Annalisa.jpg

Il telefono squillava senza sosta. Quella mattina sembrava che nulla dovesse andare per il suo verso. Avevano esordito i custodi dei magazzini. Non ci capivano nulla. Davano la colpa ai nuovi assunti: cassintegrati riciclati alla buona, catapultati lì senz’arte né parte. Gli scaffali erano in gran disordine: miscellanee mescolate con i periodici, collocazioni scambiate come se tutti i volumi del deposito fossero stati messi nel frullatore e poi ridistribuiti a caso. La Direttrice aveva delegato il problema a Zamperetti, responsabile delle ricerche a magazzino.
– Veda un po’ lei cosa sta succedendo. Esagerano, come sempre. Anche oggi hanno trovato la scusa buona per non lavorare.


Poi aveva telefonato la dottoressa Soppelsa dal catalogo. Con voce stridula berciava al microfono che bisognava incatenare i cassetti del catalogo generale, come si faceva ai bei tempi con i codici legati ai plutei. Un marasma: l’ordine alfabetico era andato a farsi benedire, bisognava provvedere immediatamente, mettere un custode con il mitra spianato, benedetti utenti, blablabla. E questo era niente.
– Venga, dottoressa Malvezzi, venga a vedere dentro i cassetti: non c’è una sola scheda che vada d’accordo con un’altra. Sembra che le abbiano smazzate come per una partita a canasta!
Lucia Malvezzi, nobildonna cinquantenne di ancor piacente aspetto, dirigeva da tempo la biblioteca ed era avvezza alle continue lamentele dei suoi collaboratori. Disfattisti, per lo più; incapaci, nel 70% dei casi; lavativi, spesso; ostruzionisti, sempre. Lo stile irreprensibile di cui era geneticamente dotata le impediva di esprimere l’esasperazione che spesso la pervadeva; stoica sopportazione e aristocratica cortesia: questo era il suo motto. Accontentava tutti e tutti erano insoddisfatti. Comprendeva, perdonava, concedeva, ma non bastava mai.
L’ennesimo trillo dell’odiato arnese le portò la voce concitata del dottor Trapani, responsabile dell’automazione.
– Lucia, qui è un disastro! Tutti i terminali sono bloccati in errore fatale. Per oggi non si può catalogare in SBN (1) . Ho già parlato col CED (2): non sanno come spiegarselo! Temo che dovrai informare l’ICCU (3).

