di Franco Pezzini

[Qui la prima parte]

Agendo da uomini, falliremo da uomini

William Morris, Il sogno di John Ball, a cura di Wu Ming 4, pp. 144, € 15, Alegre, Roma 2025.

“A volte il mio grande impegno nelle questioni del presente viene ripagato da un bel sogno inatteso. S’intende quando dormo”: e il narrante si trova così proiettato non in un “sogno a tema architettonico”, come facilmente gli dona l’amore competente per quell’aspetto della cultura britannica, ma in un paesaggio di campagna, con gente vestita in modo arcaico. Anche lui si scopre paludato da abiti di un’epoca molto precedente la vittoriana: e camminando giunge in un villaggio dove un omone lo invita bonariamente a una taverna. Tale l’inizio, venato d’ironia affettuosa, di A Dream of John Ball di William Morris, pubblicato a puntate sul settimanale socialista “Commonweal” 1886-1887, e uscito in volume l’anno dopo: nel testo, presentato come un sogno dentro un sogno, l’autore crede di risvegliarsi nella primavera 1381 in Kent, e di rivivere in quel tempo un giorno e una notte.
Dall’aspro orizzonte delle saghe norrene ci spostiamo così al medioevo inglese, altra età amatissima da Morris e tanto ben evocata tra le stanze di Kelmscott Manor. Ma mettiamo subito le mani avanti: nessuna fuga passatista ne connota i richiami alla Bellezza, e del resto l’autore ha studiato troppo l’età di mezzo per annacquarne le fantasie. In questa breve meravigliosa opera, forte oltretutto di un’edizione italiana ottimamente curata, non troviamo dunque corti favolose o fantasie sul limite del disneyano: in scena, in una ricostruzione emozionante, è la rivolta popolare del 1381 suscitata appunto dal prete John Ball (c. 1338-1381). A curare il volume, con una Prefazione tersa e bellissima è Wu Ming 4, che offre conto anche della complessità di una traduzione equilibrata – e giustamente godibile – a confronto con arcaismi lessicali e sintattici molto precedenti l’epoca di stesura dell’opera. Si citava Tolkien, che in più punti del Signore degli Anelli mostra di cogliere echi di queste pagine bellissime.
Al timone è il Morris più schierato socialmente e politicamente, quello avvicinato un giorno in metropolitana da un lavoratore che l’aveva riconosciuto:

Mi dicono che siete un poeta, signor Morris. Be’, io non so niente di poeti e di poesia, ma sono dannatamente certo di saper riconoscere un uomo, e voi lo siete, per Dio!

Un Morris di estrazione agiata e borghese, ma che era sceso in campo con onesta e convolta partecipazione per i diritti dei lavoratori e degli sfruttati – per la Causa, come diceva, e senza pose pauperistiche. Attirandosi anche le critiche e la freddezza di compagni di lotta come George Bernard Shaw e Friedrich Engels. Tanto più che era un militante entusiasta e visionario ma non un teorico, non aveva capito – lo ammetteva lui stesso – la teoria marxiana del valore, e pur continuando a teorizzare la rivoluzione proletaria accetterà a malincuore la soluzione parlamentare di un partito dei lavoratori. Ma al di là di limiti e sconfitte, nella polifonia delle sue personalità artistiche e umane Morris non si lascerà demoralizzare, lottando perché il bello e l’utile non conoscessero un rapporto schizoide e il capitalismo non rendesse la vita un inferno sulla terra.

Al marxismo era approdato tardi e per vie inusuali, proprio riflettendo sul passato tanto caro ai preraffaelliti, almeno inizialmente eversori delle convenzioni estetiche della borghesia vittoriana (che poi si approprierà anche del loro orizzonte fantastico). Morris non rigettava la tecnologia in sé ma il capitalismo che scippava all’artigiano la Bellezza, costringendo il lavoratore “a produrla come una merce qualsiasi”: ed era convinto che il lavoro libero dallo sfruttamento non fosse una condanna ma un’attività creativa fondamentale. Fino a raccontare in News from Nowhere (1890) un’Inghilterra comunista del XXI secolo con una vita più armonica a contatto con l’ambiente, un decentramento municipalista e una cooperazione locale dei lavoratori.
Per lui paesaggio e architettura sono importanti, salvaguardando – senza restauri o riqualificazioni, che osteggiava in quanto rigenerazione edilizia per produrre profitto (possiamo immaginare cosa direbbe delle nostre città in mano agli immobiliaristi) – un passato utile a contestualizzare il presente e proiettarsi nel futuro.
Ma il guardare nel passato non aveva funzione nostalgica e conservatrice, non lo accompagnava nessun sogno di cavalleria aristocratica o sacralità monarchica: l’interesse era alle gilde artigiane richiamate con il movimento Arts and Crafts e alle rivolte contadine prodromiche di lotte a lui coeve. Rifiutando un’idea di progresso legata alla “civilizzazione” e funzionale all’oppressione capitalistica e alla spregiudicata compravendita del lavoro, Morris non era cieco su una serie di conquiste fondamentali e sul rischio di un’ingenuità nel vagheggiare il passato, ma di quello intendeva recuperare un certo spirito di comunità e di Bellezza. Con la critica serrata al mito del progresso funzionale al capitale: non condivideva l’idea marxista di un’azione unificante del capitalismo come utile al collasso della realtà economica per l’affermarsi del comunismo. E piuttosto andava a cercare prodromi di comunismo nel medioevo: in quello di John Ball, appunto.
Per quanto si parli di rivolta dei contadini, l’insurrezione – scatenata da una nuova tassa sulle persone fisiche, 1380, legata alle necessità della casse del regno nella situazione della Guerra dei cent’anni (1337-1453) – coinvolse anche gli artigiani dei centri urbani. Considerando chi in quella guerra andava a grandi numeri a farsi ammazzare, la situazione era ancora più insostenibile. Vero, dopo l’epidemia di peste 1348, a popolazione dimezzata, i braccianti venivano pagati un tantino di più, ma il pronto soccorso istituzionale agli interessi dei nobili aveva subito frenato quei miglioramenti, fissando in particolare i salari alla situazione prima dell’epidemia e rendendo un crimine rifiutare il lavoro. Di qui, tra gli sfruttati, forme di resistenza e aggiramento legale (per esempio cambiando lavoro) e associazioni in gilde professionali.
Si partì dunque col contestare il nuovo balzello: seguirono attacchi agli archivi per bruciare gli atti di proprietà, e l’invasione di Londra in decine di migliaia. Costringendo così il quattordicenne Riccardo II ad abolire formalmente la servitù della gleba: siamo i suoi sudditi più fedeli, dicono gli insorti, che identificano il nemico in nobili, alto clero e grandi mercanti e, a un secondo livello, nei funzionari governativi. Di qualcuno di costoro venne anzi fatta giustizia sommaria. Facile immaginare la reazione spietata che sarebbe seguita.
Autopresentatosi nel racconto come uomo dell’Essex – dove un altro contingente di ribelli si sta radunando – il Nostro trova un protettore nel rude, espansivo e amabilmente sfottente Will Green, prototipo del yeoman, arciere reduce di guerra, forse una sintesi di caratteri e virtù del militante-tipo che Morris ha imparato ad apprezzare: è lui a portarlo a udire John Ball, il prete rivoluzionario, e poi in battaglia contro la milizia di aristocratici e sceriffi – dove il numero di caduti è però contenuto. “When Adam delved and Eve span, who was then the gentleman?”: brandendo la Bibbia, si arriva a prefigurare una società comunistica, che Morris rievoca con innamorata ammirazione.

