di Luca Baiada

Simonetta Valtieri (a cura di), Palazzo Cesi in via della Maschera d’Oro a Roma. L’ampliamento e le trasformazioni operate dal XVI al XX secolo nel palazzo, già Gaddi, ora sede della giustizia militare, GB EditoriA, Roma 2022, pp. 198, euro 40.

Un oggetto che si presenta elegante, con una bella veste tipografica, questo libro dedicato al Palazzo Cesi di Roma. È un grande edificio fra piazza Navona e il Tevere, vicino a via dei Coronari. Malgrado la mole è poco conosciuto, anche perché vi si arriva solo se proprio si vuole: non ti cerca, non si impone, anzi si apparta. Prima d’ora, sul palazzo non esisteva una monografia aggiornata così precisa e fitta di note, perciò è bene che sia stato fatto un lavoro d’impegno come questo. Eppure manca qualcosa.

Su tre lati dell’edificio i corpi di fabbrica sembrano avere una storia singolare. Il più pregiato è su via della Maschera d’Oro (il nome viene da una maschera dipinta, poi scomparsa), troppo stretta per godersi la vista della splendida decorazione sulla facciata; comunque, adesso la decorazione non c’è più. Il lato su via degli Acquasparta, novecentesco, ha un prospetto di vecchia foggia. Il breve tratto su piazza Lancellotti è accostato a una chiesa sconsacrata e vuota. Del quarto lato, si vuole dire qualcosa sul fabbricato e sulla strada d’affaccio? Impossibile, perché l’uno non è stato costruito e l’altra era nel piano regolatore ma poi non l’hanno aperta. Sono tutti dati riportati in questo libro attentissimo, ricco di fotografie e di contributi[1]. Eppure sì, manca qualcosa.

Nelle biblioteche degli appassionati di antichi palazzi il volume ci vuole: è minuzioso sino ai dettagli. Sarebbe troppo, però, aspettarsi un’estetica non catalogale e non classista; del resto, forse che tutti gli appassionati di palazzi hanno queste esigenze? Per altri aspetti è una soddisfazione. Nel racconto dei passaggi di mano e delle vicende dei frequentatori ci sono matrimoni, eredità, alleanze e liti di nobili e alti chierici. Non importa, se non dice nulla sulla servitù, che preparava le feste e rosicchiava gli avanzi. Non importa, se tace sui contadini che mantenevano i signori: nella vasta sala del Linceo – il vano più prezioso – sono affrescate le località dei titoli nobiliari e quindi dei possedimenti; lontani da Roma, fuori della storia ufficiale, erano ad Acquasparta, a Carsoli, a Civitella Cesi, a San Polo, nell’Italia profonda, dove una plebe sfruttata e confinata nell’ignoranza faceva il padrone d’ozi beato e di vivande. Ma di certo, se si guarda alle famiglie nobili e borghesi, questo libro è uno scrigno di notizie. Però manca sempre qualcosa.

È bene che si parli di Galileo Galilei, anche se solo per cenni. Sulla facciata del palazzo c’è una scritta quasi illeggibile – tanti cantieri per il Giubileo, a Roma, ma non si spendono quattro soldi per restaurare una lapide – e il volume la riporta:

Il principe Federico Cesi romano

che stretto da persecuzioni maligne

mantenne l’ardore della scienza

investigatore illustre della natura

dell’Accademia de Lincei fondatore

in questo palazzo di sua famiglia

accolse le dotte adunanze

e l’amico suo Galilei.

S.P.Q.R. 1872[2].

Attenzione: 1872. Galileo fu qui, ma due secoli e mezzo prima. Questioni di potere temporale, quello che il papa nel 1872 aveva appena perso. Su questo diamo la parola al battagliero Alessandro Gavazzi, un patriota dell’Ottocento e un chierico (che divenne protestante). Scrive che i papi non hanno diritti su Roma e non vuole uno Stato del papa, neppure su un pezzetto della città; fa un esempio:

Qualora il papa dovesse signoreggiare principe indipendente ed assoluto, fosse ben anche nella sola cinta vaticana, ciò basterebbe per avergli riconosciuto il diritto al principato. Ma il diritto al principato essendo nel papa un’antifrasi, un assurdo, una bestemmia; così coloro si rendono complici di lesa ragione, e per noi di tradita patria, i quali vorrebbero pur lasciare al papa qualche bricciolo di temporalità[3].

