di Mauro Baldrati

Io Gianrico Carofiglio non lo potevo sopportare.

Ma come si fa? Qualunque libro pubblicasse immediatamente balzava in testa alle classifiche di vendita. Il suo primo romanzo, Testimone inconsapevole (Sellerio 2002), ha ricevuto il Premio Marisa Rusconi, il Rhegium Iulii, il Città di Cuneo, il Città di Chiavari.

Cristo, pensavo, possibile che sia così bravo? Per dire, il secondo, Ad occhi chiusi (Sellerio 2003), ha vinto il Lido di Camaiore, il Biblioteche di Roma, e in Germania è stato definito il miglior noir dell’anno.

Quando noi, scrittori della Working Class Antagonista (va specificato, perché purtroppo esiste anche una Working Class Leghista), spesso autori di thriller, o noir, e quindi appartenenti alla casta minore dei “gialli”, partecipiamo a un premio letterario e spunta il nome di Carofiglio, pensiamo: Oh. Togliamoci dalla testa ogni velleità di vincere. Possiamo puntare dal secondo posto in giù. E in effetti vince lui. E’ fuor di dubbio. Per completare la lista dei suoi premi dovremmo aggiungere un’apposita appendice. In totale ha venduto cinque milioni di copie e i suoi libri sono stati tradotti in 28 lingue.

Per cui non lo sopportavo.
E come avrei potuto? Noi della WCA dobbiamo impegnarci a fondo per pubblicare, collezionando raffiche di rifiuti o di silenzi. Mentre lui… Sembrava che qualcosa si fosse attivato, laggiù a Proxima Centauri, incroci di stelle, radiazioni speciali, e al centro ci fosse Gianrico Carofiglio, un predestinato, un depositario dell’energia galattica, come Silver Surfer.

Poi, è accaduto qualcosa.

L’ho visto parlare in uno di quei programmi di gossip politico detti “talk show”, come senatore del PD. Capirai. Del PD. Sono praticamente intercambiabili. Hanno un software interno. Come tutti i telepolitici del resto. D’altra parte dove poteva stare uno come lui, un personaggio importante della casta elevata? In Potere al Popolo? Eppure parlava un po’ diverso rispetto allo standard degli androidi televisivi: meno luoghi comuni. Meno slogan. Non ha mai pronunciato le parole “gli italiani” né “gli interessi del paese” né “le poltrone”. Non è poco perdio.

Vabbè, pensavo, è pur sempre uno scrittore, e chi si occupa di letteratura, ha detto una volta Umberto Eco, ha una marcia in più in tutte le discipline. Quindi anche nella politica. La scrittura, quella vera, è anche politica. Non può non esserlo. Parla della realtà, e la realtà è intrisa di potere, di conflitto, di speranza e di rabbia (per cui quegli scrittori che vivono rinchiusi in una certosa e non vedono, non sentono e non parlano di nulla che non siano i loro libri, le recensioni dei loro libri, o di altri scrittori, mi fanno un po’ pena). E Carofiglio è uno scrittore, pensavo. Quindi manderà anche qualche segno dell’arte, quando ci riesce (cfr Marcel Proust e i segni, di Gilles Deleuze, del 1964). Segni che viaggiano nella sottolingua della retorica politica, e qualche effetto devono pur produrlo.

Però non bastava a farmi superare il pregiudizio.
Ma qualcosa è accaduto.

Ho letto un’intervista. Il giornalista ci informava che Carofiglio è cintura nera di Karate, 6° Dan. Beh, è normale. Uno come lui si dà al karate, e dove può arrivare? Al massimo ovviamente. Anzi, di più. Il 6° Dan. Un Dan speciale. Un maestro.

Questa notizia non mi ha lasciato indifferente. Non si diventa sesto Dan se non ami l’arte marziale, se non la capisci. E lui nell’intervista diceva: “In un duello televisivo a volte è meglio non dare forza all’avversario, ma usare la sua energia per metterlo al tappeto. E solo se non sei emotivamente coinvolto puoi riuscirci. Se contesti nella frase sei caduto nella trappola.”

Usare la sua energia per metterlo al tappeto.

Quest’uomo conosce la disciplina, l’armonia, l’astuzia dell’arte marziale.
Quest’uomo conosce il Sun Tzu.
Quest’uomo è un sensei.