Nei giorni successivi la situazione peggiorò, la confusione aumentò a dismisura, al punto che la Malvezzi rischiò di perdere la proverbiale calma olimpica della quale si favoleggiava perfino in Via del Collegio Romano, sede del Ministero. Stremata dall’ennesima giornata campale, decise di fermarsi in biblioteca dopo la chiusura. Aveva un pacco di bozze da correggere e voleva controllare una citazione che non la convinceva. Nell’aprire la porta blindata del deposito manoscritti, udì strane voci provenire dall’interno. Un mormorio appena percettibile era amplificato dalla volta rinascimentale che la sovrastava. Convinta di sorprendere finalmente il vile che da anni saccheggiava miniature ed incisioni creandole non pochi grattacapi col Direttore Generale per i Beni Librari, si acquattò dietro uno scaffale e spiò da una sottile apertura tra un graduale e un catastico. Lo spettacolo che si offrì ai suoi occhi le tolse il respiro. Due spettri, imponenti nei loro abiti d’epoca, seppur consunti e sbiaditi dal tempo, parlavano fitto tra loro con voce metallica, a tratti stridula. Dal suo nascondiglio la Malvezzi identificò con orgoglio scientifico l’augusta coppia: lui doveva essere sicuramente un procuratore settecentesco. La parrucca e la stola vermiglia non lasciavano dubbi. Il fantasma, intento a sfogliare codici su codici, strappando qua e là qualche carta, sbottò:
– Madonna Polissena, conservi questi miei rendiconti dalle Fiandre. Poi li bruceremo insieme alle relazioni che ho spedito dall’ambasceria in Ispagna. Non posso tollerare che vili plebei mettano continuamente mano alle mie carte. Cercano, indagano, interpretano, frugano… Non dimentichiamo i libri mastri, per carità, prenda anche quelli!
– Clarissimo Kavalier Bortolo, mi ha presa forse per una massera? Ho ben altro da fare che star qui a sfacchinare per i suoi begl’occhi! Tra poco inizia un consesso in sala cataloghi: dobbiamo organizzare la sarabanda per domattina…
Una Malvezzi sempre più esterrefatta osservava la scena. Si trovava davanti un’autentica patrizia veneziana di fine cinquecento imponente nella sua zimarra di broccato d’oro. La passione storica le aveva fatto dimenticare solo per un attimo la paura. A fatica riuscì a distogliersi dall’ipnotica apparizione, approfittò dell’alterco tra i due per allontanarsi non vista dal deposito e se ne tornò a casa col cuore in tumulto. Adesso era tutto chiaro, per quanto pazzesco e assurdo potesse sembrare.
Percorse la strada che la separava dal palazzo avito guardandosi continuamente alle spalle, sentendosi quasi braccata. Senza nemmeno togliersi di dosso il manteau di visone e il colbacco, si precipitò nello studio e nervosamente prese a rovistare tra i volumi della sua libreria.
– Che disordine! Con tutto il da fare che ho sto trascurando la mia biblioteca! Dove l’ho messo… dove sarà finito…
Si acquietò soltanto quando le venne finalmente tra le mani un volumetto dalla copertina telata color verde smeraldo.
– Eccolo! Sapevo che non mi avresti abbandonata, Oscar, caro…
Consultò febbrilmente l’indice sdraiandosi sull’agrippina damascata, poi iniziò a leggere con avidità quel geniale racconto. Fu lì, tra le mura di Canterville, che trovò l’ispirazione.

