di Francisco Soriano

A vedere quel corpo minuto e il viso così pallido, con la fronte stretta e gli occhi castani, vivissimi, nessuno avrebbe immaginato la pericolosità sociale di questa donna: il suo nome era Virgilia D’Andrea. La nota prefettizia in un documento del 1919, stilato a Bologna, la definiva addirittura come un tipo violento per temperamento e volubile che riscuote nell’opinione pubblica cattiva fama, avendo sempre mantenuta una condotta morale riprovevole. Il linguaggio burocratico del funzionario addetto alla pubblica sicurezza non tradiva il pregiudizio morale nei confronti di una donna che, seppur “fornita di discreta intelligenza, educazione e coltura / sic./ avendo compiuti gli studi necessari per conseguire il diploma di maestra si dedicò dapprima all’insegnamento /…/ma abbandonò poi la professione per darsi completamente alla propaganda sovversiva che svolge con attività e profitto, essendo dotata di parola facile.”

Virgilia D’Andrea nacque a Sulmona in provincia dell’Aquila nel febbraio del 1888. Affidata a un collegio religioso per la perdita dei suoi genitori avvenuta tragicamente, ricevette un’educazione rigida e fortemente permeata da valori cattolici. La giovanissima Virgilia denotò subito una sensibilità letteraria: si dedicò infatti alla lettura dei poeti insigni della nostra grande tradizione lirica come Giacomo Leopardi, Giosuè Carducci, Mario Rapisardi e Ada Negri alla quale dedicherà tutta la sua attenzione e studio: io uscii da quella lettura rinovellata e rinvigorita, come se tutto l’essere mio si fosse tuffato in un bagno d’azzurro purificatore. Erano anni di sconvolgimenti sociali e politici, scanditi da sequenze di avvenimenti violenti. Infatti, anche all’interno del convento dove Virgilia era stata condotta dopo essere rimasta orfana, giunse la notizia dell’uccisione del re Umberto I, colpito a morte nella città di Monza dall’anarchico Gaetano Bresci. Nonostante le monolitiche indicazioni delle suore dell’istituto che costrinsero alla preghiera le studentesse per la morte del sovrano e la narrazione degli eventi, questo avvenimento provocò in Virgilia un moto di reazione. L’azione di Bresci rafforzò in lei la convinzione che l’attentato avesse delle ragioni non semplicemente derubricabili al gesto di un folle o di un criminale comune. Quell’uomo aveva ordito e attuato l’attentato perché riteneva il re corresponsabile di un colpo di stato militare contro il parlamento e, soprattutto, perché a Milano nel maggio del 1898 ordinò una brutale repressione durante le proteste per la rivolta contro l’aumento dei prezzi del pane.

Già nel 1909 Virgilia conseguì con successo il diploma di maestra elementare e, finalmente, poté lasciare l’istituto ritrovandosi tuttavia sola e senza nessun familiare che potesse aiutarla. Dopo aver ricevuto a Napoli la licenza che la dichiarava idonea all’insegnamento, cominciò a lavorare nei pressi del suo paese d’origine, Sulmona. Passarono i primi anni da questa sua prima esperienza professionale che l’Italia entrò in guerra. La Prima guerra mondiale con il suo immane carico di dolore deflagrò l’Europa in una snervante guerra di trincea. Come per molte giovani della sua epoca, Virgilia subì il trauma di questo conflitto per lei insensato, inumano, che conduceva al massacro la migliore gioventù di quegli anni; per questo motivo decise di scendere in prima linea in un impegno politico attivo che si produrrà in diverse battaglie politiche. L’attività antinterventista le consentì di conoscere esponenti dell’antagonismo abruzzese: molti di loro vicini all’anarchismo. Il movimento anarchico italiano è tuttora relegato in un limbo di conoscenze superficiali e rimane lontano dalla considerazione che meriterebbe per l’enorme contributo in termini valoriali ai movimenti di protesta e della sinistra italiana negli anni antecedenti all’avvento del fascismo. Si tace, ad esempio, sulla dimensione delle presenze ai comizi di Errico Malatesta, in migliaia di persone, e non si dà rilievo alla diffusione di oltre centomila copie l’anno del quotidiano anarchico Umanità Nova. Fu nel 1917 che un compagno corregionale di Virgilia, l’avvocato Mario Trozzi, accompagnò l’attivista all’Impruneta per incontrare Armando Borghi, uno dei leader del movimento anarchico e sindacale finito in prigione anche per le sue manifestazioni contro l’interventismo italiano nelle attività belliche. Borghi era un personaggio di primo piano del sindacalismo rivoluzionario di matrice anarchica, che trovava nell’USI una delle associazioni sindacali fra le più rappresentative dei lavoratori. A fondare l’USI nel 1912 (e a guidarla almeno fino al settembre 1914) furono soprattutto dei “sindacalisti rivoluzionari”, da non confondersi con gli anarchici. Alceste e Amilcare De Ambris, Tullio Masotti, Filippo Corridoni non furono mai anarchici. Anche dopo il loro allontanamento dall’USI a seguito della loro scelta interventista e nonostante si produsse un aumento di peso degli anarchici nel sindacato, diversi sindacalisti rivoluzionari restarono nell’USI (che non fu mai, quindi, ideologicamente omogenea).