Così ho iniziato a guardarlo e ad ascoltarlo sotto una luce diversa. Ho sempre amato le arti marziali, fino a diventare uno spettatore di film di genere, quelli con le lotte acrobatiche e irreali, ma così fumettistiche, così gioiose. E i classici di Bruce Lee, ovviamente. Negli anni Settanta seguivo la serie Kung Fu con David Carradine, e ho amato Riscatto di Jay McIrney. Ho addirittura curato un kung fu thriller tratto da una storia vera che uscirà in marzo/aprile per l’editore Fanucci (il titolo non è ancora definitivo).

Sì, era un altro Carofiglio quello che vedevo e ascoltavo.
E ora volevo anche leggerlo.

Così, su consiglio di un’amica che lo conosce, ho comprato il suo primo romanzo, Testimone inconsapevole.

E’ un interessante ibrido tra il racconto delle avventure, dei vagabondaggi, delle ossessioni di un avvocato disadattato, nevrotico, depresso, insonne cronico, e un processo per omicidio. Questo libro gli valse l’appellativo di “legal thriller all’italiana”. Definizione abbastanza centrata. Non si trovano, infatti, quelle sbrigative “Obiezione vostro onore! Accolta!” che contraddistinguono i processi all’americana. Non taglia con l’accetta in nome di una facile spettacolarizzazione dell’evento giudiziario.

Al contrario, rappresenta il processo italiano con le sue procedure, i suoi cavilli, e la sua lingua. Riporta i verbali degli interrogatori, i resoconti delle indagini, ne evidenzia i punti critici, le soluzioni frettolose che tendono alla ricerca non del colpevole, ma di un colpevole. C’è bisogno di una figura comoda e rassicurante che permetta di esorcizzare l’orrore per un crimine efferato. E’ scomparso un bambino, poi trovato morto, e viene incriminato un venditore ambulante senegalese, Abdou, sulla base di prove indiziarie. E’ il colpevole ideale. Pare che qualcuno lo abbia visto muoversi sul luogo della scomparsa. Lo hanno visto parlare col bambino, gli hanno trovato sue foto nella stanza. Nessuna prova vera, nessuna certezza, ma l’accusa procede lancia in resta, perché l’ambulante negro deve essere l’autore dell’omicidio. Non può essere che lui.

L’avvocato Guido Guerrieri (che sarà il protagonista di altri romanzi di Carofiglio), che si trovo sull’orlo del fallimento totale, esistenziale ed economico, accetta di farsi carico della difesa del senegalese.

Sembra una causa persa in partenza. La condanna, in pratica è già scritta. L’unica soluzione possibile sembra essere quella di accettare il rito abbreviato, ovvero riconoscere la colpevolezza dell’imputato in cambio di uno sconto di pena. Vent’anni invece dell’ergastolo.

Ma Abdou continua a dichiarare la propria innocenza. E Guido gli crede. Il fatto ha troppi luoghi oscuri. Troppi buchi investigativi. Gli crede davvero, indipendentemente dal fatto che è suo dovere credergli in quanto avvocato difensore.

Così, follemente, forse idealisticamente, l’avvocato e l’imputato decidono di sfidare il potere di una sentenza già scritta e chiedono il processo ordinario.

Perché lo fa? Perché una scelta che qualsiasi legale considererebbe irresponsabile? “Perché lo fai?” gli chiede Abdou. Non lo so, risponde l’avvocato.

In realtà lo sa.
Noi lo sappiamo.

Lo fa perché è alla ricerca di un doppio riscatto: il suo, della sua vita fallita, e della sua fiducia, nonostante tutto, nella giustizia. L’arringa finale, scritta con un linguaggio giudiziario preciso, netto, ma non esente da un pathos letterario che punta in alto, è un manifesto della giustizia giusta, che pretende risposte certe, cerca prove, e non si fa sviare da fattori estranei alla dinamica del binomio colpevolezza/condanna, come la ricerca di un colpevole a tutti i costi. Una giustizia indipendente, sganciata da condizionamenti e da intrusioni del potere.

Un obiettivo forse impossibile da raggiungere, vista la situazione della giustizia in Italia, dove i condizionamenti del potere sono se non la regola, molto frequenti. Inoltre è un concetto non esente da ambiguità o addirittura da pericoli. La giustizia indipendente deve applicare a tutti i costi la legge, ma quando la legge è ingiusta, quando è oppressiva, è nostro dovere opporci e resistere. E allora come deve comportarsi la giustizia indipendente?

Ma l’autore, per bocca dell’avvocato Guido Guerrieri ce la fa. Detta la legge, come le tavole incise nella pietra. Perché questa è la sua missione: scoprire la verità, e non la verosimiglianza.

E chi, se non un sensei, poteva affrontare una simile sfida?