Non seguiamo passo passo le vicende degli insorti legati dalla Fellowship (qui reso felicemente “Comunanza”), unione gentile dei poveri e dei santi e principio opposto a quello della concorrenza imposto dai più socialmente forti. Quelli non bisogna ascoltarli né discutere con loro, perché si sa già cosa diranno (cosa, oggi, continuano a dire):

“Bifolco, lascia che ti imbrigli e ti selli, e che mangi il sostentamento che ti sei guadagnato, e che ti chiami con nomi umilianti perché io sono quello che ti mangia. E non parlare e non dire e non fare nulla per tuo conto, se non te lo ordino io”. Questo è il succo di ogni loro discorso.

Ovviamente gli insorti, prima circuiti, verranno poi schiacciati con una sanguinosa repressione e resettando ogni loro conquista ottenuta. Ma lo struggente, bellissimo dialogo notturno tra il Nostro e John Ball (che continua “ad avere l’impressione che tu abbia visto cose che io non ho visto, né avrei potuto vedere” e dunque lo trattiene a parlare) strappa commozione al lettore – quello almeno che non aderisca all’altro schieramento. Il sacerdote ha capito di aver a che fare con un interlocutore speciale, e lo esorta a parlare del futuro – salvo incontrare grosse difficoltà a capire quel mondo. Come suona infatti il titolo del cap. 11, Difficile è per il vecchio mondo vedere il nuovo. Sconcertato dalla prospettiva del futuro sfruttamento capitalistico, Ball starebbe per cedere alla tristezza ma l’interlocutore può almeno tranquillizzarlo sul fatto che la Schiera della Comunanza ci sarà ancora e qualcosa alla fine cambierà. Ball allora si congeda benevolo: “Tu sei stato un sogno per me e io lo sono stato per te, e ci siamo rattristati e rallegrati a vicenda, come solo i racconti dei tempi passati e il desiderio dei tempi futuri possono fare”. Il narrante si risveglia nel suo letto, nel rumore in distanza delle sirene delle fabbriche: non assiste alla mattanza e alla morte del candido prete, impiccato, sventrato e squartato, secondo la barbarica giustizia medievale (ma in vigore almeno formale fino all’Ottocento) inglese. Però quel precedente, minaccioso per i governanti, non verrà dimenticato, ed è chiaro perché Morris lo prenda a sfondo del proprio Sogno. Come sintetizza il curatore,

William Morris sarebbe morto nel 1896, in un momento storico in cui il movimento operaio sembrava destinato o a ripiegare su un orizzonte riformista o ad attendere invano il collasso del capitalismo, che si sarebbe rivelato capace di rigenerarsi dopo ogni crisi ciclica. Ciò nonostante, per quanto attestato su posizioni minoritarie e sopportato da molti, Morris fino all’ultimo non si perse d’animo, continuando a prefigurare un mondo e un’umanità migliori di quanto il suo tempo gli avesse consegnato. Un’umanità che sapesse non soltanto uscire dall’alienazione capitalistica attraverso una presa di coscienza e un processo radicalmente rivoluzionario, ma anche recuperare il senso della storia, del passato, tornare a godere del meglio della tradizione artistica, fosse quella architettonica, artigianale e pittorica o quella poetico-letteraria, cioè autoformarsi coltivando l’unione del bello e dell’utile. Pochi intellettuali del suo tempo cercarono con altrettanta dedizione, anche a costo di apparire ingenui, di far convergere lotta di classe e battaglia culturale come due facce della stessa medaglia. E forse le parole che alla fine di A Dream of John Ball il protagonista rivolge al prete ribelle rivelano anche quello che Morris sperava per sé stesso: “nei giorni a venire il tuo nome rimarrà legato alla speranza che hai nutrito e non verrai dimenticato”.

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