pontiggia.jpgLa notizia della morte di Giuseppe Pontiggia può lasciare indifferenti soltanto coloro che, con la letteratura, hanno avuto, hanno e avranno un rapporto superficiale, per nulla necessario. Non che la discrezione dello scrittore milanese, del resto leggendaria, sia servita a scuotere una nazione sull’orlo dell’annichilimento culturale. Non è tuttavia questo il momento di compiere un bilancio sulle responsabilità della generazione a cui Pontiggia è appartenuto. L’immensa cultura personale di Pontiggia ha esercitato un fascino risolutivo per molti scrittori e intellettuali in erba. Il suo Il giardino delle Esperidi (Adelphi) rimane nella storia della nostra letteratura per l’incredibile profondità e agilità con cui l’autore di Nati due volte (forse il suo capolavoro) ha saputo penetrare l’intero corpo letterario occidentale, dai classici ai contemporanei. In quest’opera didattica e rivelatoria ravvediamo la cifra più essenziale di quanto fu Giuseppe Pontiggia, soprattutto per chi è cresciuto a Milano: un maestro di letteratura. Per ricordarlo, pubblichiamo l’introduzione a I contemporanei del futuro (Mondadori): la risposta alla domanda su cosa sia un classico e cosa sia la letteratura.

I CONTEMPORANEI DEL FUTURO
di Giuseppe Pontiggia

pontiggia2.jpgCi sono state epoche, come quella barocca, in cui i giganti sono stati irrisi da nani che si vedevano più giganteschi di loro. Dare tutta la Commedia per un sonetto del Santinelli, come giunge a dire il Frugoni, non è un paradosso, ma un baratto. Però la nostra epoca è a una svolta.
Per la prima volta non si lotta più con il passato, lo si ignora. Al culto degli antichi o alla loro esecrazione è subentrata l’indifferenza o quella curiosità intermittente e fuorviante che Maurizio Bettini ha raccontato nei Classici nell’età dell’indiscrezione.
L’esercito dei classici, con le sue funzioni di presidio e di movimento, con i suoi ordines e le sue gerarchie, con le sue suddivisioni di censo, di equipaggiamento e di ruoli, si è disgregato. E l’avanguardia è morta, perché non ha più l’esercito alle spalle. E’ l’avanguardia di quale esercito?
Il proletariato, ovvero la massa, ha vinto. Non è più quello rivoluzionario di Marx né quello turbolento degli inermes, ma quello volubile e suggestionabile del mercato. Perciò l’avanguardia, non potendo più lottare contro l’esercito dei classici, cerca di lottare contro chi ne ha occupato lo spazio. Ma, come aveva previsto Benjamin, finisce per cadere non sul campo, ma sul mercato. Né si potrebbe immaginare conclusione più inevitabile. Perché se prima la formavano gli antecursores dei classici, ora la formano gli antecursores del mercato. Non mancheranno le eccezioni. Ma la pietà che Apollinaire chiedeva per chi tenta l’avventura riguarderà anche i suoi eredi ideali. Mentre la popolarità, disprezzata dagli equites, è diventata per la platea il valore in cui si riconosce, applaudendo se stessa.
Sarebbe però illusorio attribuire all’avanguardia la responsabilità di questo mutato orizzonte. Semmai l’avanguardia ne ha anticipato, come era sua funzione, la scoperta e ne ha accelerato, come era nelle implicazioni aggressive del suo nome, la appropriazione. Ma i classici fondavano il primato della loro tradizione su una centralità europea di cui i secoli hanno progressivamente svelato i limiti. Il triangolo Atene-Roma-Gerusalemme ha dovuto dilatare i suoi confini fino a includere aree che il «miraggio indoeuropeo» – come lo chiama Giovanni Semerano nelle sue Origini della cultura europea – tendeva a eludere o a porre in secondo piano. E deve sempre più integrarsi con altre tradizioni: non meno antiche e ricche di potenza (come quelle dell’India e dell’Estremo Oriente) e non meno vitali e rigogliose come quelle del Nuovo Continente, di Africa e Australia. Si parla di tradizione come se coincidesse con quella esoterica di Guénon. Si dovrebbe invece parlare di coacervo di tradizioni, che però si riconoscevano in antenati comuni, i classici dell’esercito originario. Oggi le tradizioni, come gli antenati, si moltiplicano e il processo diventerà sempre più radicale.
Né questa invasione riguarda solo i barbari che vedeva Verlaine, quando si identificava con l’impero alla fine della decadenza: i grandi barbari bianchi che passavano mentre componeva acrostici indolenti in uno stile dorato dove danzava il languore del sole. Barbari, rispetto all’esercito dei classici, siamo anche noi.
Di questo dobbiamo prendere coscienza, se non vogliamo cadere in quel classicismo edificante con cui i morti hanno sempre seppellito i loro morti; e se vogliamo che ai classici, cioè al valore, sia riconosciuto il loro insostituibile spazio: quello spazio che la cultura di massa vorrebbe confondere con quello del mercato.
È vano però difenderli solo entro quella tradizione umanistica di cui per primi, con la loro inesorabile carica di verità, hanno rivelato i confini. E lo dimostrano proprio i tentativi in quel senso. A T.S. Eliot dobbiamo l’immagine più dinamica e aperta della tradizione, dove il presente agisce sul passato e le influenze si esercitano sorprendentemente nei due sensi. Quando però ha circoscritto in Virgilio l’emblema del classico, ci ha offerto una icona di nobile coerenza, ma di vitalità astratta.
