di Valerio Evangelisti

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Una bambina irachena rimasta senza occhi per un bombardamento americano, intervistata giorni fa da un operatore della tv francese, chiedeva al pilota che le aveva tolto la vista come avrebbe fatto lui al suo posto, impossibilitato a guidare aerei, o anche solo a vederli, per il resto della sua vita. La domanda era ingenua e adeguata all’età della piccola. Rivelava un modo di vedere le cose ancora improntato a una qualche specie di etica. La bimba cieca e sofferente non poteva sapere che, se mai la domanda avesse raggiunto il suo torturatore, questi le avrebbe riso in faccia. O le avrebbe detto, con vago compatimento, che lo aveva fatto per la libertà di lei e dell’Iraq. O ancora che lui stava vendicando le vittime dell’11 settembre. Oppure che un sacrificio in vite e corpi umani era indispensabile per affermare nel mondo la democrazia, ovvero il potere degli Stati Uniti d’America, che della democrazia sono la più perfetta incarnazione (assieme a un’appendice dai contorni fumosi e cangianti chiamata Occidente).

In realtà sto parlando per paradossi. Sappiamo tutti benissimo che quel soldato, in questo momento, sta probabilmente festeggiando il successo della sua missione con fette di torta di mele nel lindo giardino di casa, attorniato da bimbi sani e biondi, da qualche vecchietto fiero che porta il berretto sghembo dell’American Legion e da vicini grassi con una bandiera a stelle e strisce ricamata sulla maglietta.
Tutti costoro fanno bene a essere contenti. Saddam Hussein non c’è più e il suo esercito è stato inghiottito dalla terra (inclusi, a quanto pare, persino i mezzi corazzati di cui disponeva); gli iracheni festeggiano la ritrovata libertà invocando Allah e colpendosi il cranio fino a grondare sangue; un governatore dall’aria s(t)olida ed energica del vero americano sta selezionando i possibili capi del futuro Iraq democratico, e moltiplica gli incontri con uomini d’affari locali capaci di fungere da interlocutori nella spartizione delle risorse, peraltro già assegnate a un gruppo privilegiato di compagnie occidentali (talora direttamente vincolate a esponenti dell’amministrazione Bush); i morti, che nessuno ha contato, sono spariti e, da quando le telecamere non entrano più negli ospedali, feriti e mutilati sono spariti anch’essi; i marines, cessato il divertente tiro a segno sulle automobili cariche di sfollati, si sono trasformati in bonari vigili del traffico. Quanto al bambino col cranio sfondato che qualcuno fotografò durante i primi bombardamenti, il suo cervellino spappolato è probabilmente andato a concimare la terra. Ne nasceranno fiori, così come, dal bagno di sangue a pronta evaporazione, nascerà la democrazia in Iraq.
Insomma, siamo in molti a gioire. Da chi si augurava una conquista anglo-americana dell’Iraq il più possibile rapida (con un alibi irresistibile per comicità involontaria: risparmiare vite); alla larva biascicante che periodicamente ci ammannisce, da New York, una sua rozza versione dello “scontro tra civiltà”, comprendente i somali che pisciano in Piazza della Signoria; a chi, pieno di sensibilità per lo più tardive, trova che la strage sia da imputare non a chi materialmente l’ha commessa, ma a una resa rinviata oltre il dovuto (ciò ricorda un poco chi sta imputando la strage di Marzabotto all’incomprensibile e testarda resistenza dei partigiani ai nazisti).
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Secondo il principio per il quale “il reale è razionale”, pare che l’attuale situazione irachena soddisfi un po’ tutti, e che dimostri come, bene o male, Bush e Blair avessero ragione. Un regime tirannico è caduto, la campagna è stata breve, le vittime avrebbero potuto essere di più (più di quante? Non è detto). Adesso si tratta solo di trovare Menelik… pardon, Saddam Hussein, di insegnare agli iracheni a comportarsi in maniera civile, di dividere il loro paese in regioni autonome a composizione etnica o religiosa omogenea, di trovare personaggi presentabili da fare votare al popolo tra qualche anno, di dare da mangiare e da bere alla gente per calmarla e aiutarla a superare il trauma. In pratica, ciò che si è fatto in Somalia (e tanti anni fa nel Congo belga, nell’Algeria francese, nell’Etiopia italiana, nel Marocco spagnolo, ecc.).
Sono tornati gli educatori severi ma gentili provenienti dal mondo civilizzato. Hanno fatto macerie, ma presto costruiranno acquedotti, autostrade, ferrovie e, soprattutto, distribuiranno istruzione. Pare che abbiano già stampato libri di testo per le scuole, con la storia dell’Iraq riveduta e corretta. I ras locali sono alla macchia, e la macchina per catturarli è già allestita. I capitribù accondiscendenti saranno coperti di prebende. Ci saranno diritti per tutti, eccetto gli ostili e i disobbedienti. Per costoro non esisteranno garanzie legali, ma ciò è ovvio: che legge ci potrebbe essere, per chi osa addentare la mano che lo nutre? Per colmo di generosità, le risorse che saranno sottratte all’Iraq, all’Iraq torneranno sotto forma di merci straniere liberamente acquistabili nei supermercati.