L’incontro fra i due fu un colpo di fulmine: da questo momento nacque un sodalizio sentimentale e politico che finirà solo con la scomparsa prematura di Virgilia nel suo esilio statunitense; Armando Borghi dirà di lei: aveva un’anima gentile, e dava colore e vita di poesia e di pietà ad ogni cosa che le vivesse accanto. Spiritualmente era una lottatrice indomabile. Le parole di Armando Borghi su Virgilia D’Andrea inoltre ci chiariscono aspetti della sua personalità di donna e attivista politica: La maestrina del popolo entrò in classe con i capelli a coda di cavallo, e il cuore amareggiato dalla ribellione e dal bisogno di giustizia. I suoi studenti vivevano drammaticamente in una situazione di disagio grave e la popolazione tutta lottava in una vita di sacrifici che un governo responsabile avrebbe dovuto considerare escludendo ragionevolmente l’Italia dal peso di una guerra. La stessa Virgilia soffriva viveva nell’indigenza: nei suoi scritti, in un capitolo di Torce nella Notte, parlerà del terremoto che colpì l’Abruzzo nel 1915 e rase al suolo Avezzano. La maestra abruzzese ricorderà bene questo evento, soprattutto per l’assoluto menefreghismo dei governanti e di come nessuno si dimenticherà di tanti malfamati e analfabeti quando saranno chiamati alla cruenta difesa della patria in pericolo. Quello di abbandonare intere popolazioni nel disagio e nel disastro è un costume che ha origini lontane nel nostro Paese, una linea rossa di sconvolgimenti che continuerà in tempi più recenti, dal Belice all’Irpinia, dal Molise all’Aquila, fino a pochi anni fa, alle cittadine emiliane e umbre: non l’ombra di un re, o di un duca, o di una principessa reale, passò, per qualche ora, fra quelle rovine, terrà a sottolineare Virgilia.

La prima segnalazione prefettizia delle attività politiche della D’Andrea rappresenta un documento testuale importante: si affermava che la donna è, dal 1917, a capo del movimento delle Donne socialiste abruzzesi che aderivano al congresso con saldissima immutabile fede. Fu proprio in questo contesto che Virgilia abbandonò l’insegnamento per dedicarsi completamente all’attivismo politico. Sentiva e credeva che lo Stato italiano avesse un difetto morale imperdonabile nella rappresentanza politica: governanti che mandavano al fronte giovani italiani poveri e malfamati. Le autorità di governo al posto di provvedere al risanamento economico di intere aree d’Italia, arretrata e senza infrastrutture, propendevano per le avventurose aggressioni belliche senza la possibilità di pianificare un futuro per i propri figli. Nasceva in Virgilia e in tanti cittadini, un profondo credo pacifista; generazioni di donne e di uomini che non la pensavano tutti allo stesso modo e aborrivano le guerre del mondo. Il pensiero di Virgilia si radicalizzava anche perché la sua contrarietà alla guerra si conciliava con una conseguente critica al sistema capitalistico, in piena espansione con il più aggressivo dei paradigmi dello sfruttamento indiscriminato dei ceti marginali. Nei primi vent’anni del Novecento gli anarchici furono una forza minoritaria ben strutturata e alternativa al movimento socialista: Borghi e Malatesta rappresentarono due alfieri teorici sul terreno della dialettica politica e molto attivi nel sociale nell’organizzazione dei lavoratori e del nascente movimento sindacale di ispirazione anarchica.

Virgilia D’Andrea entrò a far parte dell’Unione Sindacale e si immerse completamente nell’attività di sindacalista. Nel 1906 si costituì la CGdL in cui confluirono e si confederarono tutte le federazioni di mestiere. Inevitabilmente, sei anni dopo, l’USI si scisse dalla CGdL forte di un consenso di base molto consistente. Tre furono i principi costituenti il sindacato anarchico in cui si identificavano gran parte degli attivisti: antiparlamentarismo, apartitismo e pacifismo. Virgilia D’Andrea aveva un’idea di società che si distingueva sulla base di federazioni composte da libere associazioni di produttori e consumatori che avrebbero dovuto operare armoniosamente in un reciproco interesse: libertà e giustizia non significavano solo diritti civili, ma anche l’annullamento della sofferenza, dell’odio e della superstizione; in definitiva, per Virgilia si doveva raggiungere l’obiettivo della fine dell’oppressione dell’uomo sull’uomo attraverso l’abolizione del governo e della proprietà privata. Si susseguirono, in quegli anni, episodi violenti e drammatici. Il Paese era in una fase di profonda transizione e la vocazione antibellicista si rafforzava proprio nel movimento di base degli anarchici che si opponevano alla scelta ambigua del partito socialista sull’interventismo dell’Italia in guerra.

Tra i dirigenti della CGdL ci furono forse più simpatie per l’interventismo, ma la CGdL seguì le posizioni del PSI che scelse la formula “né aderire né sabotare”.  La tensione all’interno dell’USI era molto alta soprattutto perché si poneva la questione bellica come conflitto principale nella diatriba politica: una nuova scissione si profilava per mano di un leader molto seguito da una parte consistente degli anarchici, Alceste De Ambris, che trascinava con sé i due centri più numerosi in iscritti, Parma e Milano. Proprio Armando Borghi, in quel frangente, venne nominato segretario a Bologna nel convegno del settembre 1914 in uno schieramento pacifista e responsabile, con una visione di futuro profondamente diversa da alcuni gruppi e partiti della sinistra italiana.

