di Valerio Evangelisti

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Esce in questi giorni, presso Einaudi Stile Libero, il romanzo di Jean-Patrick Manchette Un mucchio di cadaveri (Morgue pleine, trad. di Luigi Bernardi, 206 pp., € 8,50). Pubblichiamo la postfazione di Valerio Evangelisti, che vuole essere anche una piccola guida alla lettura di questo straordinario scrittore francese (nato nel 1942, morto nel 1995), di cui Einaudi, attraverso la bravura di Luigi Bernardi, sta meritoriamente traducendo tutte le opere.

Il maestro è senza dubbio Dashiell Hammett, e Jean-Patrick Manchette non ha remore a riconoscerlo. Dall’americano lui ha ereditato anzitutto la chiave di lettura del presente: nelle moderne società occidentali potere politico e interessi criminali sono ormai intrecciati in maniera inestricabile. Il corollario è che solo il romanzo “nero” riesce ormai a fornire della realtà un quadro attendibile. Sì, ma quale tipo di romanzo “nero”? Non certo il poliziesco che si pretende tale, magari perché è un po’ più violento della norma.
Qui si colloca la seconda eredità di cui Manchette è grato ad Hammett. Il tipo di noir capace di assolvere la funzione di specchio credibile del sociale è solo quello behaviourista, in cui dai comportamenti si risale a psicologie e intenzioni, e in cui esclusivamente la descrizione degli eventi ne fa intuire la logica occulta.


Nei confronti di altri tipi di noir Manchette è severo e ostile. Non gli piacciono le storie crudeli fino al sadismo di James Hadley Chase. Quello è iperrealismo, non realismo, e in più lo stile è artificioso quanto quello di Mickey Spillane. Gli piace ancora meno il connazionale Auguste Le Breton, a lungo scambiato in tutto il mondo per un caposcuola del romanzo “nero” francese. A parte il bluff svergognato all’origine dell’equivoco (linguaggio della mala quasi tutto inventato, dati autobiografici di fantasia), il romanticismo d’accatto resta tale anche se riferito al mondo dei gangster. Peggio ancora se serve a rendere quest’ultimo avulso dal resto della società più o meno civile, quando si è da tempo alla piena compenetrazione. Il noir, se vuole essere interprete dei tempi, come è nella sua vocazione, deve farsi verismo. E contenere elementi di critica sociale mai spiattellati eppure percepibili.
Manchette è un militante molto più radicale e manicheo di Hammett, comunista con tessera solo in una fase della propria vita. Il marxismo professato da Manchette è quella miscela tutta francese chiamata ultragauche, sintesi bizzarra (a occhi italiani) tra situazionismo e bordighismo, con larghe aperture in direzione degli anarchici. Come dire: intransigenza dottrinale, però servita da strumenti non dogmatici, fantasiosi e di ampio spessore culturale. Così la decisione di Manchette di darsi al romanzo apparentemente “popolare”, che in Hammett comportava una certa scissione tra scelte politiche e letteratura, nel francese appare pienamente coerente: risponde ai presupposti dell’ultragauche e coincide con la sua disinvoltura circa i modi dell’azione. Forse che Bordiga, comunemente accusato di dogmatismo, non aveva dimostrato interesse per la fantascienza e partorito, specie negli ultimi anni di vita, scritti bislacchi e un po’ folli, più letterari che politici? La duttilità del maestro rendeva lecita agli allievi ogni forma di sperimentazione. Il situazionismo, da parte sua, faceva della cultura e dell’immaginario campi per battaglie non meno degne di quelle di piazza.
Come si vede, nell’istante stesso in cui adotta Hammett per modello, Manchette lo tradisce; ma sarebbe meglio dire che lo oltrepassa. E se è molto più estremista del padre putativo in politica, lo è anche sotto il profilo stilistico. I romanzi migliori di Hammett sono scabri, essenziali, compressi come funi intrecciate a più riprese fino a soffocare ogni spazio tra i fili che le compongono. Le storie di Manchette, invece, somigliano a quei manufatti di cristalleria fine in cui l’artigiano è riuscito trarre dalla materia, già pura di suo, filamenti sottilissimi che la luce, più che attraversare, cancella o tenta di assorbire in se stessa.
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L’ultimo paragone non è pensato per colpire il lettore con un’iperbole. Serve piuttosto a fargli capire perché la prosa di Manchette, a un primo approccio, possa sembrare invisibile. Se non si è avvertiti, può accadere a chi legga Manchette ciò che accade a buona parte degli spettatori di Hitchcock: credere che ciò che hanno sotto gli occhi non celi alcun artificio, e che la fluidità della storia aderisca a una semplicità tecnica di fondo. Invece sia nel francese che nel regista inglese la fluidità è frutto del proprio contrario: una complessità virtuosistica tutta giocata dietro le quinte, avente quale obiettivo la naturalezza delle scene e l’impalpabilità della regia.
