di Franco Pezzini

tuttopoe_locandina[Si propone uno scorcio di Tutto Poe, serie di incontri in enoteca in corso a Torino. Per la traduzione, cfr. l’edizione Edgar Allan Poe, Tutti i racconti e le poesie, Sansoni, Firenze 1974.]

Omelette à la diable e maiale alla Teraphim

1832: in gennaio in Italia sprofonda l’Isola Ferdinandea, apparsa pochi mesi prima nel Canale di Sicilia; in febbraio, a Londra almeno tremila morti per un’epidemia di colera che più avanti dilagherà in Francia e Nord America; a maggio il Trattato di Londra crea un regno indipendente in Grecia, con la fine della locale guerra d’Indipendenza e il consolidarsi mesi dopo del quadro col Trattato di Costantinopoli: il sogno di Byron è avverato. In giugno in Francia scoppia una rivolta antimonarchica, e in Inghilterra diviene legge il cosiddetto Reform Act 1832, “La Grande Riforma” che corregge il sistema elettorale inglese e gallese; in agosto papa Gregorio XVI pubblica la lettera enciclica “Mirari Vos”, che condanna le tendenze innovatrici all’interno della Chiesa; in dicembre l’Olanda perde Anversa restituita al Belgio con l’appoggio francese. In quell’anno appaiono inoltre “Le mie prigioni” di Silvio Pellico, e – postumo – il trattato di Carl von Clausewitz “Vom Kriege” (“Sulla guerra”); nascono Gustave Doré, Édouard Manet, Lewis Carroll, il futuro imperatore Massimiliano del Messico, Louisa May Alcott e Gustave Eiffel; muoiono Jean-François Champollion, Johann Wolfgang von Goethe, Georges Cuvier, il matematico Évariste Galois, Jeremy Bentham, il giovane Napoleone II e Sir Walter Scott. Negli Stati Uniti in marzo il fondatore della chiesa mormone, Joseph Smith, viene aggredito, bastonato e cosparso di pece e piume: il figlio adottivo morirà di polmonite per il freddo di quella notte. In aprile nel Midwest inizia la Guerra di Falco Nero, dal nome del condottiero delle tribù Sauk, Meskwaki e Kickapoo, ultima grande rivolta pellerossa a est del Mississippi tra Illinois, Michigan e Wisconsin, cui partecipa giovanissimo Abraham Lincoln e che si conclude in agosto con il Bad Axe Massacre e la resa di Black Hawk. Tra novembre e dicembre viene rieletto presidente il democratico Andrew Jackson. E in quell’anno a New York, per la prima volta nel paese, viene organizzata una linea di tram a cavalli.
Questa è la situazione in quel 1832 in cui Poe pubblica per la prima volta un testo in prosa, Metzengerstein, a metà gennaio. Ma in realtà al concorso bandito l’anno prima dal ‘Saturday Courier’ di Philadelphia l’ha spedito con altre quattro novelle, tutte poi edite anonime sulla rivista nel corso dell’anno, e dai caratteri chiaramente umoristici. Un aspetto interessante, si noti, anche nella valutazione del Metzengerstein prima maniera, molto più sarcastico e paradossale di quello poi modificato a più riprese e che oggi leggiamo quale testo gotico “serio”.
La prima delle quattro ad apparire è The Duc de L’Omelette (Il duca de l’Omelette – anche di questo, come per il Metzengerstein, non disponiamo del manoscritto), composto probabilmente poco prima dell’invio al concorso. E che inaugura nella produzione di Poe un intero filone grottesco sul tema del diavolo e in particolare degli “accordi” con lui – in termini da un lato di sfida e dall’altro di mercimonio dell’anima. Un tema al tempo tornato di moda, sia in termini generali attraverso la letteratura gotica e romantica che recupera spunti folklorici, sia più specificamente in rapporto a una suggestione faustiana (Goethe, come detto, muore in quell’anno); e del resto anche il teatro coevo pullula di demoni più o meno presentabili.