In questo momento storico così interessante per le varie posizioni ideologiche in campo e sulla questione fondamentale dell’adesione alla guerra, Virgilia D’Andrea si dedicava con passione e abnegazione senza mai sottrarsi a una dura azione diretta. Virgilia credeva nell’azione di sensibilizzazione su più fronti all’interno dei sindacati e al fianco dei lavoratori. Professava l’abolizione delle proprietà privata, si schierava contro il modello della famiglia tradizionale e sosteneva la necessità di organizzare la vita sociale degli individui per opera di libere associazioni e federazioni di produttori e consumatori, guidati dalla scienza e liberi da ogni condizionamento e imposizioni che non derivino da esigenze naturali. Alla fine del conflitto, nel 1918, collaborò come redattrice alla realizzazione di Guerra di classe, organo dell’USI; scrisse per Umanità Nova e divenne responsabile dell’ufficio di propaganda al fianco di Malatesta e lo stesso Borghi. Nella primavera del 1920 Virgilia si trasferì nella uggiosa Milano, come i resoconti della polizia registravano: la donna viveva insieme a Borghi e Malatesta nella sede dell’USI in via Achille Mauri, numero 8. In questo periodo si concentravano attività importanti non solo nel coordinamento dei lavoratori nel sindacato, ma si intensificava una potente opera di proselitismo anarchico. Umanità Nova vide la luce nella primavera del 1920 fino a quando, gli squadristi fascisti assaltavano la sede nel marzo del 1921, determinando la sospensione della pubblicazione a Milano. Il giornale riprenderà il suo cammino a Roma qualche mese dopo dal 3 luglio 1921 al 2 dicembre del 1922. In estate vari movimenti di contestazione si organizzarono in occupazioni di fabbriche e, la D’Andrea con Malatesta, tennero discorsi e comizi fra schiere di movimentisti. Fra il 18 e il 21 ottobre le manifestazioni popolari in memoria delle vittime dei crimini dei fascisti e in solidarietà alla Rivoluzione russa degenerarono in scontri violenti con la polizia, che compì arresti indiscriminati soprattutto a carico dei massimi dirigenti dell’USI, forse favoriti da questo momento di instabilità per compiere una capillare repressione nei confronti di attivisti e insubordinati alle scelte del governo. Virgilia D’Andrea si distinse soprattutto per la redazione di articoli e interventi nelle manifestazioni pubbliche sempre più numerose, anche nelle sue prose raccolte nel volume Tormento. Nello stesso periodo scrisse un testo in occasione del rientro di Malatesta, Il ritorno dell’Esule. Sempre nel 1920 con un dattiloscritto, produsse La presa e la resa delle fabbriche: Virgilia spingeva i lavoratori alla rivendicazione dei propri interessi e sottolineava il diritto alla dignità contro ogni forma di alienazione. Con la lirica Resurrezione la scrittrice dedicava un testo ai ribelli della Rhur, utilizzando la metafora della ribellione di Spartaco in relazione alle vicissitudini dei diseredati contro il potere delle élites. La scrittrice e anarchica abruzzese si distinse per i suoi scritti anche sulla famosa testata dell’Adunata dei Refrattari, nata a New York nel 1922 e fondata dai seguaci di Luigi Galleani, con l’apporto di esponenti di spicco come Osvaldo Maraviglia, Raffaele Schiavina, Camillo Berneri, Gigi Damiani, Michele Schirru, Armando Borghi e tanti altri esponenti anche dall’America del sud. I testi di Virgilia D’Andrea colpivano per la loro puntualità nella narrazione degli avvenimenti storici, l’armonia delle analisi e una passione straripante: in tutte le epoche vi sono stati uomini capaci di lottare contro i vincoli oppressivi e i falsi moralismi; queste lotte hanno rappresentato sempre la via del progresso umano. L’azione, la lotta contro quanto e quanti comprimo e opprimono le libertà degli individui è il compito fondamentale e la funzione storica degli anarchici, con l’obiettivo di far sorgere una società libera, felice, senza privilegi. Con altrettanta chiarezza individuava nel fascismo la negazione delle più elementari libertà e la contraddizione più evidente allo sviluppo di ogni forma di progresso. Per l’anarchica la dittatura fascista fondava la sua forza su spinte propulsive regressive: una ideologia senza confronto e senza la creatività che lasciano germogliare in ogni società la possibilità reale di realizzare i propri sogni e utopie. Secondo l’anarchica, nella società, valori come la patria e la fede religiosa imprigionavano in lacciuoli strettissimi lo slancio verso il progresso, vincolando le coscienze degli uomini all’accettazione silente, alla disgregazione dei rapporti umani basati sulla paura e la vendetta, sull’esaltazione della violenza come soluzione delle controversie: vi era la convinzione che il Paese fosse asservito a una forza violenta e intollerante completamente pilotata da Mussolini che avrebbe condotto al disastro. In una lettera spedita dal suo soggiorno parigino, nel 1926, Virgilia scriveva a Borghi in un raro momento di sfiducia: Che tempi caro Armando! Intanto altri, chi ha fatto a tempo, (perché ora i confini son guardati dalle camice nere) hanno abbandonato l’Italia, fra cui Mario Mariani che pare abbia intenzione, dalla Svizzera, di passare in Francia. Egli è stato fortemente abbandonato […]. È stata innalzata la forca in varie città d’Italia. Tutta la stampa è stata soppressa ed i giornali che vengono da laggiù non dicono nulla che… mirabilia del governo fascista. La stampa era ormai asservita ai voleri del fascismo e imbavagliata con iniziative legislative, a cominciare dal dicembre del 1925. Già dall’anno successivo la Federazione della stampa italiana si fondeva col Sindacato nazionale fascista dei giornali italiani, epilogo di un percorso totalitario senza precedenti. Asfissiante su tutti i fronti il regime si accaniva anche su Malatesta che scriveva: Da qualche tempo hanno incominciato a fare metodicamente quello che prima facevano solo occasionalmente: domandano generalità e locamenti a chiunque viene a bussare alla nostra porta, e se non restano persuasi lo menano in questura. Sicché noi non possiamo visitare gli amici per non comprometterli, e dobbiamo d’altra parte far sapere alla gente di non venire da noi per non venire segnalati e non compromettersi. Censura sulla stampa e sulla posta facevano da cornice alle bastonature, alle purghe, agli arresti, agli omicidi mirati. Gli oppositori politici venivano messi in condizione di andarsene dal Paese o vivere nella massima indigenza non potendo mostrare tessere o adesioni al partito fascista nella ricerca del lavoro. Fra senso di rivincita e giustizia Virgilia scriveva ancora a Borghi: Ma io comincio, in mezzo a tanto buio, a veder chiaro. Dobbiamo essere al principio della fine. Impossibile che si possa eternare una mezzanotte così profonda! Poi si passa alla descrizione delle notizie: Nino Napolitano è stato arrestato ed espulso. Pra è in Belgio. Ma gli si sta preparando sempre il passa- porto perché possa salpare. Il nostro vecchio Mezzani è stato colpito da un leggero attacco di paralisi. Io non ho coraggio di andarlo a vedere e non so come fare! Come vedi… notizie sempre tristi”. Il momento di repressione massimo si definiva dopo l’attentato Zamboni a Benito Mussolini che, a questo punto, si sentì legittimato a reprimere ogni afflato di libertà scatenando una violenza senza eguali contro gli oppositori, con leggi repressive e violenze contro partiti e giornali. Nel novembre del 1926 il consiglio dei ministri decide di annullare tutti i passaporti, di impedire con pene severe e con l’obbligo dell’uso delle armi, da parte della milizia confinaria, il passaggio clandestino delle frontiere, di istituire il confino di polizia e il tribunale speciale. Il fenomeno dell’espatrio clandestino, illegale, è una dinamica che comincia proprio nel 1927, quando molti oppositori anche con le proprie famiglie lasciano il Paese, taluni senza mai più farvi ritorno. Molti fuoriusciti erano grandi personalità della cultura e del mondo politico, personalità di grande caratura che si ritrovavano a fare i conti con la dura realtà quotidiana nei Paesi ospitanti. Tuttavia, molti ebbero la forza di fondare, fra repubblicani, socialisti e componenti di partiti in esilio, la Concentrazione antifascista, nell’aprile del 1927. Come partiti aderirono il Partito socialista dei Lavoratori, il Partito Repubblicano, la Confederazione generale del Lavoro e la Lega Italiana dei Diritti dell’Uomo.

