di Giuseppe Genna

marxmente.jpgNon sono più di tanto sorpreso dalla capacità di penetrazione che Valerio Evangelisti ha esercitato, in due memorabili interventi (qui e qui), sul corpus marxiano e sulle non tanto immediate conseguenze di una deviazione dalla pista battuta dal filosofo tedesco. Se uno si è letto e ha compreso a fondo cosa Evangelisti ha scritto e travestito nella saga di Eymerich, non può affatto sorprendersi. Vorrei intervenire sull’intervento del nostro direttore editoriale, accostandomi per vie traverse alla sua esplosiva analisi – una sorta di abbattimento della filologia tradizionale per ristabilire il primato dello spirito (con la minuscola) sulla lettera. La prendo apparentemente alla lontana, ma nelle intrusioni successive a questa, tentando di articolare il discorso, si vedrà bene quali erano le non mascherate intenzioni: dimostrare come il discorso umanistico converge con la traiettoria di scatenamento energetico dell’umano, che è a mio avviso il potenziale non tanto occulto della lettura di Marx effettuata da Evangelisti – uno che, a proposito di energie umane, ne sa parecchio, avendo attraversato con lucidità e osmosi l’esperienza reichiana.

Mi devo anzitutto scusare per quanto criptico potrà sembrare ciò di cui tratto, e per certi tecnicismi da addetti ai lavori.
La distanza che sembra apparentemente separare il discorso che tento di fare da quello che porta avanti Evangelisti sta tutta nel tutto: l’attenzione, diciamo l’intensità di adesione alla prospettiva, che si porta verso l’originario. L’originario, per la teoria marxiana, è storico: già data la specie umana, ecco la storia, che si struttura attraverso dinamiche interpretabili e, questo è ciò che più importa, rovesciabili. Questo rovesciamento a cui inerisce Marx è un salto di specie. Le condizioni storiche non l’hanno finora permesso ma, sembra dire Marx, se riusciamo a comprendere e poi a praticare la struttura dell’energetica umana, esse muteranno, permettendo il libero gioco dei flussi costitutivi quella sorta di macrosoggetto che è l’umanità. Sappiamo bene cosa ha in vista Marx e sappiamo bene che l’abbiamo in vista anche noi: si tratta di invertire il processo energetico che fossilizza la forza psichica in alienazione, in modo da permettere la liberazione del complesso totale delle potenzialità umane. Va sottolineata questa coappartenenza dell’analisi che vorrei praticare di certa tradizione filosofica (soprattutto filosofia della mente) rispetto allo sfondo per nulla messianico in cui si muove Marx: intendo il Marx autentico, che resta per me quello che legge Evangelisti.
Ora, rispetto a chi compie un’analisi storicista, vorrei sfruttare il vantaggio che riserva il pensiero libero, quello scatenato, il pensiero che pensa senza categorie. il vantaggio è quello di non porsi la questione del funzionamento della storia. Vorrei invece non prescindere dalla reale questione metafisica con cui Marx si trova a fare i conti: la datità della specie umana. Non dovrebbe scandalizzare più di tanto una simile posizione. Non sono mai riuscito a comprendere perché gli storicisti, che hanno un equivalente scientifico nei riduzionisti, scalpitino ogni qual volta si cerca di porre il problema dell’inizio. Essendo la storia già di per sé un assoluto (poiché è impossibile imbastire un discorso che non sia storico e finora, a parte certe follie come la religione, ancora non ci è capitato di ascoltare un discorso fuori dalla storia), è chiaro che stiamo del tutto naturalmente facendo metafisica. La questione della datità di specie è una questione di senso a cui tutta la tradizione filosofica, dai presocratici a Heidegger, ha tentato di rispondere. Vorrei evidenziare che, peraltro, la tradizione filosofica è pure riuscita a fornire una risposta: il discorso, affinché non si costituisca quale Discorso, deve farsi nomade, abbracciare fino in fondo il divenire, essere pienamente nel mondo, sapendo che viene incarnato dal linguaggio, che pure dovrà avere una qualche sostanzialità. Sembra una suggestione lontana dall’argomento, e invece non lo è: per fare soltanto un esempio, si tratta della porta stretta attraverso cui Althusser devia Marx da Marx. La prospettiva del superamento del linguaggio verso ciò che lo costituisce materialmente, cioè dell’attività di psiche, fatte salve le ovvie cautele che inducono a non cercare la Sostanza-oggetto, si oppone proprio al movimento di volatilizzazione della cosa detta da Marx. L’idea althusseriana (e poi derridiana) di una linguificazione totale di Marx va di pari passo alla bizzarra ipotesi che il soggetto sia un soggetto costituito di linguaggio. E’ un bel tradimento, per i nipoti di Husserl, del silenzio e della sospensione di giudizio che il nonno predicava. L’errore additato da Evangelisti rispetto alla scandalosa deviazione althusseriana va di pari passo all’osservazione che, trattando le ontologie regionali, Husserl intendeva indicare una strada da percorrere dall’inizio sempre, in ogni momento, essendo la fenomenologia un esercizio e non un sapere costituito. L’introspezionismo novecentesco è stata l’unica scuola che ha accolto a pieno la lezione di Husserl – abbiamo visto con quali risultati: l’oblio fino al recente disseppellimento da parte delle ultime e illuminate varianti della ricerca neuroscientifica.
Tornando a bomba, ecco il problema che il Marx storicista non poteva porsi: chi diavolo percepisce la storia? Chi percepisce l’umanità che fa la storia? Che strana energia e forma è questa della percezione, del soggetto che percepisce? La specie umana è costituita come percipiente e percepito. Non ha senso intraprendere il percorso giusnaturalista (una sorta di pensiero neocon antelitteram, totalmente ideologico e falso, causa di orrori inimmaginabili, con tanto di autolegittimazione in nome di una patente di ‘civiltà’: sta qui e nel fondamentalismo cristiano antiesoterico il male peggiore dell’occidente). Il percorso giusnaturalista dà già per scontato l’esistere di chi percepisce. La distinzione irrealistica tra due tipi di società idealizzate, quella naturale e quella civile, nasconde il timore di chiedersi come cavolo si sappia che esiste una società, ma anche che esistono gli individui.
La storia è psichica.
La psiche è tutto.
L’originario è psichico.
Il linguaggio è psichico.
La prospettiva che propongo è esattamente questa: chiedersi che cosa sia la psiche.