Il racconto, che gioca ironicamente sui lavori e forse sul personaggio di Nathaniel Parker Willis (1806-1867), scrittore apprezzato e simpatico dandy i cui scritti anche Poe ama, appare con il titolo originale The Duke de L’Omelette sul ‘Saturday Courier’ il 3 marzo, e conoscerà una quantità di piccole variazioni nella sue numerose riproposte (il nome dell’autore, “Edgar A. Poe”, apparirà solo con la seconda edizione – ‘Southern Literary Messenger’, febbraio 1836 – ma per esempio nella riproposta sul ‘Broadway Journal’, 11 ottobre 1850, figurerà sotto lo pseudonimo “Littleton Barry”).
La trama è, come vedremo, molto semplice: l’assoluta godibilità è data piuttosto dallo stile che unisce in modo felice visionarietà e ironia, e dalla presenza del simpatico personaggio che offre nome al titolo, capace con guasconeria e attraverso i suoi stessi vizi – il biasimatissimo gioco d’azzardo, via emblematica per l’inferno – di tener testa al diavolo.
Dopo l’incipit “E giunse subito in un clima più fresco” (da William Cowper, 1731-1768, The Task, I, 337), ironico in una storia che metterà in scena i fuochi infernali, il testo parte ancora una volta con toni teatrali – anzi divertitamente istrionici:

Il Keats soccombette per una critica. Chi fu colui che morì dell’Andromaca? Anime ignobili! De l’Omelette perì d’un ortolano. L’histoire en est brève. Assistimi, spirito di Apicio!

A ricordare morti giudicate bizzarre: morti causate da una critica, come si disse di Keats, in realtà vittima della tubercolosi, ma secondo voci ricorrenti (echeggiate per esempio da Shelley nel suo Adonais) ucciso dal crepacuore per l’aggressivo attacco di John Wilson Croker sul ‘Quarterly Review’ aprile 1818; o morti causate da un’opera teatrale, come nel caso del corpulento attore e commediografo francese Zacharie Jacob noto come Montfleury, spentosi nel 1667 subito dopo la rappresentazione dell’Andromaque di Racine per lo sforzo di voce nel ruolo di Oreste, peggiorato dall’eccessiva pressione di un cinto metallico di scena. Per il riferimento Poe attinge all’opera di Isaac D’Israeli Curiosities of Literature, nell’articolo sui “Tragic Actors”.
Ma tutto questo non è nulla, gigioneggia Poe, e chiama in aiuto lo “spirito di Apicio”, cioè il famoso gastronomo latino: perché la morte del suo eroe De l’Omelette a causa “d’un ortolano” – da intendersi come specie di uccelletto, Emberiza hortulana, noto nella cucina francese come il più delicato di sapore – e il nome stesso del protagonista richiamano ai fornelli. Per inciso, proprio il tema della celebrata delicatezza dell’ortolano sembra ispirata a Poe da un passo del romanzo di Benjamin Disraeli, The Young Duke, 1831, e soprattutto di una recensione ironica del medesimo edita sul ‘Westminster Review’ nell’ottobre 1831.
Il fatto è che un uccelletto peruviano già proprietà di una principessa è stato portato con gran pompa a casa del duca, nel suo alloggio in una delle strade di moda della città. De l’Omelette sta cenando da solo, nel suo gabinetto particolare, languidamente reclino su un’ottomana preziosa, acquistata superando persino l’offerta del re, e ha appena inghiottito un’oliva. Badiamo a questa immagine, una caricatura delle pose decadenti e dei consigli estetizzanti (immaginarsi su una dormeuse, con in mano una bottiglia di Rudesheimer e un patto di olive…) ammanniti con compiacenza ai lettori da una firma nota, cioè quel giovane giornalista N. P. Willis che aveva deriso la lirica Fairy-Land di Poe, ma che col tempo ne diverrà amico. Comunque il Nostro è lì, ancora con l’oliva nella strozza, quando si spalanca la porta e… orrore: l’uccelletto (che ci saremmo attesi cantare in una gabbia d’oro come quella che l’aveva trasportato in Francia) è stato servito in tavola in modo non acconcio, “sans papier”, cioè senza la carta attorno alle zampette per poterlo decorosamente sollevare dal piatto. Gridando “Horreur!”, il raffinatissimo viveur muore, soffocato dall’oliva, “in un parossismo di disgusto”.