Libridine.jpg

Il mattino seguente Lucia Malvezzi mise a punto il piano di guerra con una determinazione che avrebbe fatto impallidire i suoi antenati. Poteva permettere che la notizia divenisse di dominio pubblico? Le sembrava già di leggere i titoli a nove colonne sul giornale cittadino: La più importante e frequentata biblioteca della città infestata dai fantasmi! No, lei non avrebbe potuto sopportarlo. Doveva cavarsela da sola e presto, il più presto possibile. Giunta in direzione, respirò a fondo prima di convocare il dottor Zambòn, l’unica sua speranza di salvezza. Per poter sopravvivere a un incontro con lui aveva da tempo sperimentato una tecnica zen di rilassamento che le permetteva di mantenere inalterate la concentrazione e la padronanza di sé in qualsiasi occasione. Chi non conosce Marvino – il nome, causa di molte sue turbe, gli era stato inflitto dalla madre delirante ammiratrice di Lee Marvin – riterrà questa un’esagerazione psicotica. Ma non si devono mai esprimere giudizi senza cognizione di causa: Marvino Zambòn incarnava uno dei problemi cronici e pertanto irreversibili dell’istituto. Afflitto da paranoia persecutoria progressiva e incalzante, erotomane inibito e di conseguenza sessuofobico, logorroico senza speranza di guarigione, non era mai riuscito a inserirsi nell’ambiente, per quanto fosse in organico – e di ruolo! – da quasi vent’anni. Nessun impiegato si era mai lasciato convincere a collaborare con lui ed egli era destinato a vagare per i vari uffici senza trovare mai una collocazione e un incarico precisi. Riteneva di essere per questo, si capisce, un perseguitato. Del resto chi poteva tollerare il suo incessante chiacchiericcio, le continue lamentele, l’autobiografia spinta urlata con voce tenorile che trapassava i proverbiali sette muri! Insomma, era un caso disperato. La direttrice lo vide entrare nel suo ufficio come una furia, con lo sguardo fisso, i lineamenti alterati.
Fin dalla porta Zambòn apostrofò la povera Malvezzi che lo accoglieva radiosa:
– La contessina finalmente si è ricordata che esisto! Da anni non riesco a ottenere udienza e ora devo precipitarmi a ossequiarti per chissà quale rottura di palle, scusa il termine! Per le rogne ci sono sempre solo io, vero? E pensare che ho rinunciato all’università… per la carriera bibliotecaria… Potevo essere l’assistente di Folena! Ma cosa fai Lucia, mi prendi sottobraccio!
Approfittando della pausa insperata la direttrice riuscì ad interloquire.
– Hai ragione Marvino caro, ti ho un po’ trascurato ultimamente. Sai, con tutti i problemi che mi assillano… Ma ora sono decisa a riparare i miei torti. Sto predisponendo una ristrutturazione degli incarichi ai capiservizio. Che ne diresti di occuparti a tempo pieno della sala di lettura e dell’informazione a catalogo? Pensavo di affidarti la responsabilità dell’assistenza al pubblico. Potresti esprimere le tue potenzialità, gestire autonomamente un settore.
– Non credere di farmi fesso. Ti conosco, sai! L’avrai già offerto a tutti gli altri ottenendo rifiuti a ripetizione. Bella gatta da pelare! Ma non sperare che mi tiri indietro. Va bene. Mi sacrifico per la comunità.
A grandi passi se ne uscì per prendere immediatamente possesso del feudo di cui era stato così solennemente investito. Corse a disinfettare la scrivania che troneggiava in fondo alla vasta sala di lettura tra i due imponenti busti di Dante e Petrarca, e vi sistemò in bella mostra Clementina, un’asfittica violetta africana che curava come una figlia e che, come spesso fanno le figlie, non gli aveva mai dato alcuna soddisfazione. La prima ispezione a catalogo ebbe un effetto devastante. Litigò con la collega Soppelsa che stava eroicamente tentando, come ogni mattina, di rimettere ordine tra i cassetti.
– Non sopporterò interferenze qui! Lasciatemi lavorare in pace! Ho da fare, ho da fare!
Nella foga andò a sbattere contro un cassetto che sporgeva dal mobile proprio all’altezza del suo naso. Alzando gli occhi vide un’alta sagoma scura che incombeva su di lui. Era il fantasma di Ermolao, dotto arcade e mediocre poeta, afflitto da sindrome compulsiva che gli imponeva di distruggere ogni traccia degli accademici suoi avversari. Rastrellava a tappeto depositi, catalogo topografico, repertori e dove passava sparivano come risucchiati da un vortice non solo libelli e pamphlet ma anche i relativi riferimenti su bibliografie e cataloghi. Zambòn lo fissò, impavido, negli occhi.