Virgilia veniva arrestata il 27 ottobre 1920 e accusata di cospirazione contro i poteri dello Stato e incitamento alla violenza; istigazione a delinquere, apologia di reato, associazione diretta all’apologia stessa e per complicità morale in atti terroristici commessi da terzi con esplosione di bombe. Alla fine di novembre D’Andrea veniva liberata: Borghi, Malatesta e Quaglino cominciavano lo sciopero della fame perché trattenuti in prigione senza accuse credibili se non quelle di essere oppositori al regime. Si moltiplicavano gli scioperi e le proteste in favore della loro liberazione, a Carrara, Piombino e in Liguria. La situazione ambientale si faceva sempre più drammaticamente assillante, con le persecuzioni, bastonature e incarcerazioni che erano all’ordine del giorno. Alla fine di dicembre Virgilia chiese di andare in Germania, per il Congresso Internazionale del Movimento Anarchico, con la richiesta di un passaporto alla questura di Milano. Fu a questo punto che avrà inizio il lungo e definitivo esilio della donna, conclusosi con la sua drammatica morte in America. Insieme a Borghi, sarà a Berlino nel 1923: i due riceveranno solo in questo momento la notizia che nei loro confronti era stato emesso un ordine di cattura. Per questo motivo la decisione di rimanere in Germania era dettata dalla possibilità di venire arrestati al rientro in patria, mentre Malatesta era stato fermato a Roma e sorvegliato a vista dalla polizia. Il soggiorno berlinese della coppia D’Andrea-Borghi fu fruttuoso e denso di incontri, in quegli anni infatti la Germania era diventata meta di perseguitati politici e uomini di grande cultura: Rudolf Rocker, Emma Goldman, Aleksandr Berkman, Alexander Schapiro fra i tanti espulsi ed esiliati. Nello stesso anno Virgilia fu oggetto di un’attenzione quasi ossessiva della polizia. Il questore di Milano comunicava all’ufficio dell’Aquila che su D’Andrea Virgilia, di Sulmona, anarchica, pende una denuncia per istigazione a delinquere a causa della sua ultima pubblicazione: Tormento. Nella prefazione al libro Errico Malatesta scriverà: Ella si serve della letteratura come d’un arma; e nel folto della battaglia, in mezzo alla folla ed in faccia al nemico o da una tetra cella di prigione, o da un rifugio amico che dalla prigione la sottrae, lancia i suoi versi come una sfida ai prepotenti, uno sprone agli ignavi, un incoraggiamento ai compagni di lotta. Il volume era per le autorità un vero manifesto e, soprattutto, la prova lampante per il questore della pericolosa attività della donna. Come da rapporto di polizia, la descrizione dell’opera di Virgilia: Il libro ha la prammatica copertina rossa. In alto, in nero, la figura d’una donna alata, con disperata espressione di invocare dall’alto, verso cui vola, la liberazione dalle catene, cui è legata nei polsi, e che sono trattenute in una seconda vignetta, in fondo alla pagina, da mani artigliose di evidente marca borghese, e nell’intermezzo è semplicemente stampato: Virgilia D’Andrea, Tormento. Nei contenuti invece, è ancora più pericolosa la protervia e l’odio che la D’Andrea nutrirebbe nei confronti dell’esercito e delle autorità legittime del Paese: Il libro è scritto in versi, ed i versi sono trasmodanti di felina bile contro l’Italia nei suoi poteri e nel suo assetto sociale: sono versi scritti pensatamente e con studio per istigare a delinquere, eccitare all’odio e vilipendere l’Esercito.