E lo ritroviamo, tre giorni dopo, a ridacchiare un po’ a disagio davanti al diavolo – che gli fa eco con una risatina (i tre giorni sembrano postulare, per analogia a quelli della risurrezione, l’arrivo alla destinazione definitiva). Non dirà sul serio, obietta il gentiluomo: quanto a peccare ha peccato, ma non vorrà dar seguito a tali “barbare minacce”… “– Non, che cosa? – disse Sua Maestà; – suvvia, signore, spogliatevi!” (i dannati sono sempre un po’ nudi). Il duca si rifiuta, domandandogli chi sia lui per dare ordini in tal modo al Duca de l’Omelette, Principe di Fois-Gras, tra l’altro maggiorenne, autore della “Mazurchiade” (dove sembra evocare il dolce polacco mazurek, plurale mazurki, piuttosto che la danza sempre polacca mazurka) e membro dell’Accademia (di cucina?); anzi, per ordinargli di togliersi quelle braghe e quella tenuta elegante, tutta roba firmata, per non parlare dello scartocciarsi i capelli e dello sfilarsi i guanti.
L’interlocutore, divertito, risponde di essere Baal-Zebub, Principe delle Mosche, e di averlo tolto dalla sua raffinatissima cassa intarsiata, tutto profumato, aveva persino un cartellino come un pacco… A spedirglielo era stato Belial, il suo Ispettore dei Cimiteri; quanto all’abbigliamento, i citati calzoni griffati sono tecnicamente mutande di lino, e la sua “robe de chambre è un sudario di non piccole dimensioni”.
Il duca si inalbera stizzito: non si lascia insultare e sentirà parlare di lui, arrivederci – e fa per andarsene quando viene bloccato da un tipo di guardia (notiamo la sequenza da commedia). Per cui si sfrega gli occhi, sbadiglia, si stringe nella spalle, inizia a riflettere e cerca di vedere dove si trova. E qui la descrizione è straordinaria e fa pensare ancora una volta che Poe abbia in mente il Vathek, ma anche il Pandemonium descritto da Milton.
Una camera superba dall’altezza paurosa, con in luogo del soffitto “un ammasso vorticoso di nubi di fiamma” da cui pende una catena di metallo sconosciuto color sangue (l’oricalco di Atlantide? Non è necessario – e la suggestione dei ceppi pendenti dal cielo potrebbe rimontare a qualche storia orientale). Della catena, “l’estremità superiore si perdeva, come la città di Boston [così a partire dall’edizione 1845: nella prima versione era scritto “si perdeva, come Col — — — e,”, cioè Coleridge; in quella del 1842 a perdersi era Carlyle], parmi le nues, mentre, dalla sua estremità inferiore, pendeva un braciere”. E il fuoco all’interno ha una

luce così intensa, così tranquilla, così terribile, quale la Persia non adorò mai, quale il Guebro [cioè il mazdeo o zoroastriano] non imaginò mai, né mai sognò il Musulmano, quando, sazio d’oppio, si stende su un letto di papaveri, il dorso sopra i petali, e la faccia volta al nume d’Apollo.

È il Poe delle suggestioni orientalistiche più o meno svisate in favole: e la descrizione continua con le quattro nicchie negli angoli della camera, tre occupate da statue colossali (di bellezza greca, deformità egiziana e – guizzo ironico – un insieme francese) e una quarta dove la statua aveva dimensioni ben diverse, era velata ma ne spuntava “una caviglia affusolata, un piede calzato d’un sandalo; De l’Omelette si premette una mano sul cuore [probabilmente ripensa ai propri peccati galanti, ma la postura richiama quella dei dannati dell’inferno del Vathek], chiuse gli occhi, li alzò” e finiscono con l’incrociare vergognosi quelli di Satana. Però la grande camera è anche affrescata:

Ma i dipinti! – Cipride! Astarte! Astoreth! mille, e sempre la stessa! E Raffaello le ha contemplate! Sì, Raffaello è stato qui; infatti, non ha egli dipinto la…? e non fu, in conseguenza, dannato? [i critici non hanno ben capito quale dipinto Poe intenda: un nudo sensuale come La Fornarina, 1518-19?] I dipinti! – i dipinti! O lussuria! O amore! – chi mai, contemplando quelle bellezze vietate, avrà occhi per gli eleganti emblemi delle cornici d’oro costellanti i muri di porpora [porfido] e di giacinto [plausibilmente la pietra preziosa di Ap 21, 20]?

