scoprirono invece in Fulci una precisa e coerente vena fantastica che aveva i suoi più scoperti referenti in Edgar Allan Poe e in Antonin Artaud e che partiva da contaminazioni di genere assolutamente affascinanti (Una sull’altra, Una lucertola con la pelle di donna, Non si sevizia un paperino, Sette note in nero, ovvero il fantastico applicato ai meccanismi del giallo), transitando per operazioni più “sotterranee” (Tempo di massacro, I quattro dell’Apocalisse, cioè l’horror applicato agli stilemi del western), giungendo infine alla grande e sfrenata stagione inaugurata con Zombi 2, risposta deviante e intelligente al cinema dei “morti viventi” di George A. Romero.
Lo rividi di sfuggita a un Mystfest almeno sei o sette anni dopo quel magico incontro alessandrino. Lui non stava bene per niente. Com’è noto, il suo grande ritorno, magari la sua definitiva consacrazione, avrebbe dovuto coincidere con la direzione del remake de La maschera di cera, prodotto da Argento e in seguito condotto da Sergio Stivaletti. Purtroppo la sfortuna lo privò nel marzo del ’96 di questa soddisfazione causa l’aggravarsi inesorabile del suo stato di salute. Un destino doppiamente beffardo, se si considera che Fulci ci lasciò nello stesso giorno in cui se ne andava il più famoso e blasonato Kieslowski, per cui di fatto accantonato anche nel momento della morte di fronte ad una maggior “visibilità mediatica” della medesima se riferita ad altrui persona. Ma i suoi film parlano ancora. E parlano, soprattutto, nel “gigantesco libro” che è finalmente, e doverosamente, uscito. Lo firmano il vicentino Paolo Albiero, docente di psicologia all’Università di Padova, e Giacomo Cacciatore, scrittore e giornalista del Sud che dei meccanismi dell’horror s’intende come pochi altri al mondo. Ma parla, quasi saltando ancora “fuori dalle pagine” ancora lui, Lucio. In questa opera, che è veramente imponente quanto minuziosa (quattrocento pagine formato “Variety”), gli autori con commovente umiltà si tirano in disparte per lasciare spazio alla voce, diretta o indiretta, del regista. Il risultato è un appassionante, straordinario reportage che ricostruisce nei dettagli film e carriera, alti e bassi, meccanismi e mafiette, i particolari di un mondo visto dall’interno, la passione viscerale per i grandi generi popolari: un cinema italiano che oggi non è più e che ha diffuso spore in tutto il mondo. Nonostante la mole, Il terrorista dei generi (Edizioni Un mondo a parte, Roma) è libro che si legge d’un fiato e quasi con ansia d’anticipazione, perché la storia di quel cinema pioneristico — che si faceva, come dicono a Roma, con la pizza e i fichi — e “artigianale” (Lucio andava fiero di tale definizione) risulta appassionante quanto un thriller del miglior Harris, perché la vita, quando è intensamente vissuta e votata alla ricerca dell’indelebilità, è proprio un vero thriller che coinvolge sensi, anime e psichismo collettivo. Poi andiamo al cinema a vedere Tarantino e scopriamo che “dentro”, nel DNA filmico, c’è parecchio Fulci, oltre a tanto altro cinema italiano: allora abbiamo bisogno di confrontarci con lui e di andare a verificare quanto “fulciana” sia quella maledetta “Paula Schultz”di Kill Bill, sepolta viva, e si riapre il libro, perché, parafrasando l’introduzione di Antonella, Paolo Albieri e Giacomo Cacciatore non hanno scritto un libro su Fulci, ma “il” libro “di” Fulci. In altre parole, “sono diventati lui”, come certi professionisti kinghiani della parola, ridandogli la vita con amore e rispetto.