La crisi economica che attanagliava la Germania e la situazione di indigenza in cui versavano Virgilia e Armando aveva costretto ancora una volta, la coppia di perseguitati politici a lasciare il paese e dirigersi temporaneamente in Olanda nella primavera del 1925, accolti da un personaggio singolare già pastore protestante: il professor De Lyght passato nelle file dell’anarchismo. Dopo una serie di comizi e interventi anche all’Aja, Virgilia partiva per Parigi al fine di raggiungere Borghi dove si era trasferito già da qualche mese. La capitale transalpina era méta di una folta schiera di oppositori composta da figure molto importanti del socialismo, nonché intellettuali e dirigenti liberali, democratici, anarchici, comunisti e repubblicani vittime della repressione fascista, fra cui due personaggi di spicco come Filippo Turati e Claudio Treves. Nonostante le lamentele della donna documentate in alcune sue missive circa l’impossibilità di concentrarsi in un’azione seria e duratura per i continui spostamenti, Virgilia rimase incantata da quei luoghi così ricchi di storia, avendo anche la fortuna di alloggiare nel quartiere latino in via Rue de Malebranche, nei pressi del Pantheon: Festoso, chiaro, garrulo e giovanile il Boulevard di Saint Michel si snoda nel cuore del vecchio quartiere latino, là dove poeti, pittori, musicisti, studenti e bohèmiens si danno convegno nelle piccole stanze del sesto piano, negli storici caffè carichi di nomi, di memorie, di sogni […]. Le difficoltà fisiche sembravano indebolire la donna che riuscì tuttavia a ristabilire un certo equilibrio proprio in Francia, iscrivendosi alla Sorbona e rituffandosi nella sua lotta antifascista e nella propaganda anarchica. È il 1926 quando fonda e dirige la rivista Veglia al costo di 2,50 franchi al mese. I testi in italiano riguardavano argomenti di stretta attualità e di storia del movimento anarchico con un ampio spazio dedicato alle immagini. Anche se la rivista verrà pubblicata solo per un anno rimarrà una delle esperienze giornalistiche più importanti del mondo anarchico e libertario. Virgilia D’Andrea dà esempio della sua raffinatezza ed eleganza curando, in ogni singola edizione, una molteplicità di raffigurazioni. La scrittrice creava con il suo intuito un impatto visivo straordinario, già con la copertina, che raffigurava una donna stilizzata dai seni nudi e, le mani, carezzevoli sulle teste di uomini sofferenti: che sia il volto e l’anima e il saluto di tutti i nostri fratelli smarriti. Le firme erano le migliori nel mondo anarchico di quegli anni, fra cui Armando Borghi, Leda Rafanelli, Auro D’Arcola, Alexander Berkman, Camillo Berneri, Raffaele Schiavina e tanti altri. Le motivazioni che spinsero Virgilia a questa esperienza si basarono su un intento unificatore delle diverse anime degli anarchici e, per usare le sue stesse parole, volle intraprendere la ricerca di una salda unione spirituale necessaria per l’essenza vitale dell’anarchismo. Uno spazio in cui le persone non dovevano rinunciare o svalutare le proprie idee, origini e tendenze ma potevano arricchirsi nella molteplicità delle vedute: un esperimento che avrebbe senza dubbio consolidato il movimento.

L’attività quasi frenetica della D’Andrea continuò con la scrittura de: Nel covo dei profughi, un testo lirico raccolto nell’opera L’ora di Maramaldo e stampato dalla casa editrice La Fraternelle. I verbali e le circolari della questura danno oggi la possibilità di ricostruire con una certa precisione gli spostamenti di Virgilia. Nell’aprile del 1928 una circolare del Ministero dell’Interno sottolineava che la Regia Ambasciata d’Italia a Parigi comunica che non ci sono variazioni da segnalare sul conto dell’anarchica. Virgilia D’Andrea si trova ancora in quella città dove svolge “propaganda anarchica collaborando in giornali e riviste sovversive”. Le autorità di polizia temevano la capacità logistica e di diffusione del pensiero anarchico della donna. La sua tenacia nel perseguire le proprie idee, anche oltre la linea di demarcazione che contraddistingue una lotta non violenta dalla deriva di azioni terroristiche era proverbiale in ogni angolo del Paese. Infatti l’anarchica non fu mai coinvolta nella scelta della violenza e la sua stella polare fu sempre una guida pacifista. Nonostante questa evidenza la polizia segnalò spesso il rientro della donna in Italia. Inoltre si premurò di sottolineare che la donna potesse usufruire della protezione dal fratello gerarca fascista, Ugo D’Andrea, che scriveva sul quotidiano del regime il Giornale d’Italia. Infatti da un rapporto di polizia del 30 ottobre del 1928 si evince tutta la preoccupazione dei funzionari addetti alla sicurezza dello Stato sulle attività di Virgilia: Tra gli anarchici si parla con insistenza del ritorno in Italia della compagna di Borghi cioè Virgilia D’Andrea che è sorella al D’Andrea Ugo scrittore del «Giornale d’Italia. La D’Andrea è pericolosissima e quindi non credo sia in condizioni di fare ritrattazioni o atti di pentimento. Le congetture e le previsioni dei verbali delle forze di sicurezza si dimostreranno fallaci, anche perché Virgilia decise di trasferirsi negli USA e non rimanere in Italia (il 19 novembre del 1928), al fine di raggiungere come già era accaduto in Francia, Armando Borghi, giunto in America dal Canada dopo l’ascesa di Mussolini. Un anarchico del New Jersey si recò a Parigi per sposare Virgilia e con questo espediente permetterle di diventare cittadina americana favorendo il ricongiungimento con Borghi. L’avvertimento delle autorità italiane a quelle americane dell’arrivo di Virgilia fu immediato, sottolineando che la donna raggiungeva il compagno ma rimaneva una pericolosa propagandista e una organizzatrice di attività che si nascondeva sotto le spoglie di antifascista. In una lettera di Elena Melli Malatesta dell’agosto del 1932 si legge la preoccupazione dell’amica per la salute dell’anarchica, che cominciava a logorarla fino a condurla alla morte: Il clima della California e forse ancora di più il fatto che hai potuto spiegare un’attività conforme alle tue doti e alle tue aspirazioni, ti hanno certamente fatto molto bene. Infatti le attività di Virgilia allontanavano e alleviavano le sofferenze che si facevano sempre più copiose al punto che, lo stesso Borghi, preoccupato, dirà: Quel lavoro di propaganda le piaceva. Era amatissima da tutti i compagni. Ma le sue forze non l’aiutarono come avrebbe voluto. Errico Malatesta, ormai bloccato dalle autorità di polizia in Italia, le scriverà con qualche rimpianto righe di stima profonda: Son felice per te pensando che ora tu vivi una vita attiva che, son convinto, ti piace e ti soddisfa; e, a dirtelo francamente, ci penso con nostalgia, quasi con invidia io che non posso né muovermi, né parlare, né scrivere come vorrei. Armando Borghi continuava le sue attività politiche tenendo conferenze e riuscendo a coinvolgere un numero sempre più crescente di persone, fino a quando il console italiano a Boston gli fece ritirare il passaporto dalle autorità americane senza poter ottenere il rinnovo del medesimo. Per questo motivo egli fu arrestato e isolato a Ellis Island per la deportazione: i compagni per evitare questa possibilità concreta, raccolsero 2550 dollari al fine di pagare la cauzione per la libertà momentanea. Agli inizi di gennaio del 1930 Virgilia scrisse una lettera indirizzata con molta probabilità ad Armando Borghi in cui si lamentava ancora degli spostamenti continui, facendoci capire quanto fosse difficile la vita degli esuli politici: Ho lasciato con rammarico Los Angeles dove ho trovato molta fraterna bontà, ed anche molto riposo, perché in un mese di permanenza non ho fatto che due conferenze […]. Ad ogni modo pare che io non possa parlare prima del 20 c. m., a San Francisco, e ciò mi contraria un poco, perché avevo intenzione di fare un giro intenso e prendermi poi un paio di mesi di eremitaggio per i miei studi.