Nella prima versione il passo precedente, che differiva lievemente, era seguito dalla visione di innumerevoli alte e strette finestre dai vetri lavorati, “E le tende! — ah! quella seta eterea! — il fluttuare come vapore di quello splendido drappeggio!”, ancora una volta a richiamare il tema di cortinaggi sospettamente simili a quelli di un teatro. Dove comunque il gioco ironico finisce con il parlare il linguaggio febbricitante della visione.
Ora in effetti il duca, che pure di certe cose aveva sentito parlare ma è diverso vederle, viene preso dal terrore, “perché, attraverso la lugubre prospettiva, che una sola finestra senza tende offre, ecco! Ha visto splendere, laggiù, il più spaventoso dei fuochi!”. Certo, ancora l’eredità del Vathek con il Regno del Fuoco sotterraneo: ma appunto torna il fuoco. Quello del grande incendio di Richmond dell’infanzia di Edgar, dei giorni successivi alla morte di sua madre: dalle nubi di fiamma – come quella sera – sopra i muri aperti della sala, nella luce dardeggiante del braciere che pende dall’alto come un lampadario teatrale col suo cavo fatale, alla scena al di là di quella finestra, terribile, come quella del teatro in fiamme. E un’altra immagine insieme fantastica e raggelante vi fa eco, laddove il duca giunge a “sospettare che le gloriose, voluttuose, eterne melodie, che inondavan la sala, non fossero altro che i pianti e i lamenti dei dannati senza speranza, trasformantisi in musica attraverso l’alchimia dei magici vetri!” – ancora le finestre dell’edificio da cui pianti e lamenti eruttavano in uno spettacolo tragico.
A un tratto il duca nota anche su un’ottomana (torniamo alla suggestione orientaleggiante e alle visioni dell’inferno beckfordiano) “il petit maître – no, il Dio – che sedeva, quasi scolpito nel marmo” sorridendo pallido e amaro: non è chiaro a chi Poe si riferisca (Raffaello stesso?), ma è forse anche quell’immagine a spingere il duca ad agire, “che è quanto dire che un Francese non si smarrisce mai del tutto”. Senza scenate, che il duca detesta: ci sono armi sulla tavola – fioretti, stiletti – e lui, campione di duelli con sei morti al suo attivo, decide nientemeno che di sfidare il diavolo a duello. Ecco dunque che “con una grazia inimitabile, offre la scelta a Sua Maestà. Horreur! Sua Maestà non si batte!”. Il duca ricorda allora la frase dell’Abbé Louis-Edouard-Camille Gualtier, secondo cui il diavolo non rifiuta mai un gioco di carte – e lo sfida con quelle. Per inciso l’ottimo Gualtier aveva cercato di diffondere nozioni di geografia e lingue attraverso sistemi ludici col suo Cours complet de jeux instructifs, 1807, mentre il titolo Diable con la fantomatica frase citata da Poe non risulta tra le sue opere: e forse se l’è inventato il Nostro.
Certo, il modo di dire “battere il diavolo” è stato usato a evocare una situazione incredibile, ma storie dove ciò avviene (a opera soprattutto di santi, e non solo) non sono rare: tutti casi dove l’accordo non ha connotazione faustiana, cioè non si tratta di un patto di sangue teso a perdere l’anima, ma piuttosto di una lotta tra trickster dove l’apparentemente svantaggiato essere umano riesce a sconfiggere il Predatore per antonomasia. E si possono reperire storie tradizionali nei quali la sfida con l’inferno è proprio consumata al tavolo del gioco.
Anche qui dunque lo strumento di pericolo per l’anima diventa, con un sogghigno del giocatore Edgar, nientemeno che lo strumento per salvarsela. Certo, si tratta di decrittare le espressioni dell’avversario e simulare le proprie durante la partita, ma il duca aveva “scorso il suo Père le Brun”, cioè aveva ben presente il pittore seicentesco Charles Le Brun, 1619-1690, maestro nell’interpretare le diverse espressioni dei volti (e pure ricordato nelle Curiosities of Literature di Isaac D’Israeli – invece la prima edizione citava, al posto di Le Brun, “Pere La Chaise”, cioè il confessore di Luigi XIV, probabilmente per un lapsus poi corretto). Lo stesso diavolo del resto non può fare diversamente, limitandosi a intravedere con più acutezza la realtà da atteggiamenti e manifestazioni comunque esteriori (diversamente dai racconti The Bargain Lost e Bon-Bon, dove può invece leggere i pensieri).
