di Cesare Battisti
Non capita tutti i giorni, scendere per l’ora d’aria e trovare nel cortile una faccia nuova con cui parlare. Senza correre il rischio di sorbirsi la solita arringa d’innocenza, condita di insulti all’avvocato per quel processo andato male. Il truffaldino ha il passo ondulante, ha conosciuto i miei stessi cortili di galera, sa che in fondo c’è sempre un muro e non ha nessuna fretta di arrivare. Lui è della “vecchia”, come si suol dire da queste parti, di quelli che non sprecano parole, nemmeno quando la battuta appena fatta sembra sganciata da un pensiero vero.
Abbiamo in comune poco o niente, tranne le rughe e un inatteso ritorno in carcere dopo quasi mezzo secolo. Quelli come me, lui li ha conosciuti nei Settanta, quando ancora politici e comuni respiravano insieme l’aria dello stesso cortile. Deve aver poi seguito la mia storia sui giornali e adesso non gli sembra vero di aver trovato proprio qui un veterano per ricordare i tempi in cui il carcere era una “cosa seria e dentro ci finivano solo i criminali”. È un truffaldino, ha l’occhio lungo e il sorriso vago di certi pescatori, che hanno appena gettato l’amo dove sanno di pescare.
Fa un vago gesto con la mano:
«Mancano i medici e c’è pure carestia di preti, malati e anime perse adesso li fanno carcerati. E sì, noi sì che si era un’altra cosa.»
Il carcere che ricorda lui era fatto di violenza, di regole omertose e di fetore. Si sopravviveva ai soprusi e alla sofferenza grazie all’unione, era la solidarietà di tutti coloro che quella violenza la vivevano sulla propria pelle. Adesso qui, sembra che chi affonda nella disperazione e nell’abbandono non trovi nessuno a tendergli la mano. Perché non ci si unisce più in nome di un diritto dovuto e spesso non concesso, ma si insegue in solitario il beneficio personale. Quasi sempre a discapito dell’altro che ti sta accanto e soffre come te. Gli sguardi vuoti, i degenti ai quali si riferisce il Truffaldino appartengono a chi si sente sfinito davanti all’abuso di potere, spogliato perfino dall’iniquità di una pena. Che pur accetta, a momenti alterni, ma che non può sopportare perché non la capisce. Un delinquente, se lo fosse realmente, dovrebbe almeno saper dire come e dove è iniziata la sua rovina. Ma per farlo deve avere una coscienza, deve poter dire chi è, da dove viene, magari anche sapere dove sta andando, senza pestare i piedi a nessuno soprattutto i propri.
Il truffaldino ha ragione. Io stesso, appena arrivato qui, mi guardavo attorno e vedevo solo facce nemmeno più capaci di esprimere dolore. E nel panico, mi chiedevo se avevo perso anch’io l’orientamento. Come loro, come tutti, “come succede anche là fuori”. Così dice il Truffaldino e io non posso rispondere, perché dal Brasile sono andato dritto in carcere, senza passare dall’Italia, o meglio sì, quella penitenziaria. Una volta si concedeva alla popolazione detenuta il diritto di esistere, c’era chi lo rivendicava con spavalderia. Un atteggiamento che può essere discutibile, ma oggi pare che il detenuto sia stato spogliato anche di quest’ultima parvente identità.
Non si è più niente: malati, forse, ma senza cure. Il Truffaldino ha ragione, si è soli e senza speranza. Non si evade nemmeno più, chi lo fa ancora non cerca la libertà ma un muro diverso da questo contro cui scontrarsi. Non scappa, si abbandona per inedia.
Forse esagero, colpa del Truffaldino che mi è capitato tra capo e collo e adesso penso troppo e questo mi fa male. Si può essere nostalgici perfino della vecchia vita di prigione? O dell’identità che comunque essa allora dispensava? Era un’identità spesso edificata contro, forgiata nella lotta, anche dura, ma sempre e solo se necessaria e, talvolta, anche compresa dalla parte avversa. Erano tempi duri, con atti estremi per sottrarsi alla morsa dell’art 90, e la risposta devastante dello Stato. Ma mai ci siamo lasciati appiattire sulla condizione animale, ristretti all’istante presente, alla necessità feroce, ad assaltarci l’un l’altro per sopravvivere al rigore atroce, come invece avrebbero voluto certi nostri aguzzini.
Al contrario, è proprio in carcere, in condizioni estreme che ho incontrato persone insospettabili tendere la mano all’avversario di ieri: si può essere nemici nel conflitto, mai in tempi di pace.
È significativo il fatto che nonostante il regime duro, in confronto, non ci siano stati in tempi di conflitto così tanti suicidi in carcere. Non ricordo di agenti che si toglievano la vita. Non ci si uccide di fronte al nemico, si è troppo impegnati a difendersi. Se guardiamo alle statistiche, la differenza con l’attualità salta agli occhi. Oggi si muore in silenzio, nell’indifferenza generale. Muoiono a milioni gli innocenti sotto le bombe sganciate dai “Governi buoni”, a chi dovrebbero importare cento vite stanche di prigione?
Al suono della campanella, io e il mio Truffaldino ci siamo messi in fila come tutti gli altri. La schiena curva e lo sguardo a terra, per non doverci dire nemmeno con gli occhi quanto inutili siano le parole. Dette in un pomeriggio di mezza estate, tra vecchi reclusi che non non si vogliono adattare.
Eppure qualcosa resta. È come un suono lontano che continua a fluttuare, una reminiscenza di sapere che mi insegue fino in cella. Un’idea senza contorni che non mi lascia pensare agli affari miei, è maliziosa, si intromette, come se ne sapesse più di me e non me lo vuole dire.