Nell’estate del 1932 venne a mancare Malatesta, prostrato per lo stato di emarginazione che le autorità fasciste gli avevano riservato con piantonamenti davanti casa, controllo delle lettere, arresti e bastonature degli amici che andavano a trovarlo. Virgilia era a Boston e, alla notizia della morte del leader non solo degli anarchici italiani, crollò in uno sconforto senza fine. Qualche giorno dopo la donna venne colpita da una grave emorragia interna: riuscì a salvarsi grazie all’intervento della figlia di Luigi Galleani, Ilya, dottoressa in un ospedale di Boston. I funerali di Malatesta avvennero in forma privata e il feretro fu seguito da agenti della sicurezza, senza il permesso di bandiere o drappi da parte della questura: l’itinerario fu deciso nei minimi dettagli dalla polizia e sepolto in una tomba nel “campo comune” (con la possibilità dunque di finire poi in una tomba individuale definitiva a distanza di qualche anno, se qualcuno se ne fosse occupato). La moglie di Malatesta scrisse una lettera a Virgilia raccontando che alla figlia Gemma fu impedito di portare un mazzo di fiori rossi (bada bene, non erano garofani) per il suo papà. Queste erano le condizioni di disumanità dettate dal regime fascista, lo stesso che avrebbe presto confezionato le leggi razziali e l’internamento degli ebrei, i rastrellamenti, la vergogna della persecuzione indiscriminata degli antifascisti e le uccisioni di uomini politici. Virgilia D’Andrea dopo la terribile operazione per l’emorragia interna che l’aveva colpita per un tumore all’intestino, ritornava a New York, instancabile, cercando di ultimare il suo libro Torce nella notte. Giusto il tempo di portare a compimento la sua opera e, nei primi mesi dell’anno successivo in una tragica primavera, la donna veniva colta da dolori lancinanti. Queste le parole commoventi nelle memorie del compagno di vita e di tante battaglie Armando Borghi: dopo molti alti e bassi, che la rendevano sempre più debole […] ricadde di nuovo in tormenti atroci. […]. Passava notti terribili. Vi erano momenti in cui temevo che perdesse la ragione, o che io stesso non avessi il coraggio di resistere a vederla tanto soffrire. L’ultima visita dal medico che la seguiva fu davvero una notizia senza appello: questi, visitatala, mi terrorizzò con un cenno furtivo del capo che non aveva bisogno di altra spiegazione. Il tempo di curare le ultime pagine del libro e finire nuovamente in ospedale per l’aggravarsi delle sue condizioni. Era il primo maggio del 1933. Borghi e un’amica cara di Virgilia accompagnarono la donna ormai stremata dalle sofferenze, ma forte e dignitosa nella narrazione di Borghi anche nei suoi ultimi istanti di vita: Non si perdette d’animo un solo momento. Rifiutò (garbatamente) l’offerta, troppe volte ripetuta dall’infermiera e dal medico, dell’assistenza del prete. Fu a quel punto che la preoccupazione delle autorità fasciste nei confronti dell’anarchica andò scemando, tanto che il console italiano a New York scrisse al Ministro degli esteri italiano il 4 maggio confermando di avere notizie specifiche sullo stato di salute di Virgilia: La nota Virgilia D’Andrea è stata nuovamente ricoverata all’ospedale e dovrà subire un’operazione per un’ulcera cancerosa all’intestino retto. Da quanto mi viene segnalato il medico curante avrebbe dichiarato che non v’è speranza di guarigione. Insieme all’amato compagno della sua brevissima ma intensa esistenza, Virgilia D’Andrea si spense nella serenità di aver compiuto la sua opera di lotta fino all’ultimo respiro stringendo forte a sé Torce nella notte. Fra terribili sofferenze fisiche ma con l’amore di Armando Borghi sempre accanto, morì. Il 20 giugno dello stesso anno la polizia escluse dal casellario giudiziario la pericolosa propagandista anarchica: L’On. Ministro dell’Interno con nota n. 36764/3033 del 7 andante informa che è deceduta in Fitht Avenue Hospital New York per ulcera cancrenosa. Viene perciò in data odierna radiata dallo schedario, dall’elenco degli attentatori e richiesta la revoca dell’iscrizione alla Rubrica di Frontiera.