Il duca, gran giocatore, è stato poi membro del Circolo Vingt-un (o meglio Vingt-et-un, “ventuno”, nome originario francese del Blackjack, ma la prima edizione aveva “membro dell’Accademia”). E ora considera che se perderà sarà doppiamente dannato, ma se vincerà potrà tornare ai suoi uccelletti…
Inizia così la partita, con il duca attentissimo e teso e invece “Sua Maestà” molto tranquillo nel mescolare le carte: “Uno spettatore li avrebbe presi per Francesco e Carlo”, cioè i due avversari Francesco I di Francia e Carlo V imperatore. Si distribuiscono le carte… però il diavolo volta, e trova la Regina invece del Re: mentre borbotta maledizioni, “De l’Omelette si pose una mano sul cuore” (nuovamente, notiamo, la postura dei dannati del Vathek).
Il diavolo affetta tranquillità, sorride e beve mentre giocano – ma alla fine deve incassare il fatto che sia l’avversario a calare il Re. “Sua Maestà parve assai di malumore”, e il duca si congeda con la rassicurazione ironicamente classicheggiante che se non fosse stato De l’Omelette non avrebbe avuto obiezioni a essere il Diavolo.
Il senso della storia è ovviamente quello di uno scherzo lieve, ma abbiamo visto come il testo, composto in parallelo al Metzengerstein, ne specchi gli incendi evocativi di suggestioni molto più drammatiche di quanto avvertito a una prima lettura. In fondo in entrambi l’eroe è un dannato, e qualcuno funge da testimone d’accusa (“Sua Maestà” maschera del patrigno Allan); e se l’istrionismo del ruolo di Metzengerstein giocava sulla fama losca che il giovane Edgar si era vista cucita addosso, qui muove a base di minuetti in francese, inchini e senso di sfida fantasticando sul proprio vizio del gioco. La raffinatezza edonista del duca è una liberissima, giocosa reinterpretazione di quella di Edgar, che non si bea di mobili ma di strofe raffinate, e l’“Horreur!” del duca è in fondo solo la versione comica dell’“HORROR” all’inizio del Metzengerstein.
The Duke (poi The Duc) de L’Omelette appare come detto in marzo, e un altro racconto del pacchetto inviato da Edgar segue sulla stessa rivista il 9 giugno. Si tratta di A Tale of Jerusalem (Una storia di Gerusalemme), che cambia decisamente set verso un contesto storico e vagamente esotico da letture di Giuseppe Flavio, e con una spruzzata di ironia sugli ebrei non strana nel contesto culturale.
Anche di questo testo non ci perviene il manoscritto, ma dalla prima pubblicazione attraverso le successive e fino alla versione canonica intervengono diverse variazioni – e ci si limiterà a esaminare alcune delle più significative.
63 a.C.: mentre l’esercito romano di Gneo Pompeo Magno sta assediando Gerusalemme, all’interno della città tre Gizbarim (cioè vice-collettori delle offerte al tempio) stanno discutendo della strana prova di generosità del condottiero assediante, che pur in quel contesto bellico concede loro alcuni agnelli per i sacrifici – peraltro pagati a caro prezzo. Abel-Phittim (in origine, Abel-Shittim), Buzi-Ben-Levi e Simeone il fariseo sono ritratti volutamente macchiettistici, con un linguaggio che suona calco ironico di un certo periodare biblico o comunque orientale. Visto che il secondo e il terzo si sono diffusi in considerazioni su quanto i pagani siano infidi, Abel-Phittim, più possibilista, osserva che i romani non hanno alcuna garanzia che loro gli agnelli non intendano semplicemente mangiarseli: una posizione che fa sdegnare il devotissimo Simeone membro della setta dei Picchianti (usi a manifestare la propria devozione rovinandosi i piedi contro il lastricato). Come potrebbero osar concepire simili sospetti… Ma Abel-Phittim blocca i suoi brontolii e invita ad affrettarsi ai bastioni presso la porta di Beniamino, dove avverrà lo scambio.