Ciò non toglie che ogni tanto Manchette lasci volutamente apparire la propria impronta, con paragrafi vertiginosi quanto lo era, per restare all’esempio del cinema, la sequenza iniziale di Quarto potere di Wells. L’esempio più noto è l’incipit di Posizione di tiro, in cui si segue l’itinerario di una folata di vento proveniente dall’Artico fino al momento in cui colpisce gli occhi di un killer seduto in un furgone, che peraltro non batte ciglio. Ma brani altrettanto sorprendenti costellano tutta l’opera di Manchette, per esplodere nel romanzo incompiuto La princesse de sang, che ne costituisce un vero florilegio.
Tuttavia non direi che risieda in queste acrobazie narrative, simili ai marchi con cui gli armaioli di un tempo contrassegnavano le loro spade, la sostanza stilistica dello scrittore. Il suo procedimento tipico è piuttosto l’ellissi, tanto delle singole parole quanto dei commenti. Si consideri questo brano di Fatale, il romanzo di Manchette meno considerato eppure, a mio giudizio, più inte-ressante:
“Immersa nell’acqua calda, si mise a leggere il giallo che aveva comprato. In sei o sette minuti ne lesse dieci pagine. Chiuse il libro, si masturbò, si sciacquò e uscì dalla vasca. Per un attimo, si fermò a osservare il proprio corpo magro e seducente nello specchio del bagno. Si vestì con cura, allo scopo di non passare inosservata.”
Mancano completamente le connotazioni emotive esplicite, anche quando si accenna al sesso, cioè all’attività umana più emotiva di tutte. Grondano, invece, quelle implicite. Aimée / Mélanie, la protagonista, deve avere gusti letterari mediocri (non perché legge un giallo, ma perché ne divora le pagine così in fretta). Concede alla sessualità un posto di rilievo nella propria vita. E’ consapevole del proprio fascino e se ne compiace. Tuttavia, al momento, intende servirsene verso l’esterno: è evidente che deve irretire qualcuno.
Questo procedimento di Machette è portato avanti dalla prima all’ultima pagina di Fatale, con impressionante coerenza. Non avremo mai un ritratto fisico completo di Aimée (chiamiamola così), ma solo indizi idonei a ricostruirlo: per esempio, dopo lo sguardo fugace allo specchio, l’altrettanto fugace uso di una bilancia a gettone, o ulteriori immagini riflesse. Nemmeno otterremo una descrizione dettagliata dei suoi moventi. La scopriamo presto capace di ogni crudeltà, però la sua psicologia dobbiamo ricostruircela da soli, soprattutto attraverso le reazioni degli interlocutori in sua presenza. Fatale è in definitiva un romanzo su una donna che non c’è, chiamata all’esistenza e resa viva dall’ambiente in cui si muove (di raro squallore umano, sociale, politico ecc.).
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Manchette, in questo ma, in forme meno estreme, in altri romanzi, procede dunque per elisione. Ovunque ci sia un nesso, un raccordo logico lo taglia, affidandolo interamente al lettore. E ciò non avviene solo sulla misura del romanzo, bensì anche a livello di costrutto delle singole frasi. Ancora Posizione di tiro: “Un attimo dopo lei non aveva neanche la forza per tenere gli occhi aperti, e la mandibola le si afflosciò. Sarebbe morta in pochi istanti se Terrier non avesse allentato la pressione, ma la allentò” (“Un instant plus tard Cécile n’avait même plus la force de garder les yeux ouverts, et sa mâchoire inférieure pendit. Elle serait bientôt morte si Terrier ne relâchait pas sa pression, mais il la relâcha.”).
Si noti la variabilità dei soggetti : da Cécile alla mandibola di lei, divenuta autonoma dalla donna; ancora, da Cécile a un altro elemento incontrollabile, Terrier, che regge due forme verbali, di cui l’una ipotetica e l’altra no. In sole due righe, un duplice cedimento della volontà di Cécile: nei riguardi del proprio corpo e di fronte a Terrier. Logica e consecutio temporum avrebbero voluto che tutto ciò avvenisse in quattro tempi, o almeno in tre. Ma a Manchette tutto interessa salvo che lo spreco di congiunzioni, e condensa il tutto in due sole righe, a prezzo di un fraseggio in apparenza sconnesso. L’esito è di impressionante efficacia.
Quando il procedimento è applicato, con cura maniacale, a un intero romanzo, frase dopo frase, paragrafo dopo paragrafo, il risultato è quello di una rarefazione vagamente straniante: precisamente l’effetto che l’autore si propone. D’altra parte la maniacalità è tipica del Manchette critico, capace di affossare un romanzo solo perché l’autore ha dimenticato di mettere il punto davanti all’indicazione del calibro di una pistola
Intransigente con i colleghi, Manchette lo è anzitutto nei confronti di se stesso. Il numero a lui dedicato della rivista Polar (Rivages, 1997) ci ha mostrato tre diverse aperture di un romanzo in programma, Iris, mai completato. Non si tratta di variazioni: sono completamente differenti. Se Manchette non è soddisfatto di un risultato, lo riscrive daccapo. Poi si accanisce con puntiglio sulla propria prosa nel modo descritto, traendone ogni possibile suggestione.