Gavazzi non vide lo Stato pontificio rinascere nel 1929, col Concordato, per colpa dei fascisti. Già, i fascisti.

Nel libro si apprezza, insieme al ricordo di Galileo, quello appunto di Federico Cesi, fondatore dell’Accademia dei Lincei. Poteva vivere senza far nulla, e invece no: colto e intraprendente, studiava, sperimentava, organizzava. Certo, un conservatore; scrive che col sapere cresceranno le virtù, con vantaggi:

Haverà più soggetti osservanti del giusto et amici della pace, onde siano meno trasgredite le leggi e con più quiete si viva senza tumulti e sedizioni, senza desiderio di novità e di brighe[4].

Per pace intende quella sociale. La canzone Contessa di Paolo Pietrangeli non gli sarebbe piaciuta: «Voi gente perbene che pace cercate, la pace per far quello che voi volete…». Niente emancipazione di chi lavorava per mantenerlo, ma almeno si spendeva per il progresso scientifico.

Sui Lincei, però, il libro non coglie la sostanza: bisogna spiegare bene il senso dirompente della ricerca libera e della fondazione dell’Accademia, per quei tempi, e c’è da fare un accostamento meditato fra, allora, l’ostilità del clero e, nel Novecento, la manomissione fascista dell’istituto. Ancora i fascisti. E sempre manca qualcosa.

Un atto catastale del 1948, che spasso! Nel complesso abitano quattro dipendenti dell’amministrazione militare[5]. Non si sa se pagano un affitto, se lavorano lì, se ci sono di mezzo comodità passate attraverso il regno, il fascismo, l’occupazione tedesca, la Repubblica. Prendersela con loro? Dopo la Seconda guerra mondiale sfollati e disperati ricavavano case nei monumenti, nei ruderi, negli archi degli acquedotti (però non avevano un impiego statale). Si vede nel capolavoro neorealista di Castellani Sotto il sole di Roma, col ragazzo che abita nelle rovine; l’attore è lo stesso di Miracolo a Milano di De Sica.

A proposito: Era notte a Roma, di Rossellini, è ambientato a poca distanza da Palazzo Cesi, in un edificio a San Salvatore in Lauro con vicinanze sorprendenti fra lusso e stanzucce; durante l’occupazione, in un salotto, fra un nazista vero e un ufficiale inglese travestito da cameriere, un aristocratico si vanta: il palazzo è fatto con le pietre del Colosseo. Forse è sempre andata così: splendori, degradi e riusi dei luoghi e delle cose. Rutilio Namaziano, nel Quinto secolo, cioè in piena decadenza, viaggia da Roma alla Gallia passando per Civitavecchia, Porto Ercole, Pisa: persino in edifici prestigiosi trova gente accampata[6]. Il volume, ecco, stimola la riflessione. Però, davvero, manca sempre qualcosa. Insomma, di che si tratta? Cosa manca?

Dagli anni Quaranta del Novecento Palazzo Cesi è sede degli uffici centrali della giustizia militare; e questo nel libro non manca. Il punto è un altro. Finita la guerra, i documenti con le indagini sulle stragi nazifasciste dal 1943 al 1945 – decine di migliaia di morti – vanno a formare un archivio per processare i colpevoli. In concreto si fanno pochi dibattimenti clamorosi, poi basta, e dagli anni Cinquanta restano in carcere solo due nazisti: Kappler e Reder (molti anni dopo, liberati anche loro, con manovre luride). Tutto lì. I fascicoli sui massacri, che spesso contengono prove precise, persino mappe dei fatti e nomi dei colpevoli, compresi i collaborazionisti fascisti, sprofondano in uno spazio chiuso, fisico e mentale. Così le stragi rimangono impunite. Ecco cosa manca nel libro.