E’ un rovello da cui non si esce. Sono infiniti gli indirizzi teoretici che a questa domanda hanno cercato di dare risposta. Qui compio una scelta che motiverò prossimamente, quando sarà chiaro che sto facendo il medesimo discorso che su Marx fa Evangelisti. La scelta che compio è questa: la psiche è ora. Ora, questo momento concreto in cui leggete le mie parole. Di più, più infinitesimale: ora, un istante brevissimo in cui questa piccola parola di tre lettere non si riesce nemmeno a formularla, perché il tempo è poco, non permette nemmeno di afferire al linguaggio. Pura presenza istantanea: ora. Sembra un modello di psiche piuttosto rozzo e alla buona, invece si tratta del modello psichico che gli indirizzi ultimi delle neuroscienze stanno andando a verificare: la coscienza, che è per me lo stesso dell’energia psichica, è l’ora, il qui e adesso, ciò che materialmente costituisce il linguaggio e la storia e che, costituendo linguaggio e storia, non può essere linguificato e storicizzato. Si badi bene: non si tratta di una coscienza fuori del linguaggio e della storia – anzi, più dentro di così, nel linguaggio e nella storia, non potrebbe essere. E’ nel mondo ma non è del mondo poiché è il mondo. Dovendo riassumere al massimo il discorso di quella che potremmo definire filosofia nondualista della coscienza (penso a Varela e Goleman, soprattutto), tre sono i fattori che, in piena coincidenza con l’oggetto della liberazione pensata da Marx, costituiscono la teoria di un funzionamento generativo dell’attività psichica: anzitutto esiste un piano formale, dal momento che la descrizione dei contenuti mentali partecipa di una modalità ideale che li situa effettivamente su di un terreno comune; c’è poi il polo del processo naturale (cioè neurale, cioè corporeo); e poi c’è il piano che mette in continuità il corpo come vissuto e il corpo organico, in modo che non venga esclusa né l’esperienza né il corpo, e che venga fornita la relativa base o i dati rilevanti per i poli precedenti. Questo modello di ricerca sull’attività psichica (contestabile e smontabile come ogni altro modello) ha il vantaggio di mettere a nudo ciò che va messo a nudo: la nuda coscienza, il reale oggetto di ricerca, il continuum tra questi tre poli che concorrono a creare quell’unicum che diciamo essere l’attività psichica. Soltanto in questo modo, per una via che uno studioso occidentale può considerare rigorosa e accettabile, è possibile pervenire all’esperienza finale di una liberazione totale dell’attività psichica umana e, al tempo stesso, ricondurre gli oggetti a quel che sono: concrezioni di coscienza dalla vita relativa. Passo che Platone compie dal Cratilo al Filebo al Sofista – e che le neo-neuroscienze stanno nuovamente compiendo. Passo, per di più, epocale: significa riportare l’assoluto nella sua dimensione unica, che è quella storica: non c’è differenza tra l’assoluto, che è l’atto di presenza e attenzione di cui è fatta la coscienza, e la storia, che è fatta essa stessa di coscienza.
Il secondo passo da fare è il salto di specie. La domanda successiva a cui rispondere è: questa coscienza è solo umana? Oppure qualunque manifestazione, vivente e non vivente, essendo fatta di coscienza, è in qualche modo cosciente (si intende: cosciente di questa coscienza)? Nei prossimi giorni illustrerò i vari tentativi di fornire una risposta che sia rigorosa e accettabile da quel rompipalle dello studioso occidentale.