Giunti dunque sulla torre più alta delle mura, quella di Adoni-Bezek, abituale luogo di comunicazione con gli assedianti, devono constatare il loro numero impressionante – ed è lì che li raggiunge la voce arrogante di un soldato romano. Ingiunge di calare il paniere con la somma pattuita, ben trenta sicli d’argento per ogni agnello; e anzi li insulta per il ritardo con cui giungono a fruire della generosità di Pompeo. “Il dio Febo, ch’è un vero dio [“and no barbarian”, aggiungeva nella prima versione], sta scarrozzando pel cielo da un’ora”, mentre l’appuntamento era per l’alba. Ciò che dà la stura a un siparietto ironico di Simeone perplesso, che interpella Buzi-Ben-Levi edotto nelle “leggi dei Gentili” e che ha “soggiornato fra coloro che s’insozzano coi Teraphim” (un termine biblico un po’ criptico che sembra riferirsi agli idoli domestici dei semiti pagani) tentando di identificare il Febo citato con qualcuno degli infiniti dei pagani noti al mondo biblico. Ciò che permette a Poe di giocare come una filastrocca sulla fantasmagoria dei nomi:

“[…] — is it Nergal of whom the idolater speaketh? — or Ashimah? — or Nibhaz? — or Tartak? — or Adramalech? — or Anamalech? — or Succoth-Benith [nella prima versione Succoth-Benoth]? — or Dagon? — or Belial? — or Baal-Perith? [lo storico Baal-Berith] — or Baal-Peor? — or Baal-Zebub?”

Se ricordiamo il racconto precedente, il diavolo si presentava come Baal-Zebub, Principe delle Mosche, e parlava di Belial come suo Ispettore dei Cimiteri: non stupisce ritrovare qui i nomi nella loro identità originaria di idoli pagani. Comunque non è nessuno di quelli, ribatte il collega di Simeone, che invita piuttosto a fare attenzione con la corda per non far impigliare il paniere nella roccia. Ma alla fine la rozza carrucola funziona e molto più in basso scorgono confusamente – tra distanza e velo di nebbia (“which is unusual at Jerusalem”, aggiungeva la prima versione) – l’affaccendarsi dei romani attorno all’argento.
Però sta passando troppo tempo, incalza l’ora in cui gli agnelli dovrebbero essere ritualmente sacrificati, e i tre iniziano a preoccuparsi di venire sanzionati dal Tempio per tanta irregolarità (ovviamente una situazione surreale considerando il contesto dell’assedio, anche se sappiamo che gli invasori resteranno molto colpiti dallo scrupoloso rispetto degli ebrei verso i propri riti anche in tale frangente): e sospettano i romani di essersi semplicemente intascati i sicli. Ma a un tratto in distanza li vedono dare il segnale, e accorgendosi di un gran peso attaccato alla fune iniziano a tirare con fatica tra la nebbia sempre più fitta.
A un certo punto cominciano a intravedere qualcosa, pensano prima a un montone e poi a un vitello; e sono tutti contenti giubilando con toni che echeggiano (ancora ironicamente) il linguaggio orientaleggiante anticotestamentario. Finché, giunto a pochi piedi dai tre, la bestia si rivela ai loro sguardi inorriditi nient’altro che un grosso maiale, che a quel punto lasciano precipitar giù “in mezzo ai Filistei”: “la carne innominabile”, prendono a gemere i tre devoti. Solo allora comprendiamo il senso della citazione in incipit di Lucano: accennando che è riferita a Catone, Poe definisce quest’ultimo “un orripilante seccatore”, cioè bore, gioco di parole che richiama boar, verro.
Nelle prime versioni il testo presentava però ancora un capoverso, in ultimo stralciato, in cui il fariseo decideva con rabbia di non farsi più chiamare “Simeone, che significa ‘Lui che è sollecito’ [così nel 1832: nelle versioni 1836 del ‘Southern Literary Messenger’ e 1840 dei Tales of the Grotesque and Arabesque il significato è reso come ‘Lui che ascolta’ – in effetti l’ebraico Shim‛ün richiama l’idea dell’esaudire] ma Boanerges, ‘il figlio del tuono’”.