Quegli atti restano proprio a Palazzo Cesi e saranno rifrequentati solo nel 1994, cinquant’anni dopo la guerra. Il giornalista Franco Giustolisi nel 2004 chiamerà questa storia Armadio della vergogna[7]. Mezzo secolo di insabbiamento, di colpevole silenzio, di far finta di niente. Tutto sul sangue delle persone e sul lutto dei familiari. Anche sui corpi di oltre mezzo milione di militari, deportati e fatti lavorare come schiavi, trattati da bestie, lasciati morire di stenti; perché stragi e deportazioni sono inseparabili. In quelle storie ci sono le razzie, le devastazioni dei paesi incendiati, il dolore dei borghi saccheggiati, le donne stuprate, un numero incalcolabile di orfani, l’angoscia per i dispersi, le famiglie schiacciate nella miseria materiale dell’Italia devastata.

Verranno altre miserie: quella morale dell’Italia consumista, poi quella politica degli opportunismi, del riflusso e delle tangenti, e ancora quella della deindustrializzazione, della terziarizzazione, della finanziarizzazione. E l’archivio sempre lì, fino a una riemersione misteriosa, nell’Italia del primo berlusconismo. Non c’è coerenza, in questo? Con Berlusconi la società dello spettacolo celebra l’eclissi della vergogna, e un’Italia svergognata non ha più bisogno di un nascondiglio vergognoso.

Adesso a Palazzo Cesi gli uffici giudiziari militari ci sono ancora, ma nessuna scritta ricorda al pubblico l’osceno sequestro di giustizia. Per i Lincei e Galileo una lapide illeggibile, per le stragi impunite neanche quella, benché sia lo scandalo di potere più violento della storia postunitaria: l’indicibile grumo nero dell’Armadio della vergogna. Su questo mare di sangue sepolto, sul fatto che l’archivio fosse lì, proprio nel Palazzo Cesi, l’elegante volume non dice neanche una parola.

E pensare che c’è persino l’immagine di un’edicola religiosa, fuori, che è a pochi metri dal punto in cui era l’archivio, ma dentro[8]. Forse qualche familiare delle vittime ha pregato o ha messo un fiore proprio lì, senza sapere che la verità sui massacri era a un passo, là oltre il muro. All’epoca il centro di Roma era del popolo. Per esempio: Remo Perpetua, caduto alle Ardeatine, abitava a Tor di Nona; sono pochi passi. Nella famiglia di un rigattiere, del Palazzo Cesi non potevano conoscere che l’edicola per strada, cioè un angolo dove piangere.

Il volume tace, eppure: è realizzato con la collaborazione di un alto magistrato militare, e della giustizia militare ha lo stemma ufficiale sul risvolto di copertina. Dove è stato presentato, dopo la pubblicazione, Palazzo Cesi in via della Maschera d’Oro a Roma? Ma a Roma, in via della Maschera d’Oro, a Palazzo Cesi.

 

 

[1] Il libro contiene i contributi di Enzo Bentivoglio, Ferruccio Ferruzzi, Giorgio Ortolani, Simonetta Valtieri; le prefazioni sono di Daniela Porro, soprintendente speciale di Roma, e di Roberto Bellelli, magistrato militare, promotore e responsabile del progetto; è stato promosso anche dall’associazione culturale RinascimentiAmo: un Futuro per il Passato.

[2] Simonetta Valtieri (a cura di), Palazzo Cesi in via della Maschera d’Oro a Roma. L’ampliamento e le trasformazioni operate dal XVI al XX secolo nel palazzo, già Gaddi, ora sede della giustizia militare, GB EditoriA, Roma 2022, p. 76, nota 18.

[3] Alessandro Gavazzi, Roma tutta dell’Italia. Pensieri in risposta al cav. Massimo D’Azeglio, Tip. Gargiulo del Messaggiere Napolitano s.d. (ma degli anni Sessanta del XIX Secolo), pp. 23-24.

[4] Federico Cesi, Del natural desiderio di sapere et institutione de’ Lincei per adempimento di esso, in Maria Luisa Altieri Biagi, Bruno Basile (a cura di), Scienziati del Seicento, Riccardo Ricciardi Editore, Milano-Napoli 1980, pp. 66-67.

[5] Valtieri (a cura di), Palazzo Cesi in via della Maschera d’Oro a Roma, cit., p. 167, nota 8.

[6] Rutilio Namaziano, De reditu suo, trad. Il ritorno, Einaudi, Torino 1992.

[7] Franco Giustolisi, L’armadio della vergogna, Nutrimenti, Roma 2004.

[8] Valtieri (a cura di), Palazzo Cesi in via della Maschera d’Oro a Roma, cit., pp. 47 e 49.