 L’opera di Virgilia D’Andrea è caduta, inspiegabilmente, in un oblio ingiustificato. I suoi scritti denotano una lucida analisi sul fascismo e sulle dinamiche che avrebbero condotto alla deriva autoritaria intere regioni del mondo. La sua chiarezza d’analisi delle vicende storiche è disarmante nelle narrazioni e rappresenta, senza ombra di dubbio, un valido strumento di comprensione e di studio di quegli anni terribili. La pensatrice ebbe sempre chiare le ragioni e le cause che fornirono linfa vitale allo sviluppo del fascismo: A chi oggi vi ripete che il fascismo ha salvato l’Italia dalla rivoluzione, rispondete pure, che tale affermazione non è che una delle tante spudorate menzogne, che […] i ciarlatani del fascismo, vanno propagandando ovunque. La propaganda fascista ha celebrato e continua a celebrare i propri meriti, descrivendo l’efficacia del proprio ruolo durante le agitazioni sociali e politiche del 1919- 20. La scrittrice e movimentista anarchica smascherava la natura ipocrita del fascismo che si autoproclamava rivoluzionario ma era una apparenza, mentre serbava in sé caratteri reazionari, controriformisti ed egemonici nei confronti degli altri partiti.  La situazione economica e politica nell’Italia di quegli anni prestava il fianco alla retorica tipica delle destre, cioè quella che sosteneva di risolvere i problemi sociali con il ristabilimento dell’ordine pubblico e l’abolizione del dissenso che “sabotava” la crescita della Patria dagli antichi splendori. Questo teorema contraddiceva chiaramente la presunta e dolosa retorica della natura rivoluzionaria del movimento fascista che sosteneva di appoggiare la classe operaia, addirittura propugnando anche una campagna per l’amnistia dei prigionieri politici. Virgilia D’Andrea chiariva la funzione che il fascismo svolgeva nella società italiana perché aveva individuato l’idea originaria di questo movimento: in nome dell’individualità, dell’uomo forte e solo al comando, con una svolta populista priva di rivendicazione sociale egualitaria, con la falsa narrazione di essere una formazione politica antistatalista e contro la casta politica al fine di accattivarsi masse di derelitti, non perdeva occasione di sottrarre ai partiti di sinistra motivazioni e argomenti alla loro forza propulsiva. La descrizione della figura di Mussolini da parte di Virgilia è emblematica: una brutta copia di Marat, rissoso e chiassoso, che si affretta a ritirare dalle biblioteche i documenti del suo compromettente passato di guascone demagogo. Il vile Mussolini faceva bruciare le edicole, la tortura era una vera e propria consuetudine durante il suo criminoso regime: dallo strappamento delle unghie e dei denti, al taglio della barba, all’olio di ricino, alle bastonature fino alla lesione degli organi interni e l’assassinio. La devastazione e il saccheggio delle abitazioni private venivano compiute da delinquenti comuni fra le fila dei fascisti che ben mimetizzavano, con una facciata ideologica, la loro vera natura: si incendiavano sindacati, cooperative e camere del lavoro come accadeva sempre più frequentemente soprattutto nel nord Italia. Da un manoscritto di Virgilia D’Andrea conservato presso l’Archivio Berneri di Reggio Emilia, con la sua prosa toccante, la scrittrice metteva a nudo limpidamente la situazione italiana all’inizio dell’instaurazione del fascismo: La massa anonima cade mietuta da una falce smisurata e che dirompe con violenza nelle città e nei villaggi. La ferocia dei fascisti trova sbocco in una condotta crudele, disumana, spietata e gode dell’impunità giudiziaria e dell’immunità morale. Dov’è finita la civiltà? Dov’è finita questa eterna e gloriosa aspirazione umana, per cui eroi, martiri, poeti ed artisti, in ogni tempo si sono immolati? La risposta è una: È fuggita atterrita, davanti a quelle scene selvagge; e davanti a quei vandali, accecati di distruzione e di sangue! Notevole per intensità e chiarezza espositiva il contenuto del testo dal titolo Perché cercate il vivente fra i morti, dedicato alla memoria di Giacomo Matteotti, in cui ben si delineava il temperamento della scrittrice nei confronti del fascismo e di ogni forma di potere autoritario: Forza! Reagite! Non cercate conforto su una tomba! Non cercate un vivo in un mondo di morti! La sua anima comunica vitalità più di ogni vivente privo di ideali e vuoto di spiritualità. Una luce tutta particolare divinizza il volto degli eroi e li rende eterni: è la fiamma di colui che sa morire per aprire gli occhi al mondo. Il sacrificio, dunque, non è stato vano. Il suo pensiero scuote e scalda una contrada di morti, il suo corpo flagellato si è dissolto in fiammanti cascate di luce e le sue parole sono come il canto immortale del cigno. Virgilia sosteneva con favore la forza del gesto antagonista e dirompente di donne e uomini dotati di spirito etico superiore. Un gesto che si definiva eroico perché era estraneo all’egoismo e alla naturale propensione degli uomini a non rischiare su di sé e sulle persone care la responsabilità delle proprie idee e azioni. Per questo motivo il sacrificio di Giacomo Matteotti rientrava nella categoria del martirio politico che non può essere derubricato a racconto storico e commemorativo, bensì doveva rappresentare l’esempio più alto del senso civico e morale della lotta per il raggiungimento delle libertà e dei diritti umani per gli uomini. Le stesse rivendicazioni che furono rappresentate negli Stati Uniti quando furono sacrificate le vite di Sacco e Vanzetti. L’urlo della donna si scagliava furente nei confronti degli assassini e degli stolti: Aggrappatevi alle corde del vostro lungo e umiliante dolore affinché contro i mostri, gli empi e i tiranni tutte le sue campane suonino a stormo. Combattere per la giustizia, difendere i propri diritti, svegliarsi dal secolare torpore, seguire le orme dei martiri e non darsi mai per vinti. Dello stesso tenore contenutistico, con una prosa lirica veemente e appassionata, si caratterizza il testo L’ora di Maramaldo. Nel parlare del morbo fascista, in una definizione del tutto consona per l’affermazione quasi fulminea del movimento di Mussolini in Italia, Virgilia chiariva all’interno dell’introduzione quanto fosse pericoloso quel terribile periodo di terrore e di orrore che è ispirato al muto e puro eroismo di quelli che rinunciarono stoicamente alla propria libertà personale per lottare in nome della libertà di tutte le genti. L’antifascista D’Andrea si appellò dunque al fascino della verità, quella pura condizione intellettuale ed etica che coglie soltanto donne e uomini pii, dotati di entusiasmo per la libertà. Il testo ci conduce ancor oggi in un percorso realistico che allora interpretava la brutalità dei valori fascisti animati da sentimenti regressivi sul piano dei diritti umani, attuati con modalità volgari, perché percepiti e intrisi nelle pulsazioni più istintive degli uomini in condizioni di difficoltà sociale. Non a caso l’aggettivo maramaldo venne circoscritto proprio alla personalità del dittatore Mussolini che aveva saputo cogliere, con il dolo e l’imbroglio, la parte più fragile di un popolo ferito e frustrato da sinergie dettate dalla paura. Da questo messaggio anche oggi se ne trae insegnamento, soprattutto nella considerazione che instillando paura e sete di rivincita verso tutto ciò che viene reputato diverso ed esteriore, si accresce strumentalmente la divisione e la reazione violenta delle persone. D’Andrea con la sua prosa potente e raschiante, definiva Mussolini come truce e Iscariota, colui il quale siede su un nuovo trono eretto sul muto accoramento di una massa incatenata, sui cadaveri sgozzati dei lavoratori e sulle sofferenze di prigionieri e di esiliati. Costui parla di “grande Italia”, decora col fascio littorio quelli che servizievoli abbassano la testa al gesto della sua mano e brucia col piombo la gola di chi si ribella. Le descrizioni di questa meravigliosa scrittrice si leggono fra le righe di una prosa originale e sagace, quella che ci richiama all’attenzione e al riconoscimento di una giustizia dal viso laido che si manifesta in tutta la sua più cinica e macabra espressione e di un vilissimo Maramaldo che seduce i potenti e allunga i suoi tentacoli nelle aule dei tribunali. A più riprese Virgilia richiama all’attenzione sulla questione dei diritti umani, violati nelle carceri fasciste con la sistematica tortura e lo stupro, citando come esempio lampante la storia del giovane anarchico Antonio D’Alba che aveva sparato nel 1912 Vittorio Emanuele III.  Egli fu arrestato, torturato e infine scarcerato, ma ormai in balia di uno stato di demenza per le violenze subite. Virgilia insiste sull’ineffabile maramaldo: Oggi l’ombra del vilissimo Maramaldo si è proiettata in tutta la sua bieca estensione nelle aule della legge dove delle creature agili e improtette, […], sono portate – cenci insanguinati – da- vanti a dei giudici che le hanno già condannate per il fatto stesso che un’ora prima essi hanno assolto imputati di lusso, autori confessi di uccisioni e di distruzioni compiute in nome dell’ordine e del privilegio. Non da meno, nel capitolo conclusivo de L’ora di Maramaldo, Virgilia incitava alla ribellione contro la deriva autoritaria. I racconti che riguardavano le sofferenze degli oppositori al fascismo sono per Virgilia una lezione che consolida negli uomini il dovere della reazione contro l’oppressione: al muto e puro eroismo di coloro che seppero stoicamente rinunciare alla loro libertà personale per lottare in nome della libertà di tutte le genti, di coloro che seppero sublimemente morire per difendere il loro ideale di emancipazione sociale. Inoltre l’anarchica ben definiva la giustizia dei tribunali, in tempi di fascismo, come propagatori di una pura menzogna che riveste la sua dilagante illegalità con la maschera di autorevolezza.