Il racconto, la cui ironia è avvertibile come detto prima ancora nei toni (battute, figure dei personaggi) che nella storia in sé, si ispira ovviamente al resoconto di Giuseppe Flavio sull’assedio da parte di Pompeo. L’avversione rituale degli ebrei (come per altro verso degli islamici) verso il maiale è parsa nel tempo sempre molto strana a chi non viva tabù rituali, e in barba a ogni idea odierna di politicamente corretto Poe e i suoi lettori trovano la beffa divertente. Tanto più che è possibile che i romani – in genere rispettosi dei culti di altri popoli – in senso stretto qui non stiano neppure violando gli accordi: dal tenore dell’episodio, coi tre Gizbarim che per il peso dell’animale pensano prima a un montone e poi a un vitello, il tipo di bestia da sacrificio potrebbe essere stato concordato in modo un po’ approssimativo. Ovviamente è impossibile pensare che gli assedianti romani ignorino l’atteggiamento degli ebrei verso i maiali: la storia finisce così col presentare un gioco beffardo sul rapporto tra diversi legalismi, in cui – altrettanto ovviamente – sono gli ebrei a finire maltrattati.
In realtà Poe non inventa dal nulla la storia, per il quale si ispira a linguaggio, suggestioni e a un episodio specifico del romanzo storico di Horatio Smith Zillah. A Tale of the Holy City (1828). In quelle pagine udiamo la vecchia nutrice della protagonista rammentare che nel corso dell’assedio di Pompeo gli ebrei avevano calato ogni giorno dalle mura denaro per gli agnelli dei sacrifici quotidiani, finché non si era sparsa la voce che proprio quei sacrifici impedivano la presa della città – e a quel punto i romani avrebbero posto nel paniere non un agnello ma un maiale. Per una fonte prima, si veda il Talmud, Soteh, fol. 49, col. 2.
Resta il fatto che Poe apprezza molto Horatio Smith per qualità ed erudizione; e anzi per la sua fantomatica raccolta del Folio Club – una cornice generale dove per qualche tempo vagheggia di incastonare i suoi primi racconti – il narratore di questa novella dovrebbe essere un “Mr. Chronologos Chronology, who admired Horace Smith”. Non è dunque costui l’oggetto della satira di Poe, ma piuttosto scrittori e lettori fermi all’idea che ogni racconto legato al mondo biblico debba essere per forza edificante o devoto. Una provocazione non banale in un’America protestante che con la Bibbia in mano si è forgiata, e dove a differenza che nei paesi cattolici i fedeli sono usi a confrontarsi non solo con il Nuovo Testamento ma anche robustamente con il Vecchio.
E non banale anche considerando che proprio l’assedio di Pompeo evocato in questa storia burlesca appare invece nell’immaginario ebraico ancora neotestamentario come legato a un evento simbolicamente scioccante: culminerà infatti in una seconda profanazione del Tempio – col condottiero che entra a cavallo nel Debir, cioè il sancta sanctorum –, a replicare la profanazione prima, e ormai considerata paradigmatica, nota come l’abominio della desolazione, perpetrata da Antioco IV Epifane con l’instaurazione nello spazio sacro di culti idolatri. È vero che Pompeo, dopo la profanazione compiuta, permetterà subito agli israeliti di effettuare la purificazione del tempio: ma i successivi richiami (allusivi e simbolici, sia nell’Antico che nel Nuovo Testamento) all’atto di Antioco finiranno col ricapitolare anche quello di Pompeo, la cui conquista della città dà del resto la stura in Israele a tutta una sofferta riflessione escatologica. In sostanza Poe, pur limitandosi alla scena dell’assedio, fa un uso provocatoriamente libero di un episodio doloroso per la sensibilità escatologica ancora dei giorni di Gesù: anche se non conserva (ultimo paragrafo, poi stralciato) l’ammiccamento più diretto ai Vangeli, a proposito di quell’epiteto Boanerges, “figlio del tuono”, che Gesù stesso attribuisce ai troppo focosi Giacomo e Giovanni.

(1-Continua)