Ciò che risulta non si presta a una lettura rapida, tipo quella che la protagonista di Fatale faceva in bagno. O meglio, vi si presta anche, e un tasso minimo di soddisfazione è garantito: lo stesso di chi guardi un Cézanne con gli stessi occhi con cui guarderebbe un Monet. L’intenditore sa però che la pittura di Cézanne è molto più complessa di quella del collega, e che cela dietro la matrice impressionista gamme di sapori e progettualità intellettuale. Allo stesso modo, la scrittura di Manchette va assaporata oltre l’apparente similitudine con Hammett, perché è capace di rivelare al gusto aromi segreti miscelati con certosina pazienza. Fermo restando che il francese cela il più possibile la propria arte, riservata al lettore degno di lui.
Comunque anche gli elementi visibili dei romanzi (intreccio, personaggi, ambientazioni ecc.) offrono novità e sorprese. In un romanzo esplicitamente “politico” come Nada ci imbattiamo, nel mezzo di un gruppo di anarchici in lotta contro poteri molto più forti di loro, in un personaggio femminile (Véronique) che sembra tolto di peso da W. R. Burnett, e che rispetto alla classica donna della gang ha solo un più ampio margine di autonomia. Nei due romanzi consacrati all’ex gendarme Tarpon (Morgue pleine, Que d’os!) scopriamo un investigatore privato per qualche verso simile a Maigret (il Maigret de L’Affaire Saint-Fiacre) per origine contadina e corporatura, però lento di intuito, poco astuto, quasi mai in grado di dominare gli eventi; e che tuttavia, paradossalmente nei momenti liberi ascolta Miles Davis e legge Psicologia di massa del fascismo di Wilhelm Reich. In Fatale, almeno fino a metà romanzo, ogni comportamento della spietata eroina risulta imprevedibile, e talora persino indecifrabile. In Ô dingos, ô châteaux! la protagonista, Julie, è nientemeno che una malata di mente, capace di reggere la missione a cui è chiamata (proteggere un bambino minacciato di rapimento) solo grazie ad alcool e calmanti in dosi forsennate; tuttavia è quanto di più simile a un personaggio positivo che Manchette abbia mai messo in scena.
Non è poi difficile capire quale sia l’intento che muove lo scrittore. Si tratti della sintassi interna a una frase o di quella narrativa di un’intera storia, mai, in nessun momento, deve figurare un luogo comune, o una conseguenza obbligata di una premessa. Il demone che agita Manchette è quello dell’innovazione; ciò che odia sono le sicurezze, gli automatismi, i binari piantati al suolo. E’ l’antitesi stessa di Simenon (il Simenon dei polizieschi). Se questi insegue costanti umane, comportamentali, psichiche, e affida alla loro messa a nudo la soluzione di un intreccio, Manchette sovverte tutto il sovvertibile. Per usare il suo metodo behaviourista e affidare alle azioni la psicologia del personaggio, giudicherei non casuale che Manchette fumi nervosamente sigarette, mentre Simenon fuma la pipa. Il primo deve appagare un perenne tormento, che peraltro costituisce la sua ragione di vita (lo sfoga solo quando riesce a innervosire il prossimo); il secondo prende le distanze, rimira, riflette, cerca l’ordine sotto il disordine: la lunga durata di Fernand Braudel.
Manchette se ne fotte della lunga durata. Se ne fotte della progettualità. Non è realmente un rivoluzionario: è un ribelle. E’ l’uomo che propone seriamente agli amici di spargere sul pavé parigino bucce di banane, perché i poliziotti scivolino durante le cariche. E che, quando denuncia le aberrazioni del potere, lo fa senza concedere alcun credito scontato alle motivazioni degli antagonisti. L’etica è senz’altro dalla loro parte, però cadono troppo spesso prigionieri di un fervore religioso che li espone alle peggiori strumentalizzazioni. E’ la pars destruens che va coltivata, la destrutturazione quotidiana dei dogmi. Non solo ai nobili, ma anche a Robespierre va strappato il parrucchino. Con un gesto in fondo più aristocratico di quelli di tutti loro, nobili e rivoluzionari, però condito da ironica eleganza. In sintonia con i baffetti fini di Dashiell Hammett, con il sarcasmo di Karl Marx, con la folle cattiveria di Harpo Marx quando tagliava al prossimo la cravatta o il fondo dei calzoni.
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E’ mia opinione che non si possano decifrare la prosa o la personalità di Manchette senza partire da questo suo inquadramento di dandy ribelle, di situazionista integrale. Un atteggiamento umano, letterario e stilistico che, nella sua lucidità, comprendeva una buona dose di follia, e dunque di poesia. Tanto da fargli elaborare frasi di una trasparenza prossima alla rarefazione, come quella, semplicissima, che apre Posizione di tiro:
C’était l’hiver et il faisait nuit.”
Provate a trovarne una migliore. Impossibile: è di una perfezione cristallina. Un gradino sotto c’è la volgarità; subito sopra c’è il delirio.

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