Quando Armando Borghi portò la prima copia di Torce nella notte in ospedale, Virgilia era morente nel suo letto: L’accarezzò, lo baciò. Morì nella notte. Era l’undici maggio del 1933. La prosa di Virgilia D’Andrea è ricercata e potente ma sempre comprensibile, chiara, senza orpelli e intrisa di entusiasmante passione: La vita, questo sogno malioso che ci dà il più amaro dei risvegli; la vita, questa canzone suadente che ci lascia nel buio più profondo; la vita, questa mano infedele che ci abbandona soli, a brancolare da ciechi fra le onde minacciose; la vita, questa impenetrabile sfinge che muta in un attimo il suo volto, e resta chiusa e impassibile a guardare trasognata l’angoscia insanabile del nostro tormento; la vita, questa fatua e vaporosa chimera che ci ferisce col suo atroce sarcasmo quando le nostre spalle si piegano e la nostra testa si imbianca. Virgilia non aderiva a uno stile particolare né a una corrente letteraria specifica, ma era una scrittrice coraggiosa, una poetessa civile, moderna e impegnata. Il suo pensiero era dunque costellato di un coraggioso sentimento di eguaglianza e di rivolta contro gli ultimi, i diseredati, coloro i quali non hanno mai voce in capitolo. La sua vena artistica non solo nello scrivere ma anche nella scelta delle immagini, come nel caso della rivista Veglia, sono la prova della raffinata tendenza di questa donna a rendere il proprio contributo politico in forme diverse. E su questa visione di arte e politica poco si è detto, così cara a quelle avanguardie sempre pronte a farsi trovare puntualmente e legittimamente in lotta sul piano incommensurabile della rivolta. Non delude mai il suo stile personalissimo, esteticamente ineccepibile, mai scadente nelle vanità di chi domina le parole. Luigi Fabbri, su «Studi Sociali», sottolineava: […] La sua oratoria, la sua prosa e la sua poesia ricordavano in qualche modo quelle del nostro inobliabile Pietro Gori, per l’effetto che producevano, per quel loro parlare soprattutto ai cuori ed all’immaginazione, per il calore esuberante che ne sprigionava, per la straordinaria affettuosità di cui erano perfuse. Del resto Ella era originalissima, con un contenuto ed una forma tutti suoi personali. Il suo stile elegante e fiorito, e sempre animato da una profonda commozione interiore, era altresì espressione di un pensiero sempre presente, chiaro e preciso. Non aderendo ad alcuna tendenza determinata, tutte le abbracciava in un eclettismo intelligente, che le faceva evitare gli errori di tutte e utilizzare i lati migliori di ciascuna.

La visione del mondo da parte di Virgilia coincideva con un obbligo morale esaltante, legittimo perché riguardava la libertà, mai contornato da espressioni letterarie retoriche e fini a se stesse. Vibravano certamente le sue parole in fiamme nell’esaltazione dei valori oggi fondanti la nostra Repubblica. Proprio quelli che, finalmente, animarono la lotta partigiana e realizzarono la liberazione dal nazi-fascismo. La maestra abruzzese aveva maturato esperienze incredibili in un lasso di tempo breve, una fulgida vita fatta di trasferimenti all’estero seppur tormentata da una malattia che non le darà scampo. La denuncia del fascismo aveva bisogno di strumenti reali e di azione diretta, della quale Virgilia sarà interprete indiscutibile.

La sua denuncia implacabile in Torce della notte rappresenta oggi una chiave di lettura e una proposta di lotta che ci avverte dell’oscuro labirinto in cui il fascismo aveva gettato intere generazioni di italiani: finalmente la luce delle torce nel tortuoso cammino della storia, dove Virgilia non legge destini, ma vigorose rivolte contro l’oppressore.