di Valerio Evangelisti

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Il dottor Hastings viene invitato a bordo del vascello Saturnia, che ha fama di imbarcazione maledetta e galleggia immobile di fronte a un’isola che non riesce a raggiungere. Il capitano Rolle giace malato, ma è impossibile avvicinarlo. Un impiccato pende dall’albero maestro. Ciurma e ufficiali sembrano appartenere a tempi differenti, e si scorgono reciprocamente come spettri terrificanti. Macchine misteriose pulsano sottocoperta, tra grandi casse dal contenuto ignoto…
Sotto il bizzarro pseudonimo Adan Zzywwurath dicono si celi un intellettuale italiano parco di produzione letteraria ma generoso di ingegno. E’ una menzogna. Già nella seconda pagina del romanzo breve che apre questo volume (A. Zzywwurath, Diario della letteratura perduta. Il matrimonio del mare e dell’inferno a altre storie, manifestolibri, 2003, pp. 168, € 15,00) e gli dà il sottotitolo, individuiamo facilmente il Conrad de Il nero del Narciso.

Nella terza pagina siamo invece alle prese con i “fulmini globulari” che si condensavano sull’albero maestro della Folgore, nel salgariano Corsaro Nero. Poi ci accorgiamo che la penna è in realtà quella del Poe di Una discesa nel Maëlstrom o, in una alternativa tra nobiltà e miseria, de I pirati fantasma di William Hope Hodgson. Salvo scoprire, un poco più avanti, la mano inconfondibile del Jack London de Il lupo dei mari e de L’ammutinamento dell’Elsinore.
Chi manca ancora all’appello? Il Jules Verne de La sfinge dei ghiacci? C’è. Lovecraft? E’ dovunque. Melville? No, Melville non c’è, e risultano assenti tanto il Dana di Due anni a prora che il Conrad più serioso. Si direbbe che Stevenson e Conan Doyle li abbiano cacciati dal ponte, e con loro le descrizioni troppo dettagliate della vita di bordo, dei grovigli di sartiame, degli alberi e del modo di manovrarne le vele. Col fine dichiarato di restituire al mare la sua dimensione onirica e la sua simbologia inconscia, arricchita da una bruma densa e compatta capace di svelare, all’infelice vascello che vi è rimasto imprigionato, un crescendo impressionante di orrori e di sorprese.
Chi ha dunque scritto questo ipnotico Il matrimonio del mare e dell’inferno e i racconti successivi (a suo tempo pubblicati da Theoria in forma autonoma)? Qualcuno che conosce a menadito gli autori di cui sopra e, se non li conosce proprio tutti (certe sue fonti sono indubbiamente più autorevoli), ha in ogni caso colto alla perfezione l’universo simbolico, per non dire archetipico, da cui essi attinsero.
Siamo dunque in presenza di un gioco letterario (non lo definirei mai un divertissement: l’operazione è molto seria) volto a evocare gli elementi fondanti di una parte della letteratura detta “di genere”. Quale genere? Non saprei. Per rimanere al romanzo che apre il volume, Il matrimonio del mare e dell’inferno, ne attraversiamo diversi, in rapidissima successione. L’esperienza sconvolgente del dottor Hastings a bordo del veliero Saturnia (di quale tipo di veliero si tratti non ci viene detto) transita dalla pura avventura di mare alla ghost story, poi alla fantascienza grazie a un’ipotesi scientifica in apparenza plausibile, quindi slitta nell’horror di stampo gotico con una riproposizione del mito di Frankenstein — mentre Wells occhieggia dalla stiva grazie a macchine misteriose sommariamente descritte, e tuttavia complicate.
Se si aggiunge che tutto ciò ha l’andamento di un thriller, con un mistero, un’indagine e un ribaltamento continuo di soluzioni già acquisite, si finisce per intuire lo scopo autentico dell’improbabile Adan Zzywwurath: rievocare e, in ultima analisi, difendere un universo narrativo che fu espulso dall’accademia italiana (ma non solo) sotto i colpi del crocianesimo, e che invece, con la sua sapiente manipolazione della materia del sogno e dell’arsenale simbolico, riusciva a imprimersi in quegli angoli della mente che la letteratura corrente difficilmente sa toccare.
Missione nobile, attuata attraverso la selezione e la sintesi delle cuspidi di quel tipo di racconto, a partire da due immagini basilari: il mare e la nebbia. Come dire, l’inconscio collettivo e individuale.
Inutile soffermarsi sui racconti successivi. Si tratti di riletture di temi classici, di aforismi paradossali, di semplici esercizi di intelligenza, ribadiscono in molte forme l’assunto. L’ispirazione qui è più univoca e dichiarata: Borges, e con lui Stevenson, Poe ecc. Sta di fatto che, mentre si oscilla tra esaltazione o rigetto della letteratura “di genere”, l’ambiguo Adan Zzywwurath compie l’azione più opportuna: ne svela i capisaldi e le ragioni di fascino, perduranti nel tempo. E, sottovoce, azzarda persino l’ipotesi coraggiosa che a quella narrativa appartenga il futuro.

Da il manifesto, 19 dicembre 2003