– La vedo in difficoltà, signore. Di cosa si interessa? Vedo che sta consultando la voce Sofifilo Nonacrio. È fortunato sa? Pensi che io ho dato l’esame di letteratura italiana col Sapegno! E lui dieci anni prima aveva tenuto il corso monografico proprio sull’Arcadia! Non mi sono laureato con lui perché altrimenti Giulio Carlo l’avrebbe presa come un affronto personale. Eh, caro mio, ero una delle speranze dell’Argan! Se solo mio padre non si fosse dovuto trasferire a Milano nel momento decisivo. Così mi sono laureato con una tesi di filologia latina, perché io ho conseguito la maturità… classica, cosa crede, mica come tanti colleghi qui, certi dottori, periti industriali o peggio, che non sanno né di latino né di greco, ma cosa fa… dove va… Maleducato!
Il povero Ermolao fuggì all’impazzata con un urlo straziante, lasciando dietro di sé una viscida e luminosa scia ectoplasmatica.
– Guarda che modi! Del resto, dovevo capirlo subito. Come minimo era un punk, o un dark, uno studente di architettura insomma, certo, quelli sono tutti degli originali, fanno gli artisti, vengono qui solo per far casino, col rispetto parlando, vero! E questa roba cos’è?
Da un tavolo colava, nauseante e immondo, l’ectoplasma di Ermolao.
– Ma è pazzesco! Questi giovinastri! Prima si sbaciucchiano nei bagni (li ho visti, io!) poi sotto i tavoli si abbandonano a pratiche innominabili, adesso osano lasciare tracce invereconde dei loro amorazzi! E’ una vergogna, un’indecenza!
Gesticolando tentò di avviarsi dalla Malvezzi, ma fu bloccato da una collega della distribuzione.
– Dottor Zambòn, nella sua nuova veste di responsabile della sala di lettura, dovrebbe parlare lei con gli addetti ai magazzini. In tutta la mattina non è sceso nemmeno un volume. Gli utenti sono in rivolta. La prego vada a vedere cosa sta succedendo!
Depistato da una nuova emergenza Marvino arrancò su per le scale e imprecando raggiunse i depositi. Dei commessi non c’era traccia, eppure si sentivano distintamente voci, sospiri, mugolii, risate agghiaccianti.
– Ecco cosa succede! Per forza non vengono evase le richieste! Qui c’è in atto un baccanale, un’orgia in piena regola! In questa biblioteca non si viene per lavorare, eh no! Libertini, ecco cosa siete, depravati! Se fossi io il direttore vi farei subito una bella censura! Dove siete, vigliacchi, dove vi nascondete?
Maledicendo il giorno in cui era stato assunto (anche perché non lo invitavano mai ai festini) prese a correre tra gli scaffali invocando a squarciagola la Mariarosa, perché lui una ragazza ce l’aveva, anche se nessuno voleva credergli, dicevano che non si era mai vista, ma era colpa sua se lei l’aveva lasciato per il Furlanetto, quell’insipido professorino senza futuro che tanto si sa che dopo il dottorato di ricerca restano tutti con un pugno di mosche in mano?
Vagò a lungo nei magazzini senza accorgersi di fuochi fatui che gli lambivano il volto, di ombre spaventose che lo avvolgevano: erano Ermolao, Polissena e Bortolo che tentavano disperatamente di terrorizzarlo. Ce la mettevano tutta, poveri diavoli. Ma lui non vedeva e non sentiva se non ciò che voleva sentire e vedere; era infatti certo di trovare, avvinghiati in qualche angolo, il Ghini e la Lupari, oppure la Valenti con il Celani; tutti in biblioteca facevano finta di niente, ma lui sapeva, oh, se sapeva! Improvvisamente un vortice lo travolse, un gran freddo gli penetrò nelle carni, la finestra si spalancò per una folata di vento che fece cadere volumi e suppellettili: un fiume di demoniache presenze defluì perdendosi nel cielo livido.
La pace ed il silenzio che seguirono trovarono Marvino a terra, stordito. Quando riuscì a riprendersi corse a protestare in direzione per la fatiscenza degli infissi che bisognava sostituire al più presto.