Si è trattato di Liberazione (e il solito Adriano Sofri non manca di spiegarcelo su La Repubblica del 25 aprile, in un suo personalissimo omaggio alla ricorrenza), come quando gli anglo-americani liberarono mezza Europa dai nazisti (il fatto che allora Germania, Italia e Giappone avessero invaso i paesi limitrofi, mentre adesso gli invasori sono gli altri, è dettaglio di scarso conto). Altrimenti un governo dittatoriale e crudele come pochi avrebbe resistito chissà quanto. Non era pensabile che il suo rovesciamento potesse essere opera del suo stesso popolo, o avvenire per dinamiche interne, come in Cile o in Argentina. Si è visto cosa sono gli iracheni. Gente intimorita o violenta, mezza morta di fame, incapace di combattere, fedele a santoni ridicoli con il turbante in testa e una coperta pidocchiosa sulle spalle. Gente così va liberata anche se non vuole. Finirà col riconoscere il padrone e per leccargli la mano. Del resto, sfoltiti i ranghi della massa con qualche bomba salutare, non c’erano già gruppi di pezzenti riuniti ad acclamare i carri armati in arrivo? E’ vero che erano pochi. Cresceranno di numero, date retta. Basterà riempire loro la pancia e piazzarli davanti a un televisore. Per i riottosi, si troverà qualche isola lontana dove deportarli, in modo che non rompano ulteriormente i coglioni.
Ormai è superfluo cercare pretesti, tipo il tormentone delle “armi di distruzione di massa” e la minaccia che l’Iraq costituiva per i vicini (leggi Israele e, per naturale traslazione, gli Stati Uniti). Inutile anche perdere tempo a tirare in ballo connessioni con Al-Queda (un gruppo affine è stato trovato, ma nella no-flight zone ritagliata dagli anglo-americani) o con l’11 settembre. Tutta quell’armamentario diventa inutile una volta reso palese lo scopo vero della spedizione, in tutta la sua intrinseca nobiltà: la democrazia. Esisterebbe l’Algeria democratica di oggi, se a suo tempo i francesi, affumicando i ribelli nelle caverne, non avessero sbarazzato il popolo algerino da Abd El-Khader e da altri sultani tirannici come lui? No. Laggiù (dove? Mary, tesoro, passami la carta del mondo del Reader’s Digest) vivrebbero ancora all’età della pietra, lerci come maiali. Non avrebbero la possibilità di manifestare che c’è da noi, e di tornare a casa dopo avere manifestato, in attesa delle prossime elezioni. Non avrebbero tutta l’informazione che c’è qua, sale stesso di una civiltà democratica.
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Già, l’informazione. Gli iracheni, poverini, vedevano passare sugli schermi notiziari ridicoli alternati a canzonette patriottiche, mentre i loro giornali vantavano continue vittorie di cui non c’era traccia. Qua è stato tutto diverso. Abbiamo seguito la guerra in poltrona, minuto per minuto. Prima la morte di Tareq Aziz, subito risorto. Poi l’immediata caduta di Bassora, che, data l’importanza dell’evento, è stata prolungata per due settimane. Quindi i missili Scud lanciati sul Kuwait e svaniti nell’aria, l’esecuzione sommaria di prigionieri americani in seguito ritrovati vivi e vegeti, l’autobombardamento di due mercati di Baghdad da parte di un Saddam ormai impazzito, la liberazione di una bionda soldatessa dal fisico da pin-up con tanto di bandiera Usa a mo’ di coperta (e di montaggio in diretta delle scene), l’abbattimento della statua del tiranno di fronte a una folla straripante di alcune decine di individui, e così via. E’ la qualità del nostro giornalismo che fa la differenza, sia in tempi di guerra che in periodo elettorale.
Mi ha molto colpito l’ultima dimostrazione della nequizia forsennata del regime spazzato via. Vari giornali e telegiornali hanno annunciato il ritrovamento, nei sotterranei di Baghdad, di una Vergine di Norimberga: il luttuoso sarcofago metallico a forma di bambola, che, una volta chiuso, trafiggeva l’infelice prigioniero con decine di punte. Nei servizi andati in onda sul tema si vedeva un individuo magro e baffuto, dall’aria spaventata e famelica, spiegare che l’aggeggio era usato da uno dei figli di Saddam Hussein per torturare i calciatori della nazionale irachena che commettevano errori in campo. Visto che la Vergine di Norimberga (una foto ha mostrato che si trattava proprio dell’originale) era impiegata non per torturare, ma per uccidere, temo che la realtà fosse ancora peggiore di quella prospettata dal tizio. Chissà quante volte la formazione della nazionale ha dovuto essere rifatta. Adesso che l’Iraq è stato liberato potrà avere, se non altro, una squadra di calcio dalla composizione stabile.
Di tutto ciò la bambina cieca non sapeva nulla. Le abbiamo cavato gli occhi perché non potesse continuare a vedere una tv menzognera. E a quell’altro bambino, quello senza gambe e senza braccia, abbiamo staccato gli arti perché non potesse mai diventare calciatore, col rischio di essere torturato.
Perché noi siamo l’Occidente, vale a dire la Civiltà. E adesso venite avanti con la vostra scodella, ché vi diamo da mangiare. In ordine, però, e senza spingere, altrimenti vi frustiamo. Arabi di merda.