L’eterno ritorno del canone è una sorta di tributo – per onorare uno dei suoi significati più inquietanti – ai sogni di oggettività e di fondazione. Il canone numerico di Policleto e l’homo quadratus ripreso da Leonardo perseguivano una geometria eroica della perfezione ideale. Imitazione ed emulazione, costellazioni del cielo classicistico, hanno ceduto a un altro mito dell’impossibile, l’originalità. Eppure neanche oggi si rinuncia al canone.
Accolto e anzi sollecitato dai giornali, arriva alle sue forme più esasperate: i dieci libri da salvare, i bilanci di una stagione, di un anno, di un secolo (imminenti quelli del millennio), le classifiche private, se non intime, che aspirano al pettegolezzo pubblico e lo ottengono. Ci sono anche tentativi degni, gerarchie più motivate, scelte più strenue. Ma il Canone Occidentale di Bloom sembra idealisticamente ignorare, come ha osservato Daniela Marcheschi in «Poetiche», 4-5, 1997, la pluralità spesso oppositiva di tradizioni e canoni e la fragilità storica dell’idea centrale. Credo che Bloom offra angolazioni illuminanti, non un criterio adottabile di scelta.
Dei classici, estrapolati dall’esercito e avvicinati nelle qualità che li accomunano, si colgono caratteristiche preziose, che accompagnano il valore, ma non lo fondano. Calvino l’ha fatto in modi spesso incisivi e ha offerto un contributo importante alla descrizione dell’oggetto. Però non basta a quel riconoscimento di cui parla Hegel come essenziale alla costituzione del valore. è una trasposizione pragmatistica degli effetti che i classici producono in chi li legge. Ricorda le straordinarie analisi di William James nelle Varie forme dell’esperienza religiosa. Confortano il credente, ma non avvicinano gli altri. Certo non è più possibile parlare di ricostituzione delle file, degli ordines. Credo sia una fortuna, almeno per noi.
C’è inoltre un messaggio ambiguo nella sottolineatura delle qualità. Noi non leggiamo un classico per le sue qualità, ma per l’importanza e la bellezza di quello che ci dice. Un classico è una esperienza radicale, un incontro che ci modifica, non un ritrovamento di aspetti reperibili in altri. Naturalmente la ricerca di queste affinità presenta tratti affascinanti. Io (per fare un esempio qualsiasi) ne sono affascinato. Ed è certo che arricchisce la comprensione, ma non ne costituisce l’essenza. Anche Arnold Hauser, nel volume dedicato al Manierismo, definiva alcune caratteristiche dell’arte classica – quali l’organicità, l’unità, la naturalità – che possiamo constatare come ricorrenti. Ma è come scambiare la radiografia di un corpo con la conoscenza di una persona. E credere che ci aiuta a capire perché ne siamo innamorati.
Così dalla investigazione semiologica la comprensione dei classici ha tratto contributi capillari, ma non sono mancati gli incentivi al fraintendimento. Se l’analisi della stratificazione letteraria aiuta – in studiosi quali la Corti e Segre, Avalle e Isella – ad avvicinare il classico nella sua specificità espressiva e storica, in altri favorisce l’equivoco della uguaglianza, o indifferenza, dei valori.
In una società che in nome non del valore della libertà, ma della libertà del mercato, tende a una irresponsabilità etica ed estetica che le consente di prosperare, è arduo introdurre la nozione di classici come classici. Anche perché la cultura del secolo ha fortunatamente dilatato la nozione di cultura, fino a includervi una miriade di valori prima trascurati. Ora però c’è il rischio opposto. Che il superamento, non l’oblio, di una tradizione umanistica possa avallare il superamento dei valori.
Mostrare la convergenza nell’arte dell’utile e del dulce lasciamolo alla scuola di altri secoli (eppure ne sarei tentato). Ma ignorare le differenze – per accontentare i mercanti e i turisti della cultura – è una cosa diversa. «Per guardare davvero il tramonto non devo fare confronti», diceva ai giovani Krishnamurti. «Per guardare davvero uno di voi non devo paragonarlo a qualcun altro. E’ solo quando vi guardo davvero, senza formulare giudizi comparativi, che posso capirvi.» E aggiungeva: «Fin tanto che la mente fa confronti non c’è amore».
Questa visione non comparativa è una acquisizione importante se si vuole amare e capire. Ma nell’ambito della cultura non basta. L’amore-comprensione non è l’ultima modalità con cui possiamo vivere i valori dell’arte. Il trasporto emotivo e affettivo, nonché economico, che scopre consonanze patetiche tra entusiasmi giovanili e maestri complici, induce a dire che un «classico della canzone» è importante come Bach. Ma non è così.
Si accontentino dello spazio che oggi viene giustamente accordato a ogni forma espressiva. Ma non pretendano di imporre, in nome della uguale dignità, l’uguaglianza dei valori. Quando sento paragonare Wilbur Smith a De Foe, non provo l’impulso di criticare Wilbur Smith, che stimo come un narratore abile e piacevole. Mi viene piuttosto in mente una domanda: «Ma hanno mai letto De Foe?».