Nei giorni successivi il clima si arroventò a ritmo vertiginoso. Mancava poco a Natale, i rari utenti superstiti al clima vacanziero non alzavano gli occhi dai libri e non si sarebbero accorti nemmeno di un’esplosione nucleare; gli impiegati precettati dalla Malvezzi si contavano sulle dita di una mano e, tra un cappuccino, una sigaretta in atrio ed un giro per il doveroso shopping prefestivo, si davano alla macchia. Eppure il povero Zambòn aveva un gran da fare a catalogo, affollato com’era di fantasmi di ogni tipo che lo bersagliavano di perfidi scherzi e dispetti diabolici. Ma, nonostante gli spiriti si affannassero, rispolverando il loro repertorio di effettacci da sincope, non riuscivano ad aver ragione di quella pellaccia del Marvino. Ogni assalto finiva in ritirata: nemmeno gli spettri più navigati riuscivano a resistere al fiume di parole che li investiva. Ma non era solo quello il problema: trovavano intollerabile soprattutto non venire riconosciuti per ciò che erano.
Lo stridente rumore di catene veniva impietosamente scambiato da Marvino per l’innocuo tintinnio degli accessori di un chiodo da metallaro.
– Tanto, ormai, in biblioteca ci vengono cani e porci, perfino gli studenti! – questo era l’unico commento che riuscivano ad ottenere da quel coriaceo bibliotecario.
Il fantasma di un cicisbeo che corteggiava Polissena veniva apostrofato:
– Ma le sembra maniera di vestirsi! Neanche fossimo al carnevale della Fininvest!
Il lenzuolo svolazzante del più classico degli spettri finiva nello stanzino delle scope con un commento che rendeva la fantasmagorica comitiva del tutto disarmata:
– Lasciano in giro anche gli stracci, adesso! Se non ci fossi io qui a rimettere un po’ d’ordine…
Non era possibile continuare così. Quelle anime in pena dovettero ammettere di aver fallito e decisero di traslocare in un luogo più accogliente e tranquillo. Inviarono Bernardo, il cicisbeo, in avanscoperta. Dopo lungo fluttuare per la città, se ne tornò trionfante.
– Buone nuove per lorsignori! Non lungi di qui vi è una dimora ove potremo trovar la quiete che ci abbisogna.
Proprio di fronte alla biblioteca si ergeva austero e imponente l’antico palazzo reale, trasformato in museo archeologico. Tra ferie, congedi straordinari, “ponti”, recupero festività soppresse e permessi sindacali era aperto al pubblico sì e no due giorni su sette. I guardasala erano sonnacchiosi signori che alternavano quell’incombenza alla più remunerativa gestione di chioschi abusivi addossati all’ingresso principale del museo, dove si potevano acquistare simpatici souvenir della città d’arte. Tali custodi prendevano servizio dopo faticose giornate di contrattazioni plurilingui, sprofondavano nella loro poltroncina d’ordinanza col berretto calato sugli occhi e chi li sentiva più. Non era forse l’ideale?
In poco meno di un baleno la biblioteca si svuotò. Marvino se ne accorse mentre iniziava con entusiasmo un nuovo capitolo della sua vita raccontando di come era riuscito a guadagnarsi il ruolo di solista nel coro parrocchiale, omettendo naturalmente di specificare che gli altri cantori avevano preferito cambiare sagrestia.
– … ma dove sono spariti tutti? E la ricerca araldica che stavamo facendo?

Poco alla volta la vita in biblioteca riprese come al solito. Una revisione ad hoc rimise a posto i danni prodotti dalla sarabanda fantasmagorica, che entrò a far parte della tradizione orale dell’istituto, tramandata di padre in figlio in endecasillabi sciolti. La Malvezzi, entusiasta per come aveva risolto la scabrosa evenienza, convocò Zambòn per dargli ufficialmente soddisfazione ed informarlo che intendeva proporre al Ministro la sua nomina a Cavaliere.
– E non è finita qui, Marvino caro! Come premio per la tua impresa sono riuscita a farti assegnare l’interinato alla direzione del vicino museo archeologico, vacante da anni. Per il momento si tratterà di un distacco a tempo indeterminato, ma presto ci sarà il concorso. Vedrai, da cosa nasce cosa! Sono così felice per te! Permettimi di essere la prima a congratularmi per la tua futura, brillante carriera!

NOTE

1) Servizio Bibliotecario Nazionale.
2) Centro Elaborazione Dati.
3) Istituto Centrale per il Catalogo Unico.

Da Annalisa Bruni, Storie di libridine, Edizioni della Laguna, 2002